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atto secondo 223


Carizia. Vi priego a spiegarmi il vostro desiderio con le piú brevi parole che potete.

Don Ignazio. Signora della vita mia — e perdonatime si ho detto «mia», ché dal giorno che la viddi la consacrai alla vostra cara bellezza, — io non desio altro in questa vita che essere vostro sposo: e perdonate all’ardire che presume tanto alto.

Carizia. Caro signore, io ben conosco la disaguaglianza de’ nostri stati e la mia umile fortuna, a cui non lice sperar sposo sí grande di valore e di ricchezza come voi; però ricercate altra che sia piú meritevole d’un vostro pari, e lasciate me poverella ch’umilmente nel mio stato mi viva. La mia sorte mi comanda ch’abbia l’occhio alla mia bassa condizione. So che lo dite per prendervi gioco di me: la mia dote e la mia ricchezza s’inchiude nella mia onestá, la quale inviolabilmente nella mia povertá custodisco.

Don Ignazio. Troppo suntuosa è la vostra dote, signora, la quale quanto piú dimostrate sprezzarla piú l’ingrandite; le vostre ricchezze sono inestimabil tesoro di tante peregrine virtú, le quali resiedeno in voi come in suo proprio albergo: meriti ordinari si possono con le parole lodare, ma i gradi infiniti si lodano meravigliando, e con atti di riverenza tacendo si riveriscono. Ma voi lo dite accioché io n’abbia scorno, ché troppo povero mercante a cosí gran fiera compaia per comprarla: e veramente meritarci quel scorno che mi fate, se non venissi ricchissimo d’amore, ché non basta comprarse l’infinito valore de’ vostri meriti se non con l’infinito amore che le porto.

Carizia. So che in una mia pari non cadono tanti meriti; e per non poter trovar parole condegne per risponderli, vi risponde tacendo il core.

Don Ignazio. Signora, ecco un anello nel cui diamante sono scolpite due fedi: tenetelo per amore e segno del sponsalizio. Il dono è picciolo ben sí; ma si considerate l’affetto di chi lo dona, egli è ben degno di lei.

Carizia, Il dono è ben degno di lui; nondimeno... , ma ben sapete che il rigor dell’onestá delle donzelle non permette ricever doni.