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232 | gli duoi fratelli rivali |
arricchire con le doti delle mogli. Io prendo la vostra destra e non la lascierò mai se non la mi prometteti.
Eufranone. Temo prometterlavi: non so che nuvolo mi sta dinanzi al core.
Don Ignazio. Eufranone, mio padre, vi prego a darlami con vostro consenso, ché non mi fate far qualche pazzia. Non mi sforzate a far quello per forza che me si deve per debito d’amore. A pena posso contenermi ne’ termini dell’onestá: son risoluto averla per moglie, ancorché fusse sicuro perder la robba, la vita e l’onore, per non dir piú.
Eufranone. Signore, perdonatemi se mi fo vincere dalla vostra ostinata cortesia: ecco la mano in segno d’amicizia e di parentado, avertendovi di nuovo che non ho dote da darvi.
Don Ignazio. E ancorché me la voleste dare, non la vorrei: conosco non meritar tanta dote quanta ne porta seco. Vo’ che si facci festa bandita, si conviti tutta la nobiltá di Salerno, adornisi la sala di razzi, faccisi un solenne banchetto, adornisi la sposa di gioie, perle e di drappi d’oro, e non si lasci adietro cosa per dimostrar l’interno contento dell’animo mio.
Eufranone. V’ho detto quanto sia mal agiato di far questo.
Don Ignazio. A tutto provederò ben io: mandare il mio cameriero che proveda quanto fia di mestiero.
Eufranone. Quando verrete a sposarla?
Don Ignazio. Vorrei venir prima che partirmi da voi. Ma perché l’ora è tarda, verrò domani all’alba: ponete il tutto in ponto per quell’ora.
Eufranone. Si fará quanto comandate.
Don Ignazio. Io non vo’ trattener piú voi né me stesso: andrò a mandarvi quanto ho promesso.
Eufranone. Andate in buon’ora. — O Dio, che ventura è questa! Desidero communicar una mia tanta allegrezza con alcuno. Ma veggio Polisena, la mia moglie, che vien a tempo per ricever da me cosí insperato contento.