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atto secondo | 221 |
quel capel biondo saper canuto, sotto quel petto giovenile consiglio antico; e se ben è povera d’oro, l’onore non li fa conoscer bisogno alcuno, perché si stima ricca d’onore e di se stessa: e nella sua onestá s’inchiude il suo tesoro e la sua dote. Onde non sperate che il falso splendor d’oro o di gioie le appanne gli occhi; né col mostrarvi vinto della sua bellezza, di vincer lei; o col mostrarvi ubidiente, trionfar della sua volontá; o col mostrarvi servo, signoreggiarla: perché il vostro sperar fia vano, e la moverete piú tosto ad odio che ad amarvi.
Don Ignazio. Signora, io n’ho piú timore veder i suoi lumi turbati di sdegno contra di me — da’ quali depende il maggior contento ch’abbi nella vita — che perder l’istessa vita; e vi giuro per quel cielo e per Colui che ci alberga dentro, ch’amo le sue bellezze come modesto sposo e non come lascivo amante; ché chi ama la bellezza e non l’onore, non è amante ma inimicissimo tiranno.
Angiola. Dubito che non mi proponiate un infame amore sotto una onorata richiesta di nozze.
Don Ignazio. O Iddio, non mi conoscete nel fronte e negli occhi pregni di lacrime l’effetto della mia fede, che son ridotto all’ultimo termine della mia vita? ché se non voglio morire, son costretto toglierla per moglie?
Angiola. Ditemi di grazia, che cosa desiate da lei?
Don Ignazio. Se non che pregarla che m’accetti per sposo, pur se non sdegna cosí basso sogetto.
Angiola. Non sapete voi meglio di me che questo ufficio convien farsi col padre e non con lei, perché non lice ad una donzella dispor di se stessa?
Don Ignazio. Io non cerco altro da lei in ricompensa del singular amor che le porto, che sia favorito da lei dirglielo con la bocca e con le mie orecchie sentir le sue parole e pascer per quel breve momento gli occhi miei avidi e affamati, in cosí lungo digiuno, della sua vista; ché da quel giorno della festa non fu mai possibile di rivederla.
Angiola. Se ben quel che mi chiedete non abbi molto dell’onesto, pure traporrò l’autoritá mia, per quanto val appo