Giacomo Leopardi/Nota
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NOTA
Il saggio incompiuto sul Leopardi deriva dalle lezioni che il De Sanctis tenne all’Università di Napoli nell’anno accademico 1875-76, dal 14 gennaio 1876 in poi, come prosecuzione dei corsi degli anni 1871-74 sul Manzoni e la scuola liberale e sul Mazzini e la scuola democratica. Le diciotto lezioni (che corrispondono ai primi quattordici capitoli della presente edizione) furono sunteggiate, rielaborate e pubblicate sui quotidiani Roma di Napoli e Diritto di Roma, fra il 24 gennaio 1876 e il 24 settembre dello stesso anno1 Poi il lavoro fu proseguito direttamente in diciannove articoli pubblicati sugli stessi quotidiani durante il 1877 e l’inizio del 18782. Lezioni pubblicate ed articoli vennero infine ripresi e rielaborati in diversa misura del De Sanctis nel 1883 (dall’agosto alla morte, avvenuta il 29 dicembre) in un manoscritto (solo in piccola parte autografo, ma tutto corretto e riveduto da lui), che costituisce la parte veramente da lui autorizzata e che corrisponde ai primi trentadue capitoli della presente edizione. Ma già nel 1879 e nel 1881 il De Sanctis aveva pubblicato nella Nuova Antologia3due saggi leopardiani: Leopardi risorto (15 ottobre 1879) e II nuovo Leopardi (1 luglio 1881), che continuavano lo studio sul Leopardi e che, se la morte non avesse interrotto il lavoro del critico, sarebbero stati certamente aggiunti alla parte riveduta e corretta del manoscritto napoletano, come sarebbe avvenuto per altri due capitoli: Silvia e I nuovi idillii rimasti manoscritti. Come base di una pubblicazione del saggio incompiuto rimanevano così il manoscritto conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli (Carte De Sanctis, fasc. 70, XVI, c. 51)4, e, per la prosecuzione dopo il cap. XXXII, i due articoli citati della Nuova Antologia e alcuni manoscritti ora posseduti dalla Biblioteca Provinciale di Avellino5: precisamente, nel quaderno IV il testo autografo dei capp. XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI, XXXVII, nel quaderno V una copia del cap. XXXVII, nel quaderno VI una copia del cap. XXXVIII e due brevi scritti: Silvia e A Recanati pure non autografi, nel quaderno VII una copia frammentaria del cap. XXXVI. Altra copia del cap. XXXVI si trova allegata al manoscritto della Nazionale di Napoli.
Nel 1885 Raffaele Bonari, scolaro del grande critico, pubblicò il manoscritto di Napoli, con il titolo: Francesco De Sanctis, Studio su Giacomo Leopardi (Napoli, Morano, 1885) aggiungendovi il capitolo Il nuovo Leopardi (nella redazione della Nazionale di Napoli, imperfetta ed intermedia fra l’autografo e la stampa) senza numerarlo e considerandolo erroneamente come «il paragrafo che segue immediatamente al penultimo ed inizio della parte interamente nuova» e credendolo inedito6, mentre, come si è detto, il capitolo era stato già riveduto e pubblicato dal De Sanctis nella Nuova Antologia. Il Bonari trascrisse con molta fedeltà il manoscritto, apportandovi solo «qualche lieve mutamento di punteggiatura, secondo la forma di punteggiatura, che l’autore stesso segue in casi analoghi nei pochi brani autografi»7, e correggendo in maniera molto discontinua le citazioni del Leopardi e d’altri «sulle edizioni migliori». La mancanza più grave dell’edizione del Bonari è costituita dall’assenza di quei capitoli, che, almeno in parte, egli avrebbe potuto ricostruire dai due articoli della Nuova Antologia, ma per il testo dei trentadue capitoli del manoscritto non si può dire che egli sia incorso «in infiniti errori»8 e semmai gli si può rimproverare il mancato riscontro dei giornali, che lo avrebbe aiutato ad eliminare alcune sviste, del resto di per sè evidenti, dei vari copisti del manoscritto. Diamo qui un elenco degli errori del Bonari (che indicheremo con Bo) trascurando le non frequenti modificazioni di grafia in parole come «giovane-giovine», «maraviglia-meraviglia» ecc. e quegli errori o modificazioni che derivano dal mancato riscontro dei giornali e dalla saltuaria correzione delle citazioni.
Cap. I, p. 6 r. 30: «discorsevole», Bo «discorrevole».
Cap. III, p. 18 r. 13: «parla sempre lui, e non ha a fronte contraddittori», Bo «parla sempre, e lui: non ha a fronte contraddittori».
Cap. IV, p. 26 r. 25: «suol», Bo «vuol». P. 28 r. 2: «Anacreonte», Bo «l’Anacreonte». P. 30 r. 35: «in quella», Bo «in questa». P. 32 r. 31: «sarà una orchestra», Bo «farà una orchestra».
Cap. V, p. 34 r. 36: «Dio mi perdoni», Bo «Dio gli perdoni». P. 35 r 19: «declamando a gran voce», Bo «declamando a grave voce». P. 38 r. 34: «senti nominare», Bo «senti a nominare». P. 40 r. 1: «e altri antichi», Bo «e ad altri antichi».
Cap. VI, p. 41 r. 9: «Baldi», Bo «Zaldi». P. 45 r. 9: «questo», Bo «questa». Cap. VIII, p. 55 r. 32: «crederla», Bo «crederle». P. 56 r. 10: «incontratasi», Bo «incontratesi». P. 59 r. 8: «e che», Bo «pensiero che».
Cap. IX, p. 69 r. 14: «fondamenta», Bo «fontamenta». P. 70 r. 3: «parve al padre», Bo «al padre parve».
Cap. X, p. 77 r. 30: «è cosa», Bo «son cosa». P. 80 r. 20: «altro da quello ch’eragli apparso», Bo «altro ch’eragli apparso».
Cap. XI, p. 84 rr. 22-23: «L’idea e il nome gli venne naturalmente dagli idillii greci, lui traduttore di Mosco», Bo «L’idea e il nome gli vennero naturalmente dagli idillii greci, a lui traduttore di Mosco». Noi manteniamo la lezione del manoscritto e dei giornali, essendo uso comune del De Sanctis sia l’accordo di due sostantivi al singolare, sia la forma assoluta «lui traduttore» (essendo lui traduttore). P. 87 r. 26: «È la voluttà del Bramino, poeta anche lui, dello sparire individuale», Bo «È la voluttà del Bramino, poeta anche lui, la voluttà dello sparire universale» (la ripetizione di «la voluttà» assente nel manoscritto e nei giornali, è inutile perché il senso risulta chiaro dalla punteggiatura, che pone «poeta anche lui» come in un inciso). P. 100 r. 23: «È l’ideale», Bo «E l’ideale»; ivi r. 25: «quando», Bo «quanto». P. 105 r. 14: «quello», Bo «quel».
Cap. XV, p. 143 r. 10: «Non è già solo un prestanome, lo stesso Leopardi sotto altro nome», Bo «Non è già solo un prestanome, è lo stesso Leopardi sotto altro nome». L’aggiunta del secondo «è» (assente nel manoscritto e nei giornali) deforma gravemente il testo cambiando il senso del discorso critico che punta sulla natura complessa della figura di Bruto, il quale rispecchia i sentimenti del poeta, ma è anche «un personaggio storico», come si chiarisce anche meglio più sotto nella stessa pagina. P. 149 r. 26: «cioè a dire che escono», Bo «che escono».
Cap. XX, p. 174 r. 33: «un Vangelo», Bo «Vangelo». P. 175 r. 28 «Alamanni», Bo «Alemanni».
Cap. XXI, p. 185 r. 33: «scrive a Bunsen il giovane», Bo «scrive il giovane a Bunsen».
Cap. XXII, p. 190 r. 30: «Batracomiomachia», Bo «Batramiomachia».
Cap. XXIV, p. 200 r. 5: «Stratone da Lampsaco», Bo «Strabone da Lampsaco».
Cap. XXVII, p. 216 r. 16: «beffa», Bo «beffe». Cap. XXVIII, p. 224 r. 7: «conclusione», Bo «conclusioni».
Cap. XXXI, p. 234 r. 21: «aprano», Bo «aprono».
Degli ultimi capitoli, mancanti nell’edizione Bonari, si ebbe più tardi una parziale pubblicazione, dalla copia più imperfetta, del capitolo XXXVII, nel Fortunio (22 giugno 1893), e di un frammento del capitolo XXXVIII nel Pungolo (25-26 giugno 1893).
