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atto secondo 229


Panimbolo. Bisogna con una nuova bugia salvar la vecchia bugia: andiamo a casa del conte e rimediamo in alcun modo.

Don Flaminio. Andiamo; e se uscirò con onor mio da questa bugia, un’altra volta non sarò cosí prodigo del mio onore.

SCENA VI.

Eufranone, don Ignazio.

Eufranone. (Veramente chi ha una picciola villa non fa patir di fame la sua famigliola. Di qua s’hanno erbicine per l’insalate e per le minestre, legna per lo fuoco e vino, che se non basta per tutto, almeno a soffrir piú leggiermente il peso della misera povertá. O me infelice se, fra l’altre robbe che mi tolse il rigor della rubellione, mi avesse tolta ancor questa! Mi ho còlto una insalatuccia; ché «chi mangia una insalata, non va a letto senza cena»).

Don Ignazio. Eufranone carissimo, Dio vi dia ogni bene!

Eufranone. Questa speranza ho in lui.

Don Ignazio. Come state?

Eufranone. Non posso star bene essendo cosí povero come sono.

Don Ignazio. Servitivi della mia robba, che è il maggior servigio che far mi possiate. Copritevi.

Eufranone. È mio debito star cosí.

Don Ignazio. Usate meco troppe cerimonie.

Eufranone. Perché mi sète signore.

Don Ignazio. Vi priego che trattiamo alla libera.

Eufranone. Orsú, per obedirvi. (Non so che voglia costui da me: mi fa entrar in sospetto).

Don Ignazio. Or veniva a trovarvi.

Eufranone. Potevate mandar a chiamarmi, ché serei venuto volando.

Don Ignazio. Son molti giorni che desio esservi parente; e son venuto a farmevi conoscere per tale, ché veramente sète assai onorato e da bene.