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atto secondo | 241 |
Leccardo. Al fin, il mal bisogna sapersi che si possa rimediar a tempo. E dicevano che le nozze si facevano domani all’alba.
Don Flaminio. Tanto men spazio di tempo è dato alla mia vita. Una tempesta di pungenti pensieri m’ha ferito il core, una nuvola di malinconia m’ha circondato l’anima, giá la gelosia ha preso possesso del mio core: non posso fingermi piú ragioni contro me stesso per trasviarla. Ahi! che da quel giorno maledetto che la viddi, ho portato sempre questo sospetto attraversato nell’alma: e come il condennato a morte ogni romor che sente, ogni uscio che s’apre, gli par il boia che venghi e gli adatti il capestro al collo; cosí ogni parola, ogni motivo di mio fratello mi parea che mi la togliesse! Ahi, che mai l’ho desiata come adesso! ché «mai si conosce il bene se non quando si perde». Io non basto né posso vivere: se non m’ucciderá il dolore, m’ucciderò con le mie mani.
Panimbolo. Padrone, voi sète bene avezzo a’ casi dell’una e l’altra fortuna. Reggetevi con maturo consiglio: bisogna dar fine all’ostinazione; e nelle cose impossibili far buon cuore e abbandonar l’impresa, e prender una risoluzione tanto onorata quanto necessaria.
Don Flaminio. Panimbolo, se sei cosí di vile animo, non avilir e spaventar l’animo mio: se pensi rimovermi da sí bella impresa, ammazzami prima. Io non vo’ andar incontro alla fortuna, né restar cosí vinto alla prima battaglia né lasciar cosa intentata fin alla morte.
Panimbolo. Orsú, facciasi tutto il possibile, ch’avendo a morire, quando s’è fatto quanto umanamente può farsi, si muor piú contento. Andiamo in Palazzo, informiamoci del fatto. Leccardo, trattienti da qua intorno, ch’avendo bisogno di te non abbiamo a cercarti. Va’ e vieni.
Leccardo. Andrò e verrò.