Fu merito di Benedetto Croce l’aver pubblicato negli Scritti varii inediti o rari di Francesco De Sanctis (Napoli, Morano, 1898, vol. II, pp. 101-135) i sei capitoli «in aggiunta allo Studio sul Leopardi» ristabilendo la successione e la divisione dei manoscritti di Avellino. Il Croce riprodusse per i capitoli XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI il testo della Nuova Antologia, e per i capitoli XXXVII e XXXVIII quello dei manoscritti («scegliendo le redazioni che ci sono sembrate per segni certi le ultime e più compiute»9), non senza qualche svista e qualche compromesso fra le varie redazioni, non sempre chiaramente giustificabile: come, ad esempio, a p. 260 rr. 9-13, dove è seguito il testo del manoscritto autografo, e non quello della Nuova Antologia, adottato in tutto il resto del capitolo. Indico qui solo alcune sviste o modificazioni più notevoli:
Cap. XXXIV, p. 250 r. 20: «non trovi». Croce «non siavi». P. 251 r. 21: «né il vino», Croce, «né il calore». Cap. XXXVII. P. 268 r. 2: «gli veniva innanzi la prima età», Croce «egli rivedeva la prima età; ivi r. 7: «Forse in quella ‘Via delle Rimembranze’», Croce «Forse, a Pisa, nella Via delle Rimembranze». P. 270 r. 15: «non le fissa gli occhi», Croce «non fissa i suoi occhi»; ivi r. 17: «l’intima letizia», Croce «letizia». Capitolo XXXVIII, p. 273 r. 34 - p. 274 r. 1: «quella vita allegra di natura e d’uomo, dalla quale si tengono alieni il passero ed il poeta», Croce «quella vita allegra di natura e d’uomo, nella quale si tengono assieme il passero ed il poeta».
Successivamente il Croce stesso ripubblicò dal Roma la lezione introduttiva del corso del 1876 nella Critica (X, 3, 20 maggio 1912), mentre F. Torraca pubblicava nel 1917 (prima in opuscolo, Napoli, Morano, e poi nella Commemorazione di F. De Sanctis nel primo centenario della nascita, a cura della Università di Napoli, Napoli, p. 69 e sgg.) la lezione sulla Vita solitaria, da lui stesso raccolta durante il corso del 1876. Nel 1933 usciva poi, nella edizione delle Opere complete di F. De Sanctis, (Napoli, Morano), a cura di Nino Cortese, come volume quarto della Letteratura italiana nel secolo decimonono, il saggio leopardiano con il sottotitolo: Leopardi. Questa edizione si presentava come la più completa apparsa sino allora in quanto essa raccoglieva, oltre i trentadue capitoli editi dal Bonari, i sei capitoli editi dal Croce e riportava, in appendice, la lezione introduttiva, la lezione sulla Vita solitaria, e, nella nota bibliografica, i due frammenti indicati dal Croce, Silvia e A Recanati (contenuti fra i manoscritti di Avellino)10 e alcune pagine di appunti, raccolti da Teodoro Frizzoni dalle lezioni zurighesi, posseduti dalla Nazionale di Napoli e già indicati dal Croce11. L’edizione Cortese realizzava, sulle linee indicate dal Disegno di una edizione completa ed ordinata delle opere di F. De Sanctis del Croce12, un sostanziale progresso rispetto all’edizione del Bonari e con la sua Tavola delle citazioni e la accurata Nota bibliografica portava un contributo notevolissimo allo studio del saggio desanctisiano. Ma, come si può vedere dall’elenco di errori riportato più innanzi in questa Nota, il testo del Cortese risultò assai scorretto, mentre il criterio dell’editore di riportare le citazioni del Leopardi e di altri alla loro precisa e integrale lezione, finì per turbare lo stesso discorso critico alterando la chiara volontà del De Sanctis, che spesso incorpora e modifica parole ed espressioni degli autori esaminati, nella propria esposizione critica. E se discutibile può apparire lo svantaggio di tale criterio dove l’editore ripristina il testo esatto di citazioni ben distaccate e rilevate dallo stesso autore, notevole è l’alterazione dove l’editore interviene nel testo a virgolettare e accomodare parole e frasi tratte dalle opere leopardiane, ma che il De Sanctis aveva volontariamente incorporato e modificato nel proprio discorso critico. Così ci sembra arbitrario cambiare il testo desanctisiano come, ad es. a p. 134 rr. 5-7: «E non solo il matrimonio è trista cosa per gli sposi, che perdono le illusioni giovanili, ma pe’ figli anche, per necessità o infelici o codardi», dove il Cortese corregge e mette fra virgolette «o miseri o codardi», oppure come in questa rievocazione critica di un passo poetico (p. 89 rr. 15-17): «Il giovane, che non ha preso parte alla festa, la sera si affaccia a guardare un bel cielo stellato, e la luna, tranquilla sopra ai tetti in mezzo agli orti, che rischiara i lontani monti», in cui il Cortese così modifica nell’ultima parte: «e la luna ’queta («questa» per errore tipografico) sovra i tetti e in mezzo agli orti che rischiara i lontani monti’»13 Così si dica anche per i titoli di opere leopardiane che il Cortese (in verità solo nella prima metà circa del volume) riporta alla loro integrità ed esattezza non solo quando sono modificati e abbreviati secondo un uso consueto del critico, ma anche quando sono sciolti e incorporati nel discorso a semplice indicazione dell’argomento delle opere: così, ad es., a p. 5 r. 2, dove il testo desanctisiano «Abbiamo un suo ragionamento sulla condanna del Redentore» viene così modificato «Abbiamo un suo ragionamento sulla Condanna e viaggio del Redentore al Calvario». E del resto anche nel caso delle citazioni vere e proprie, la modificazione di versi che il De Sanctis aveva trasformati nella propria memoria incide sul valore stesso della riflessione critica che ne prende spunto o che su di quelli si appoggia. Come può essere, fra gli altri, il caso di due versi del Berchet (il primo dei quali, in forma inesatta: «E quel sole gli apparve più bello» per «E quel sol gli rifulge più bello»), citati a p. 140 rr. 17-18, a convalidare l’osservazione della popolarità del linguaggio berchettiano rispetto a quello del giovane Leopardi: la forma esatta attenua indubbiamente nei due versi il sapore di popolarità e modernità «un po’ negletta», per cui essi erano apparsi così opportuni alla mente del critico.
Diamo ora un elenco di errori dell’edizione Cortese (che indichiamo con Co) avvertendo che non teniamo conto delle numerose modificazioni di grafia o di punteggiatura, degli errori evidentemente dovuti ai tipografi (minuscole dopo il punto, «Cugnomi» per «Cugnoni», «Goëthe» per «Goethe» eco.) e di tutti i cambiamenti dovuti al criterio sopra discusso di ripristinare in ogni caso frasi e parole leopardiane sia nelle citazioni esplicite, sia nello stesso discorso critico.
Cap. I, p. 4 r. 28: «materia», Co «materie»; ivi r. 30: «terzina», Co «terzine». P. 6 r. 11: «Lelio», Co «il Lelio»; ivi r. 30: «discorse vele», Co «discorrevole»; ivi r. 33: «abatino», Co «abitino»; ivi r. 34: «sceglievano», Co «sceglieva».
Cap. II, p. 11 r. 12: «Abbiamo l’erudito», Co «Abbiamo l’erudito»; ivi rr. 34-35: «da tutti quelli che hanno in onore la dignità umana», Co «da tutti quelli che hanno in cuore la dignità umana».
Cap. III, p. 15 rr. 4-5: «e la Convenzione e i giacobini, e Bonaparte, che, orrore! giunse a mettere la mano sino sul papa», Co «e la Convenzione e i giacobini, e Bonaparte. Che orrore! Giunse a mettere la mano sino sul papa». P. 16 r. 3: «che la filosofia e la ragione», Co «che la filosofia o la ragione»; ivi r. 21. «pubblica», Co «pubblicava». P. 17 r. 24: «conchiude», Co «conclude». P. 18 rr. 13-14: «parla sempre lui, e non ha a fronte contraddittori», Co «parla sempre, e lui non ha fronte contraddittori»; ivi r. 26 «ingiuria», Co «ingiurie». P. 20 r. 7: «maledice per abitudine», Co «malediceva così per abitudine».
Cap. IV, p. 21 r. 10: «non fu potuto pubblicare», Co «non fu pubblicato»; ivi r. 12: «pubblicate», Co «pubblicati». P. 26 r. 25: «suol», Co «vuol». P. 28 r. 2: «Anacreonte», Co «l’Anacreonte».
Cap. V, p. 35 r. 19: «declamando a gran voce», Co «declamando a grave voce»; ivi r. 34: «attorno», Co «intorno». P. 37 rr. 15-16: «Oggi è venuta in moda una critica che chiamano storica», Co «Oggi è venuta in moda una critica che chiamiamo storica». P. 38 r. 16: «delle lettere», Co «dalle lettere». P. 40 r. 1: «e altri», Co «e ad altri».
