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240 | gli duoi fratelli rivali |
Don Flaminio. Oimè, ci è gionta un’altra persona: e se il parlar di uno era cosí lungo, or che vi è gionta un’altra persona, sará altro tanto.
Leccardo. ... Oh oh, che m’era smenticato il meglio! Prima che venisse quel cuoco... .
Don Flaminio. Quando pensava che fusse alla metá dell’istoria, ci avevi lasciato il principio; e or al principio bisogna dar un altro principio.
Leccardo. Se non volete ascoltar, io taccio.
Don Flaminio. Eh, parla col diavolo!
Leccardo. Non parlo col diavolo io.
Don Flaminio. E tu parla con Dio.
Leccardo. Or questo sí, in nomine Domini.
Don Flaminio. Amen.
Leccardo. Voi dite «amen» come fosse al fine e non sete ancora al principio.
Don Flaminio. Spediscimi, per amor di Dio!
Leccardo. Sei bello e spedito. Carizia è maritata con un parente del viceré della provincia.
Don Flaminio. Se tu dici da senno, m’uccidi; se da burla, dove ci va la vita mi ferisci troppo acerbamente. Sai tu il nome del marito?
Leccardo. Sí bene; ma non me ne ricordo, perché era troppo intricato.
Don Flaminio. Ricordati bene.
Leccardo. Spedazio..., Pignatazio... . Il nome s’assomigliava al spede o pignato, e però me ne ricordo.
Don Flaminio. Fosse don Ignazio?
Leccardo. Sí sí, don Ignazio, ... Spedazio.
Don Flaminio. M’hai ucciso, m’hai morto: le tue parole mi sono spiedi e spade che m’hanno mortalmente trafitto il cuore. Or sí che m’hai portato la morte nella lingua.
Leccardo. Dubito averla portata a me stesso, ché per la mala novella non serò piú medicato come oggi.
Don Flaminio, Da questo principio posso indovinar la mia sciagura: piú dolente uomo di me non vive sopra la terra!