Cap. VI, p. 41 r. 9: «Baldi», Co «Zaldi». P. 42 rr. 21-23: «Come s’aveva a fare. Non aveva ancora potenza uguale al gusto. E gli uscì», Co «come s’aveva a fare. E gli uscì». P. 44 r. 4, «questa», Co «quella».
Cap. VII, p. 49 rr. 17-18: «esemplare più perfetto», Co «esemplare perfetto».
Cap. VIII, p. 55 r. 32: «poté ben crederla», Co «poté crederle». P. 59 r. 8: «e che», Co «che».
Cap. IX, p. 68 r. 25: «la trovo», Co «lo trovo». P. 70 r. 3: «parve al padre», Co «al padre parve».
Cap. X, p. 79 r. 3: «anche oggi è meno difficile stampare che farsi leggere», Co «anche oggi è meno difficile stampare che leggere». P. 80 rr. 20-21: «altro da quello ch’eragli apparso», Co «altro ch’eragli apparso».
Cap. XI, p. 84 r. 22: «venne», Co «vennero»; ivi r. 23: «lui», Co «a lui». P. 87 r. 26: «dello sparire», Co «la voluttà dello sparire». P. 89 rr. 20-21: «si affissi», Co «gli affissi». P. 92 r. 31: «lingua», Co «figura». P. 98 r. 11: «La impotenza del suo implacato desio», Co «la importanza del suo implacato desio»; ivi r. 28: «maledicendolo», Co «maledicendo». P. 100 r. 23 «ideale», Co «idea». P. 106 r. 11: «quest’altra frase sonora», Co «quest’altra frase ancora». P. 107 r. 26: «e che qui acquista», Co «e che acquista».
Cap. XII, p. 116 r. 7: «dei Petrarca e dei Poggi», Co «del Petrarca e del Poggi»; ivi r. 20: «quelle», Co «quella». P. 118 r. xi: «di Dante e di Shakespeare», Co «di Dante, di Shakespeare»; ivi r. 12; «più illogici», Co «i più illogici». P. 120 r. 20: «un miracolo», Co «miracolo».
Cap. XIII, p. 123 r. 15: «un fanciullo», Co «fanciullo». P. 127 r. 31: «Né mi pento», Co «Mi pento». P. 128 r. 33: «È chiaro», Co «E chiaro».
Cap. XIV, p. 134 r. 22: «c’è qui», Co «c’è poi»; ivi r. 27: «cosa», Co «una cosa». P. 136 r. 16: «quell’eterno», Co «quest’eterno». P. 137 r. 10: «Ma il tipo nella contemplazione gli si raddolcisce», Co «Ma il tipo della contemplazione gli si raddolcisce». P. 138 r. 8: «più nero», Co «più che nero». P. 139 rr. 6-7: «I giuochi fortificano corpi e spiriti», Co «I giuochi mortificano corpi e spiriti».
Cap. XV, p. 142 r. 19: «si voltola», Co «si svoltola». P. 143 rr. 10-11: «Non è già solo un prestanome, lo stesso Leopardi sotto altro nome», Co «Non è già solo un prestanome, è lo stesso Leopardi sotto altro nome». P. 145 rr. 10-11: «coscienza di ribelle», Co «coscienza ribelle»; ivi r. 18: «è», Co «e». Cap. XVII, P. 159 r. 26: «viveva e parlava». Co «viveva o parlava».
Cap. XVIII, p. 164 r. 20: «l’umanità nella sua giovinezza», Co «l’umanità della sua giovinezza». P. 165 r. 8: «disposto», Co «discosto».
Cap. XIX, p. 172 r. 3: «qui lui réponde», Co «qui le réponde»; ivi r. 22: «del Sogno», Co «dal Sogno».
Cap. XX, p. 174 r. 33: «un Vangelo», Co «Vangelo». P. 175 r. 28: «Alamanni», Co «Alemanni». P. 177 rr. 31-32; «irrigidì e oscurò», Co «irrigidì o oscurò».
Cap. XXI, p. 180 r. 11: «di», Co «da». P. 182 r. 10: «Brighenti», Co «di Brighenti». P. 183 r. 18: «divino amico», Co «amico». P. 185 r. 33: «scrive a Bunsen il giovane», Co «scrive il giovane a Bunsen». P. 189 r. 34: «annunzia», Co «annunziava». P. 191 r. 30: «così», Co «sì».
Cap. XXIII, p. 194 r. 29: «aguzzato», Co «aguzzo». P. 196 r. 14: «rimane», Co «rimase».
Cap. XXIV, p. 200 r. 6: «e», Co «è»; ivi r. 7: «o», Co «e». P. 202 rr. 14-15: «L’uomo è una ‘canna pensante’», Co «L’uomo è una ‘canna pesante’».
Cap. XXV, p. 207 r. 29: «contraddittoria ed impotente», Co «contraddittoria ed importante».
Cap. XXVI, p. 208 r. 20: «prosette». Co «cosette». P. 211 r. 13: «lo scheletro», Co «uno scheletro».
Cap. XXVII, p. 215 r. 16: «costringano», Co «costringono». P. 216 r. 2: «le sue impressioni», Co «le impressioni»; ivi r. 16: «beffa», Co «beffe». P. 218 r. 13: «piaceri», Co «pensieri». P. 219 r. 12: «le azioni», Co «e azioni».
Cap. XXVIII, p. 223 r. 33: «illusioni», Co «illusione». P. 224 r. 7: «conclusione», Co «conclusioni».
Cap. XXIX, p. 226 r. 2: «Quell’assoluto», Co «Quest’assoluto»; ivi r. 28: «dalla sua propria», Co «dalla propria». P. 229 rr. 5-6: «presente nello scrivere», Co «presente nello spirito».
Cap. XXX, p. 230 r. 6: «il concetto», Co «il sentimento».
Cap. XXXI, p. 236 r. 27: «figurarsi», Co «figuratevi». P. 237 rr. 10-11: «le due genitrici della forza comica», Co «le due genitrici della sua comica»; ivi r. 21: «la noia», Co «noia».
Cap. XXXII, p. 239 r. 3: «in», Co «di». P. 240 r. 23: «di cui», Co «di qui». P. 242 r. 28: «calore e pienezza e rigoglio», Co «calore di pienezza e rigoglio». P. 243 r. 2: «sguardo», Co «guardo».
Cap. XXXIII, p. 244 rr. 23-24: «non si deve poi prendere», Co «non si deve prendere». P. 249 r. 9: «in sul più bello», Co «nel più bello»; ivi r. 11: «di colà», Co «da colà».
Cap. XXXIV, p. 251 r. 30: «bisogna ch’io non viva», Co «bisogna ch’io viva». P. 252 r. 25: «risponde», Co «rispose»; ivi r. 28: «fiorirono», Co «fiorivano».
Cap. XXXV, p. 255 r. 2: «a suo avviso», Co «di suo avviso». P. 256 r. 1: «mirato», Co «ammirato».
Cap. XXXVI, p. 263 r. 12: «né pretensioni», Co «pretensioni»; ivi r. 21: «Lo Stella», Co «La Stella». P. 266 r. 31: «al», Co «a»; ivi r. 35: «quel puro gioco», Co «quel gioco». P. 267 r. 16: «È», Co «E».
Cap. XXXVII, p. 268 r. 2: «gli veniva innanzi», Co «egli rivedeva»; ivi r. 7: «Forse, in quella ‘Via delle Rimembranze’», Co «Forse, a Pisa, nella Via delle Rimembranze». P. 269 r. 2 «nella sera», Co «la sera»; ivi r. 24: «la speranza mancata», Co «le speranze mancate»; ivi r. 30: «d’idea», Co «d’idee». P. 270 r. 8: «della cosa», Co «delle cose»; ivi rr. 15-16: «non le fissa gli occhi», Co «non fissa i suoi occhi»; ivi r. 17: «esprime l’intima letizia», Co «esprimono letizia». P. 271 r. 16: «dello sparire», Co «della sparizione». P. 272 r. 4: «nella», Co «sulla».
Cap. XXXVIII, p. 273 rr. 13-14: «nessuno». Co «nessun canto»; ivi r. 24 - p. 274 r. 1: «quella vita allegra di natura e d’uomo, dalla quale si tengono alieni il passero ed il poeta», Co «quella vita allegra di natura e d’uomo, nella quale si tengono assieme il passero ed il poeta». P. 274 r. 18: «crucio», Co «cruccio»; ivi r. 28: «e tutto», Co «e dove tutto». P. 275 rr. 4-5: «mosso dall’affetto ed esperto della vita», Co «mosso dall’affetto esperto della vita». P. 277 r. 1: «di questa poesia», Co «della poesia».
Appendice: Silvia. P. 302 r. 5: «colta una dalla morte», Co «culta una dalla morte»; ivi r. 13 «vita», Co «vista». A Recanati. P. 303. Sono saltate le rr. 2 (dopo «puntura») - 12 (sino a «espresso»). Appunti delle lezioni zurighesi. P. 305 r. 11: «affetti teneri», Co «affetti terreni»; ivi r. 35: «in una specie», Co «da una specie». P. 308 r. 1: «ci è inchiusa», Co «è inchiusa»; ivi r. 12: «della natura e della fortuna», Co «della fortuna e della natura».
Si può considerare come una ristampa dell’edizione Cortese, l’edizione del saggio leopardiano di G. L. Tenconi (Saggi e scritti di F. De Sanctis, Milano, Barion, VIII, 1941), che, utilissima per il vasto commento, riproduce nel testo gli errori del Cortese, di cui elimina congetturalmente solo alcune sviste più evidenti.
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Nella presente edizione abbiamo seguito l’ordine indicato dal Croce nel Disegno sopra citato e già seguito dal Cortese, riportando dopo i trentadue capitoli del manoscritto di Napoli, i sei capitoli pubblicati per la prima volta dal Croce e aggiungendo in appendice oltre alla lezione introduttiva, la lezione su La vita solitaria, i due brevi scritti del manoscritto di Avellino (Silvia e A Recanati) e gli appunti delle lezioni zurighesi.
Per i primi trentadue capitoli abbiamo seguito fedelmente il testo del manoscritto di Napoli, utilizzando il testo dei giornali (Roma e Diritto) per correggere sviste dovute ai diversi copisti del manoscritto14. Per i sei capitoli successivi abbiamo riprodotto il testo della Nuova Antologia (per i capp. XXXIII, XXXIV, XXXV, XXXVI) e quello del manoscritto più recente (per i capp. XXXVII e XXXVIII). Nell’appendice abbiamo riprodotto il testo dei giornali per la lezione introduttiva, quello del Torraca già citato per la lezione su La vita solitaria, quello dei manoscritti di Avellino per i due scritti Silvia e A Recanati e quello del manoscritto del Frizzoni per gli appunti delle lezioni zurighesi.
Per la grafia e la punteggiatura ci siamo mantenuti sostanzialmente fedeli al testo riproducendone le particolarità della doppia i in parole come esercizii, idillii ecc. (ma studi, come si legge sempre anche nelle parti autografe del saggio), e le oscillazioni tra giovane e giovine, maraviglia e meraviglia, malinconia e melanconia, scola e scuola, comento e commento ecc. Abbiamo mantenuto titoli di opere e citazioni del Leopardi e di altri come appaiono nel manoscritto e nei testi riprodotti, anche se in qualche modo alterati, concordando con il criterio enunciato e adottato dal direttore di questa nuova edizione delle Opere desanctisiane (v. F. De Sanctis, Saggi critici, a cura di L. Russo, Bari, Laterza, 1952, III, p. 331) e solo abbiamo apportato nelle citazioni lievi correzioni (particolarmente di grafia e punteggiatura) dove si tratta di sviste dei copisti servendoci anche a questo proposito del testo dei giornali, in genere più corretto nelle citazioni. Eventuali interventi di qualche rilievo nel testo del discorso critico e delle citazioni saranno ad ogni modo notati nel corso dell’elenco delle varianti. Le citazioni e i titoli esatti saranno ripristinati sempre nelle note dell’edizione commentata, che seguirà a questa edizione critica. Abbiamo anche seguito fedelmente le virgolettature e le sottolineature (ridotte qui a virgolettature, salvo il caso in cui si trovino nel corso di frase già chiusa fra virgolette) dei testi riprodotti per seguire la precisa volontà del critico nel suo rilevare esplicitamente o incorporare frasi e parole leopardiane od altrui. Le note del De Sanctis sono contrassegnate da un asterisco.
Abbiamo poi ritenuto utile per il lettore non solo dare le varianti dei giornali (che indicheremo dal primo giornale, Roma, con Ro) rispetto al manoscritto di Napoli (che indicheremo con N) per i primi trentadue capitoli, e dei manoscritti rispetto alla Nuova Antologia per i capitoli XXXIII-XXXVI, ma riprodurre anche i brani e le espressioni cancellati nello stesso N e nei manoscritti di Avellino. Ed affinché il lettore possa ripercorrere il lavoro di rielaborazione del critico nel passaggio dal testo dei giornali a N, abbiamo dato conto degli spostamenti di brani uguali nell’ordine dei giornali e di N.
Poiché il lavoro di rielaborazione e di aggiunte è particolarmente notevole nei primi quattro capitoli, riproduciamo anzitutto il testo corrispondente dei giornali.
Noi dunque seguiremo Leopardi anno per anno secondo che si è andato svolgendo il suo ingegno. Ma perché questo studio ci dica il vero, è necessario che non mescoliamo i fatti di elementi preconcetti, lasciando da parte quel giudizio anticipato di Leopardi, che sta nella nostra mente.
Al conte Pepoli, che gli chiedeva particolari della sua vita, Leopardi rispose, cominciando la sua storia fino dal decimo anno. Di molti uomini celebri si narra la puerizia maravigliosa e Prospero Viani ricorda il Tasso e ricorda Pico della Mirandola e Poliziano, famosi per gli studi della eroica adolescenza. Vita presto cominciata e presto finita. Poliziano mori a quaranta anni, Pico a trentasei, e Leopardi a trentanove.
E cosa era Leopardi a dieci anni? Era il Contino, figlio del conte Monaldo, e aveva il maestro in casa, ché i nobili non degnavano di mandare i figli nelle scuole pubbliche, un maestro che gli insegnò poco italiano, ché l’italiano tutti lo sanno, e molto latino, e anche un po’ di francese, come voleva la moda. Ho visto io fanciulli anche di otto anni che con molta volubilità e sicumera ti parlano di generi, numeri, casi e avverbii, e coniugano e declinano, e citano a mente «squarci» di poesia e dicono ai genitori incantati: «Comment vous portez-vous?». Sembrano miracoli e non sono che macchinette ben montate. A dieci anni, il maestro, vuotato il sacco, non aveva piú nulla da dirgli e il fanciullo rimase maestro di sé. A quella etá la vita è una rivelazione dell’avvenire, perché ciascuno ha l’istinto di quello per cui è nato, e mena la vita conforme a quell’istinto. L’uomo nato all’azione mena vita chiassosa di caffè, di club, di piaceri; animo meditativo e solitario, nel fanciullo si svegliò la febbre dello studio, indizio sempre di ingegno eletto e di seria volontà. E si chiuse nella biblioteca patema, aperta anche al pubblico, ma dove non andava altri che lui, e vi si seppellì per sette anni, salvo passeggiate solitarie pe’ campi e pe’ colli. A Pietro Giordani, che lo scongiura di mettere un po’ di misura nel suo lavoro, risponde aver fatto il possibile per ridurre lo studio a sole sei ore al giorno! E c’era anche la notte. Carlo, il fratello, c’informa che dormivano nella stessa cameretta, e a tarda notte, svegliandosi, lo vedeva con l’occhio ne’ libri, profittando di un ultimo barlume della lucerna che si spegneva. Studiando a quel modo per sette anni, s’immagini quale massa enorme di conoscenze poté entrare in quella testa.
I primi suoi studi furono di lingue. Studiò latino e greco e ebraico, di francese, spagnuolo e tedesco quanto gli bastava per far suo tutto quell’immenso sapere raccolto in quella biblioteca. E crebbe a immagine della biblioteca, sua seconda maestra.
Cosa poteva essere una biblioteca, si può congetturare facilmente. Era a base classica e biblica con aggiunta di libri varii di valore e di materia de’ tempi posteriori sino al secolo decimottavo. E questa fu la base della sua coltura. Studiò classici greci e latini e autori biblici e alessandrini sino a’ santi padri, e spronato dalle due forze di quella prima età, la memoria e la curiosità, studiò autori di ogni tempo e di ogni valore, come portava il caso e il desiderio. E non solo studiava, ma faceva sunti e trascriveva quei luoghi che gli parevano più importanti. A diciassette anni era già quasi l’uomo più dotto di quel tempo. E la sua dottrina lo aveva avvezzato a cercare nelle questioni il pensiero altrui anziché a meditarvi lui. La sua intelligenza era dominata dalla sua dottrina.
Nudrito di studi classici e pieno il capo di forme greche e latine, non aveva il gusto conforme ai suoi studi. In una sua lettera a Pietro Giordani, dice che aveva il capo pieno delle massime moderne, sprezzava Omero, Dante, e i classici, non pregiava che francesi, e i suoi primi scrittacci originali furono traduzioni. Come si spiega? Era il gusto di quel tempo, era il secolo decimottavo e tutti, retrivi e liberali, erano figli di quel secolo.
La Francia era tenuta allora «á la tête de la civilisation», per dirlo alla francese, e si disputava ancora seriamente quali fossero più grandi scrittori, o i greci o i francesi, Euripide o Racine, Sofocle o Corneille.
Con queste impressioni il suo scrivere era un italiano corrente, venutogli attraverso il francese. Le sue opinioni si accostavano a quelle del secolo. Pei giovani ha ragione sempre il secolo che ultimo parla. A sentirlo, Aristotile è il tiranno della ragione, e non bisogna giurare «in verba magistri», e bisogna pensare col capo suo — ma nol dice questo col capo suo — e il mondo è pieno di errori e di superstizioni, e se una riforma universale è cosa ridicola, bisogna pure acconciarsi a questa o a quella riforma.
Fin qui arrivava lui, e ci stavano in generale gli uomini colti. Quelle massime in quella misura così temperata, già fu tempo, erano partecipate anche da’ principi. Il giovanetto scriveva: «Credere una cosa perché si è udito dirla e non si è avuta cura di esaminarla, fa torto all’intelletto dell’uomo. Una tale cecità appartiene a que’ tempi d’ignoranza, ne’ quali si stimava saggio chi obbediva al tiranno della ragione, e chi giurava sulle parole di Aristotele». Ecco linguaggio di secolo decimottavo. E prima aveva già detto: «Si deridono con ragione i progetti di riforma universale. Frattanto è evidente che v’ha che riformare nel mondo, e fra tutti gli abusi, quelli che riguardano l’educazione sono, dopo quelli che interessano il culto, i più perniciosi».
Sembra un periodo tradotto dal francese, con lieve movenza italiana. Ma il secolo decimottavo nelle sue applicazioni andò ad un punto, che il giovinetto non poté più seguitarlo. Que’ principii ancora astratti, ancora idillici, ricevuti da tutti, e prima dai nobili e dai principi, presero corpo, divennero l’Ottantanove, e il Ventuno gennaio e la Convenzione e i giacobini, e Bonaparte, che, orrore! giunse a mettere la mano sino sul papa. Immaginate quale impressione dovettero produrre que’ fatti su di un buon suddito pontificio, qual era il conte padre, e che ambiente si formò in quella casa e in quel paese, e quali potevano essere le opinioni di Giacomo. La Francia «scellerata e nera», come la chiamò in uno di que’ tanti versi giovanili presto cancellati, divenne la grande colpevole, personificata ne’ giacobini, nemici del trono e dell’altare.
Così letterariamente il giovane era francese e secolo decimottavo; politicamente vi si ribellava, e si stringeva alla religione come sola salute contro gli eccessi della filosofia e della ragione.
Tale era Giacomo a diciassett’anni, nel 1815, quando compose il Saggio sugli errori popolari degli antichi. Quel saggio pieno di erudizione conteneva idee sane, come si diceva allora, e dové parere portento tanta dottrina in così giovane età. Pur non fu potuto pubblicare a Roma, e, mandato il manoscritto all’editore Stella, in Milano, si smarrì, e non fu ritrovato e pubblicato che dopo la morte dell’autore nel 1845. Sainte-Beuve dice: «qu’ il présente déjà les résultats d’un esprit bien ferme»; Viani lo chiama opera virile; Ranieri ci trova profonda e vasta erudizione, e De Sinner lo chiama: «admirandae lectionis et eruditionis opus». Questi elogi non sono valuti ad acquistare molti lettori al libro, rimasto come materia archeologica dell’ingegno leopardiano o buona a cercarvi le prime formazioni.
Messi quegli studi, quella biblioteca, quell’educazione, quel gusto, quelle opinioni e quell’ambiente, nessuno stupirà che ne sia uscito quel saggio.
Il giovane discorre tutti gli errori de’ greci e de’ romani, teologici, metafisici e fisici, per dar risalto al beneficio fatto all’umanità dal Cristianesimo che ce ne ha liberati, ancora che parecchi di quelli errori continuino sotto altre forme presso le ignoranti moltitudini. E vuol far ben comprendere che la religione, anzi la Chiesa, è il più sicuro rimedio contro gli errori e le superstizioni, e che la filosofia e la ragione abbandonate a sé danno pessimi frutti. Veduto da Recanati e dalla casa patema, questo libro ci par cosa naturalissima, come ci pare il libro Dell’antichissima sapienza degl’italiani di Giambattista Vico, veduto dalla solitudine della biblioteca. Ma se lo guardiamo da più vasti orizzonti, quel libro ci farà stupore. Cosa era l’Europa allora? Che movimento c’era ne’ fatti e nelle idee? Quando Leopardi aveva quattordici anni, era il 1812, spedizione di Russia; e quando componeva il saggio, era il 1815, Waterloo e la Santa Alleanza. E queste lotte e questi avvenimenti politici avevano a loro base un gran mutamento nelle idee, più forte contro Napoleone e il secolo da lui rappresentato, che non furono i battaglioni anglo-prussiani. Era il risveglio dello spirito e dell’ideale, della giustizia, della libertà, della patria contro un uomo e un secolo personificato nelle matematiche e nei gros bataillons.
C’era in quel movimento d’idee Schiller e Goethe e Fichte e Chateaubriand e la Staël, e più tardi Hugo e Lamartine. E c’era allora un italiano a Parigi, mescolato in quel gran moto di fatti e d’idee e caldo il petto di quello spirito nuovo, che pubblica gl’inni in quell’anno appunto che Leopardi, con in capo la biblioteca e nella biblioteca, scrivea il Saggio sugli errori popolari degli antichi. Medesimo scopo in tutti e due, l’apoteosi della religione. Ma l’una era opera viva e l’altra opera morta. Gl’Inni parvero il segnale di una nuova letteratura e di un nuovo moto d’idee, ebbero edizioni e imitatori: c’era lì dentro passione e ispirazione. Il Saggio è il prodotto dell’ambiente e della tradizione, una tradizione passivamente ricevuta, non ventilata, non assorbita nella propria personalità. Lì era il principio di un mondo nuovo; qui lo strascico di un passato che moriva. Lo scopo del Saggio è la semplice etiquette, un pretesto, senza che il giovane ne abbia coscienza. È un pretesto che gli offre occasione magnifica di metter fuori quell’immenso materiale di conoscenze condensato nel suo cervello. A dimostrare verità di fatto che tutti sanno e che nessuno contrasta, ecco una filza di citazioni, una processione di autori, diversi di valore e di autorità, e messi alla rinfusa l’uno accanto all’altro. La biblioteca a poco a poco gli esce tutta di sotto la penna. In tutta questa erudizione non ci vedo ancora discernimento o profondità e non un «esprit ferme», e non opera virile, dove non apparisce ancora personalità e originalità, e ci vedo solo quello che ci ha visto De Sinner: «admirandae lectionis et eruditionis opus». Non c’è qui dentro un interesse morale, o filosofico o artistico. È una materia trattata con i materiali che aveva, e da que’ materiali esce non altro che un’opera maravigliosa di erudizione.
Il Saggio è scritto nell’italiano corrente di quel tempo, prima che sorgesse il purismo. Vi troviamo «rimarco» con tutti i suoi figli e nipoti, il «piano» o l’«idea» di un’opera, e la meditazione «toccante» e il «trasporto d’amore» vocaboli, modi e costrutti, e gallicismi con molta volgarità e poca proprietà. Manca spesso la connessione grammaticale com’è in francese, e manca talora anche la connessione logica, con un prima e un poi arbitrario, come viene in mente.
Manca all’espressione semplicità e schiettezza, anzi, a ostentazione di sentimenti fittizii, hai pure talora un lusso di vecchie metafore. Valga a esempio la conchiusione. Vuol dire che la religione caccia l’errore e apre la via del vero alla ragione. E non lo dice già in questo modo semplice. Vuol mostrarsi appassionato, e ti fa un’apostrofe alla religione e conchiude così: «Tu hai fulminato l’errore, tu hai assicurata alla ragione e alla verità una sede che non perderanno giammai. Tu vivrai sempre, e l’errore non vivrà mai teco. Quando esso ci assalirà, quando coprendoci gli occhi con una mano tenebrosa minaccerà di sprofondarci negli abissi oscuri che l’ignoranza spalanca avanti a’ nostri piedi, noi ci volgeremo a te, e troveremo la verità sotto il tuo manto. L’errore fuggirà come il lupo della montagna inseguito dal pastore e la tua mano ci condurrà alla salvezza». Sono metafore, paragoni, frasi trovate belle e fatte nell’uso corrente, volgari e insieme grottesche. Nello stesso anno che il Leopardi scriveva il Saggio, non intermetteva i soliti studi degli antichi, trascrivendo, compendiando, e traducendo. E già fin dal passato anno 1814, trovo fatta menzione di una sua versione del libro di Esichio Milesio: De viris doctrina claris e della vita di Plotino, scritta da Porfirio. Avendo tra mano una moltitudine di comentatori, che occupano i tre quarti di una biblioteca a forma antica, come era la sua, il traduttore si volta in comentatore. Ed ecco in quell’anno 1814 uscir fuori un comento sulla vita di Plotino, e poi comenti su taluni antichi retori, e poi ancora una raccolta di frammenti di cinquanta padri, e tutto in latino e tutto inedito.
Il primo comento, manoscritto nitidissimo, ha in fronte queste parole di mano di Monaldo Leopardi: «Oggi, 31 agosto 1814, questo suo lavoro mi donò Giacomo, mio primogenito figlio, che non ha avuto maestro di lingua greca, ed è in età di anni sedici, mesi due e giorni tre». Fu mandato in Roma al Cancellieri, che allora scriveva una dissertazione degli uomini chiari per memoria, come volessero dirgli: guarda che miracolo di memoria! Lo vide anche lo svedese Akerblad, distinto poliglotto che disse «Parmi che così erudita opera di un giovine ancora in tenera età sia di ottimo augurio per l’Italia; che potrà sperare di vedere un giorno comparire un filologo veramente insigne». E lo vide Creuzer, che aveva consumato una vita intorno a Plotino, e che non disdegnò di valersene nelle sue appendici Addenda et Corrigenda.
Gli altri due lavori sono un tentativo di ricostruzione. Vuol rifare la vita e gli scritti di uomini già chiarissimi, di cui non era rimasto quasi che il nome. Come da alcuni frammenti latini alcuni tentano ricavare il mondo preistorico, il giovane usa quella sua erudizione infinita a rifare nella vita e negli scritti Ermogene, Elio Aristide, Dione Crisostomo, Cornelio Frontone e molti altri padri del secondo secolo. Chi guardi alla fresca età e alla straordinaria dottrina, non troverà esagerazione la lode del De Sinner e del Thilo, né che il Niebuhr lo chiami «Italiae conspicuum ornamentum» e lodi «candidissimum praeclari adolescentis ingenium et egregiam doctrinam».
Tutti questi lavori furono fatti in solo quell’anno; il lavoro intorno a’ retori fu scritto in poco più di un mese, celerità possibile solo a colui che spendeva le giornate a leggere, chiuso in una biblioteca, e tutto ciò che leggeva fissava in carta e faceva suo con ogni maniera di esercizii.
Ci è dentro più che un sapere di biblioteca, quel leggicchiare antologie e dizionarii storici che procaccia fama di erudizione a buon mercato, ci è un sapere condensato e assimilato. Pure, messa l’età e il breve tempo, ci possiamo accostare al giudizio del De Sinner, il quale ci trova ardore ed immaginazione giovanile più che maturità di giudizio. Il dotto comentatore latino aveva solo sedici anni. È l’età che potrei chiamare la luna di miele dell’immaginazione, il quarto d’ora di poesia concesso a tutti; e quando Ennio Visconti, divenuto poi il principe degli eruditi, traduceva tragedie greche e faceva versi, egli, contro il costume della sua età, scimieggiava Mai, latineggiava, correggeva testi, discuteva varianti, confrontava date, raccoglieva frammenti, disseppelliva rispettabili rovine, con quello stesso ardore che altri mettevano a disseppellire Ninive, o Troia, o Pompei. Abbiamo l’erudito, o se vi piace meglio, l’eruditissimo, come lo chiama Niebhur, e in quella superlativa erudizione vediamo già svilupparsi quella critica che sta ancora nelle basse regioni dell’emendazione e illustrazione de’ testi. Non abbiamo ancora indizio di gusto e di sentimento, né a ciò erano propizii quegli autori e quegli esercizii.
Il 1815 si apre con uno strascico del finito anno, un nuovo comento latino, In Julii Africani Cestos condotto a metá e che De Sinner giudica dottissimo. Poi piglia a scrivere il Saggio, di cui fu discorso avanti, e insieme traduce gli idillii di Mosco e la Batracomiomachia e vi aggiunge due discorsi intorno agli autori. Il commentarius diviene discorso. Trovi il comentatore greco-latino in veste italiana. Quel suo latino, tanto predicato e da così valenti non fu potuto pubblicare né a Roma né altrove, e sta ancora polveroso e dimenticato in casa De Sinner. Miglior fortuna ebbe il suo italiano. Discorsi e versioni furono pubblicate dallo Stella nello Spettatore, e questo valse a spargere il nome del giovane assai più che non quel latino indirizzato a un cerchio ristretto di eruditi.
A leggere il discorso sopra Mosco ti ricordi il De vita et Scriptis di Ermogene o di Frontone. È un’altra rovina che il giovane vuol disseppellire. Di Mosco è rimasto solo poco più che il nome, soverchiato dalla maggiore fama di Teocrito. Chi sia, di che paese, di che tempo, e che cosa abbia scritto, di tutto questo non si ha notizia certa. Vedi occasione magnifica a un De vita et scriptis. E il giovane fruga e rifruga, e raccoglie grande quantità di citazioni e di testimonianze.
E prova e crede di provare che Mosco e Teocrito sono non uno stesso poeta, come parea a taluni, ma due persone distinte, e che Mosco, se non fu di Siracusa, fu certo di Sicilia, e discepolo di Bione e contemporaneo di Teocrito, e che sono suoi otto idillii, e di altri due attribuitigli uno è di Bione, l’altro di Teocrito. Poi numera le edizioni e le versioni di Mosco, fermandosi alquanto sulle francesi e le italiane, e dicendo solo i nomi delle tedesche, che probabilmente non aveva innanzi. È difficile trovare qualcuno che abbia parlato di Mosco, e che non sia ricordato qui. L’autore sa tutto, ha cercato tutto. E oltre al sapere si vede abbastanza sviluppato il suo ingegno critico, chi guardi a certi confronti e a certe fine osservazioni. Sappiamo quello che sapevamo, la sua erudizione e il suo ingegno critico.
Ma qui c’è del nuovo. Gli capita innanzi un monsieur Poinsinet de Sivry, membro, niente meno, dell’Accademia di scienze e lettere di Lorena; traduttore in versi francesi di Anacreonte, Saffo, Mosco, Bione e altri poeti greci.
Il giovine lo ferma al passaggio e non lo lascia più, gli fa una pettinatura di santa ragione».E perché la critica venga da Leopardi stesso prendete la Batracomiomachia rifatta, e vedrete le sue correzioni tendere appunto a dar colore e rilievo a quel primo lavoro giovanile che è la Batracomiomachia volgarizzata anche in quest’anno. Prendiamo l’arringa di Gonfiagote, il re delle rane:
Calmate, rane mie, questi timori.
Verso cascante, volgare. C’è la cosa, non c’è alcuna impressione. Leopardi corresse:
Zitto, ranocchie mie, non piú timori.
Qui c’è lo stesso senso, e c’è ancora la concitazione e il tuono imperatorio dell’oratore, appena giunge tra quella folla clamorosa.
Gonfiagote continua:
Ben so che un certo sorcio impertinente |
Lascio stare lo stento del secondo verso, ma qui c’è la semplice esteriorità del fatto. Leopardi corregge.
So ben che certo sorcio impertinente, |
Dove si vede l’intenzione nell’oratore di mettere in ridicolo la presunzione del sorcio e il modo di sua morte.
Il giovane traduttore dice: |
E l’uomo maturo corregge:
Corriamo aitarmi; e di suo cieco ardire |
Seguite questo paragone e comparate pure gli altri luoghi, e vedrete Leopardi medesimo colle sue correzioni farvi la critica di quel suo primo tentativo. In verità, questo volgarizzamento per disinvoltura e arte di verso è assai inferiore a quello di Mosco, dove sono alcune qualità importanti che ci aiutano a meglio comprendere il Leopardi di quel tempo.
Come vedremo.
Poi il testo dei giornali corrisponde a quelli delle ultime pagine del capitolo IV, ripreso con questo inizio leggermente diverso, a p. 29 r. 5; «Nelle due traduzioni diverse non c’è ancora una maniera, cioè un certo modo ecc.».
Diamo ora, di seguito, capitolo per capitolo, l’elenco delle varianti di Ro rispetto a N per i primi trentadue capitoli, dei manoscritti di Avellino rispetto alla Nuova Antologia per i capitoli XXXIII-XXXVI e al manoscritto seguito, per i cap. XXXVII-XXXVIII. In tale elenco includiamo anche, secondo quanto abbiamo già detto, brani soppressi in N e nei manoscritti di Avellino e diamo notizia delle eventuali nostre correzioni di sviste evidenti.
Cap. I, p. 3 rr. 10-11: «temuto come parte della famiglia e talora trastullo («e zimbello» poi cancellato) de’ suoi gioviali scolaretti». Correggo in «tenuto» (come legge Co) «temuto», svista contraria al senso del discorso. P. 4 rr. 15-16: «con molta gioia del papà, il direttore di quegli studi» sostituisce in N le parole cancellate: «con tanta gioia del papà, che regolava gli studi». P. 5 rr. 21-22: dopo «alcova» N ha il seguente brano cancellato: «in una sala della biblioteca che comprendeva tutto il primo piano. Nella stessa cameretta dormiva il fratello Carlo, il quale racconta ecc.»; ivi r. 30: in N, dopo «ebraico» è cancellato: «e di francese, spagnolo, inglese, tedesco quanto gli bastava». P. 6 r. 25: in N, dopo «chiassi» è cancellato: «e i sollazzi».
Cap. II, p. 8 r. 15: in N è cancellato: «immenso sapere», sostituito da «accumulato sapere». P. 9 r. 3: in N, dopo «storia» è cancellato «Nell’indice del Pellegrini». P. 10 r. 13: in N è cancellato: «amor di gloria», sostituito da: «desiderio di gloria»; ivi r. 33: in N è cancellato: «manca il critico e l’artista» e sostituito da: «manca il lavoro». P. 11 r. 32: in N è cancellato: «che non spetta a me di giudicare», sostituito da: «che sarà giudicato».
Cap. III, p. 13 r. 20: in N è cancellato: «Ecco come descrive se stesso dicendo a Pietro Giordani in una lettera», sostituito da: «Dice di sé in una lettera a Pietro Giordani». P. 14 r. 21: «udita udirla», Ro: «udito dirla» (lezione da noi adottata). P. 15 r. 23: correggiamo «1845» in «1846», anno della pubblicazione del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, seguendo in ciò l’esempio di Co. P. 16 r. 19: «Ugo», Ro «Hugo» (lezione da noi adottata). P. 17 rr. 29-30: «avanti a te, a’ nostri piedi, noi ci volgeremo a te», Ro «avanti ai nostri piedi, noi ci volgeremo a te» (lezione da noi adottata); ivi r. 31: «fuggiva», Ro «fuggirà» (lezione da noi adottata). P. 18 rr. 13-14: in N è cancellato: «una certa smania battagliera, quantunque parli tutto solo», sostituito da: «una smania battagliera; parla sempre lui»; ivi r. 23: in N è cancellato: «e rifare ne’ Piceni», sostituito da: «immaginando negl’italiani». P. 20 r. 5: «Fitche, Stael, De Maistre», Ro «Fichte, Staël, De Maistre» (lezione da noi adottata); ivi r. 13: in N è cancellato: «cristianizzato», sostituito da: «divenuto cristiano».
Cap. IV, p. 22 r. 33: «diviene il protagonista, e il giovane letterato dà sfogo», Ro «diviene il protagonista, o piuttosto il protagonista è il giovine letterato che dà sfogo». P. 23 rr. 5-6 il brano «E ci è di nuovo... estetica» sostituisce il seguente periodo di Ro: «Abbiamo l’erudito, abbiamo il comentatore; non abbiamo ancora l’uomo di gusto e tanto meno l’artista»; ivi r. 29: «ridicolo», Ro «un ridicolo» (lezione da noi adottata). P. 24 r. 7: correggiamo in «sconosciuto» la evidente svista nella citazione: «conosciuto»; ivi rr. 17-18: «Aveva preceduto un lungo esercizio del tradurre e del verseggiare», Ro «Un lavoro finito e in così giovane età ti fa supporre un lungo esercizio del tradurre e del verseggiare». P. 25 r. 28’: in N prima di «Algarotti» è cancellato: «Beccaria e Filangieri». P. 26 r. 20: «Se ti dicesse ‘furo’», Ro «Supponete avesse detto ‘Ché non ti furo tanto avversi i numi’». P. 29 rr. 13-14: il periodo «La versione... Mosco» sostituisce il lungo brano sulla Batracomiomachia di Ro riportato da noi a pp. 331-33 di questa Nota; ivi r. 20: «un concepire proprio poetico», Ro «un concepire proprio che si possa dire poetico». P. 32 r. 32: dopo «anni» Ro ha quest’altra frase: «Vediamolo a diciotto, cioè nel 1816».
Cap. V, p. 33 rr. 1-5: «Qui entra... lettere», Ro «Qui entra nuova materia di studio, l’Epistolario, essendo di questo anno appunto le prime lettere». P. 35 r. 5: «su», Ro «sopra» (lezione da noi adottata); ivi r. 16: in N dopo «contemporanea» è cancellato: «Specialmente poté su di lui la lettura della Biblioteca italiana dove scrivevano Monti e Giordani»; ivi r. 20: «Mezzo francese», Ro «Soprattutto lui, mezzo francese». P. 36 r. 6: «È già mutato il suo modo di scrivere», Ro «Ma quello che fa più meraviglia, è il suo modo di scrivere»; ivi rr. 15-16: «ma sibbene Virgilio più volte allegò», Ro «ma Virgilio sì bene assai volte allegò» (lezione da noi adottata); ivi r. 24: dopo «giovane», Ro ha: «in veste di classico e di purista. Non intermetteva però i soliti studi ed esercizi di erudito. Ed in questo anno abbiamo le iscrizioni triopee e la traduzione della lettera di Marco Aurelio a Frontone, libro scoperto dal Mai, e insieme un discorso sulla vita e gli scritti di Frontone. Ci si vedono le orme del Visconti e del Mai. Comentava e traduceva. E ci son venuti pure alcuni che io chiamerei esercizii di traduzione. Abbiamo un’ode di Orazio recata in versi a dieci anni, come dicono, e l’Arte poetica di Orazio», e da qui, al posto di tutto il finale della nostra edizione, continua con un brano identico a quello che va da p. 24 r. 19 a p. 25 r. 10. P. 40 rr. 10-19: questo brano (con la seguente variante per le rr. 10-13: «E tra questi è il progetto di inni cristiani al Redentore, al Creatore, a Maria, la cui idea gli venne forse dagli Inni manzoniani») si trova in Ro nell’esame degli Idillii, a p. 80, r. 1, dopo «schizzi».
Cap. VI, p. 43 r. 16: «animum», Ro «animus» (lezione da noi adottata). P. 45 r. 31: in N manca «breviter» nel verso virgiliano citato invece correttamente a p. 43 r. 15; e noi perciò lo reintegriamo. P. 46 r. 31: «fissi tenevano in lui i volti», Ro «fissi in lui teneano i volti» (lezione da noi adottata). P. 47 rr. 3-4: «E quel suadent somnos», Ro «E quel suadent somnos divenuto un ’vanno persuadendo il sonno’» (lezione da noi adottata seguendo l’esempio di Bo e Co).
Cap. VII, p. 48 r. 13: «Già è un periodo faticosamente costrutto», Ro «Gli è un periodo in qualche parte sgrammaticato per errore di copia»; ivi r. 15: dopo «frettolosi» Ro ha il seguente brano: «Quella versione pubblicata il 1819, era stata fatta l’anno prima, come si vede da una lettera allo Stella» (poi il periodo, completato in N con le seguenti parole: «e probabilmente finita e limata in quest’anno», fu tutto cancellato dal De Sanctis). P. 49 rr. 3-4: «notando che, dileguatosi il poeta, resta solo il traduttore. Se c’è il testo ecc.», Ro «notando che dove si dilegua il poeta e resta solo il traduttore, se c’è il testo ecc.». P. 51 rr. 6-12: il brano «Lo scolare... nato» sostituisce il seguente brano di Ro: «Finora abbiamo studiato lo svolgersi della sua intelligenza; vogliamo ora studiare tutto l’uomo, comprendere la sua anima»; ivi r. 13: dopo «Recanati», Ro ha: «Recanati! uno di quei tanti paesi rozzi e salvatici, che non sono scarsi in Italia», periodo passato in N con l’aggiunta di «stretti al passato» dopo «salvatici», e poi interamente cancellato; ivi r. 16: «il sobborgo, dove tra parecchie case patrizie primeggia casa Leopardi, di antica architettura», Ro «un sobborgo. Da quell’alto culmine si vede la Marca e l’Adriatico. Tra parecchie case patrizie primeggia casa Leopardi, posta a’ piedi della città, di antica architettura»; ivi rr. 18-21: il brano «e la stanza... letticciuolo» sostituisce le seguenti parole di Ro: «e la stanza che oggi chiamano di Giacomo. Ci si vede ancora il suo letticciuolo»; ivi rr. 23-24: «di una vita passata fra tanti studi. Ai primo piano e nell’anticamera vedi una statua di soldato», Ro «di una vita passata lì fra tanti studi. Sali al primo piano e vedi una statua di soldato». P. 52 r. 12: «di complessione debolissima», Ro «di complessione debolissima, rachitico e gobbo».
Cap. VIII, p. 55 r. 24: correggiamo «giunga» (svista evidente) in «giunge»; ivi r. 28: N e Ro hanno: «comincia con la frase consacrata di ‘stimatissimo signore’ e di umilissimo servitore», periodo evidentemente difettoso che noi integriamo così: «comincia con la frase consacrata di ‘stimatissimo signore’ e finisce con quella di ‘umilissimo servitore’». P. 58 rr. 26-28: il periodo «Gl’ideali... contemporaneo» manca in Ro; ivi r. 35: il periodo «Non... muore.» manca in Ro. P. 59 rr. 13-17: il brano «Ed è la tragedia... speranze», manca in Ro; ivi r. 17: «Questo stato ha per sua espressione la melanconia», Ro «E la sua forma è la malinconia». P. 60 r. 31: «starò», Ro «sarò» (lezione da noi adottata). P. 61 r. 24: correggiamo in «caverna» (lezione esatta del testo leopardiano) «camera», che consideriamo possibile svista del copista del testo delle lezioni ridotte ad articoli ed inviate ai giornali: altrove (Saggi critici, ed. cit, I, p. 2) il De Sanctis citò esattamente la stessa frase.
Cap. IX, p. 62 rr. 1-64 r. 2: tutto questo brano «Unico... prosa» manca in Ro. P. 62 r. 11: «emulava al Davanzati», lezione che noi manteniamo (Co corregge «al» in «il») in base ad esempi classici di tale uso latineggiante di «emulare» con il dativo. P. 64 rr. 2-3: «A diciannove anni», Ro «Questo giovane a diciannove anni»; ivi r. 9: «Continuava pure ne’ suoi esercizii poetici», Ro «A questo tempo si riferiscono anche le sue prime poesie originali». P. 66 rr. 10-12: il brano «Imitò... morte» sostituisce il seguente brano di Ro: «Più tardi mandò allo Stella, a cui aveva già mandato il Nettuno e il Frontone e la versione di alcuni frammenti di Dionigi di Alicarnasso scoperti da Mai, un nuovo manoscritto, intitolato Cantica della morte»; ivi rr. 22-31: il brano «inserì... intorno» sostituisce il seguente brano di Ro: «inserì in quella edizione due elegie e un frammento, parti di quel poemetto che aveva intitolato la Cantica. Nell’edizione di Firenze rimane il Primo amore e dell’altra elegia rimane solo un frammento». P. 67 rr. 5-6: «Il frammento cavato dalla cantica ha per titolo: Lo spavento notturno», Ro «Uno di questi frammenti è intitolato Lo spavento notturno ed è appunto quello che cominciava: ‘Era morta la lampa in occidente’»; ivi r. 8: «ciel stellato», Ro «cielo stellato» (lezione da noi adottata): ivi rr. 17-18: «concetti allegorici». Ro «personificazioni allegoriche con in mezzo l’episodio del suo primo amore»; ivi rr. 21-22: «Ma tale non parve a Giacomo, che ne conservò quel solo frammento», Ro «Ma tale non parve a Giacomo, nella cui mente già maturava un Amore e morte ben diverso, e lasciò andare l’allegoria e conservò alcuni frammenti»; ivi rr. 24-25: «di una fattura molto fina, evidentemente ritoccati e limati», Ro «di una fattura molto fina»; ivi r. 31: dopo «prima» Ro ha: «La qual descrizione finisce con una sentenza alla petrarchesca: Dilettevole quaggiù null’altro dura». P. 68 r. 20, p. 69 r. 17: al posto del brano «Questo... Giordani» Ro ha il brano sul Primo amore che in N è spostato all’inizio del cap. XI (P. 82 r. 15, p. 84 r. 9) e che in Ro ha un diverso inizio («A questa cantica si riferivano le due elegie rimasteci, che narrano il suo primo amore. Vogliono che una sua cuginetta gli abbia ispirato questa prima fiamma dei nostri sedici anni. E che fiamma in cuor giovane, appassionato, solitario e melanconico! Nella sua ingenuità ecc.») e l’aggiunta di questo brano: «L’altra elegia che comincia ’Dove son?’ rappresenta lo stato dell’amante dopo la partenza. Forma tumida in un fondo comune ed arido. Così scriveva Guidi e Testi. E l’autore ben fece a lasciare di quella solo un frammento, là dove invoca la tempesta, notabile per sentimento ritmico e per non ordinario effetto di stile. È un crescendo concitatissimo smorzato subitamente dal disinganno, come volto infiammato di collera che impallidisce d’improvviso. E il ritmo ha gran parte in quest’effetto. Fra questi esercizii di scrivere il giovane non intermetteva lo studio, regolato da’ consigli di Pietro Giordani». P. 69 rr. 31-36 - p. 70 rr. 1-2: questo brano («Chi... letterato») sostituisce il seguente brano di Ro: «Così andava vagando di studi e argomenti e di esercizii il giovane ne’ suoi diciannove anni e non aveva ancora trovato se stesso». P. 70 rr. 19-22: i versi «Morte... mio» mancano in Ro.
Cap. X, p. 71 r. 1: «Lugubre è l’apertura del suo ventesimo anno», Ro «Nel ventesimo anno (1818)». P. 72 rr. 4-8: il brano «Dunque... sicura» manca in Ro. P. 73 r. 15: in IV dopo «artificiale» è cancellato: «d’immaginazione». P. 74 rr. 24-25: «perché in quella natura eroica entrano», Ro «perché in quella statua eroica, che di una infelicità così tragica ha fatto il suo piedistallo, entrano». P. 75 r. 1: «Il Giordani s’era affezionato», Ro «Questo sentimento mescolato troviamo già nel Giordani che s’era affezionato»; ivi r. 22: dopo «orizzonti» Ro ha questo brano: «E l’erudito, il traduttore, lo scrittore delle elegie e dei sonetti alla mattaccina un bel giorno si trasformò in Tirteo e scrisse la canzone All’Italia»; ivi r. 32: dopo «Cesari» Ro ha questo brano: «Disputava spesso col fratello di patria e di libertà, ma libertà e patria a modo greco e romano. Aveva un odio di famiglia contro la Francia e i giacobini e Napoleone. Con queste idee e con questi sentimenti, qual canzone all’Italia potesse uscire da lui, si può indovinare»; ivi r. 33 - p. 76 r. 32: questo brano «L’influenza... dal segno!» manca in Ro. P. 77 r. 10: «esclamazioni, ripetizioni», Ro «esclamazioni, ripetizioni, tutto quel ben di Dio che si chiama rettorica». P. 80 r. 1: dopo «schizzi» tutto il brano sino alla fine del capitolo manca in Ro, che continua qui con il brano sugli inni cristiani (P. 40 rr. 10-19 con le modificazioni già ivi segnalate) e con il seguente brano soppresso, che sta al posto del finale del cap. X (pp. 80-81) e dell’inizio del cap. XI (pp. 82-84 r. 27):
Chi conosce un po’ la natura umana, sa bene che questi spiriti malati e malinconici e solitari e virtuosi sono avidi di affetto, e più facili all’amicizia e all’amore. A Giacomo era grande consolazione l’amicizia del Giordani e istanti felici nella sua vita travagliosa furono quelli nei quali amò e credette d’essere amato. Spesso un sorriso di donna o una parola benevola d’amico, è medicina agli uomini stanchi della vita, già suicidi nell’animo. Più l’uomo si sente solo e più desidera il compagno; e più invoca la morte e più desidera la vita. E mi spiego così i delirii del suo primo amore punto esagerati, com’è memoria nella sua famiglia e l’impressione che dové far su di lui la tessitrice divenuta più tardi il tipo della Silvia e della Nerina. Secondo che si narra, essa era Teresa Fattorini, figlia del cocchiere di famiglia e cresciutagli in casa. La stanza ove ella tesseva era dirimpetto a quella di Giacomo. Fanciulla carina, ridente, che tesse e canta, e s’orna nel dì di festa, e mira ed è mirata, e danza e gode: tipo di fanciulla frequentissimo soprattutto nei piccoli paesi. Quella voce s’insinuava nell’orecchio del solitario e malinconico giovane e gli scendeva nel cuore, ed a poco a poco non poté star senza di lei. Si parlarono, si giurarono fede, amore puro in lontananza. Figurarsi il conte Monaldo col suo blasone e i suoi antenati! Oibò! Uso a premere sulle inclinazioni del figlio, di cui voleva per forza fare un abate, gli mutò stanza senza poter mutargli il cuore. Questo affetto gli procurò momenti deliziosissimi di tregua, ne’ quali ricuperò la facoltà di sentire la natura e di amare la vita, e di spargere il cuore e di muovere la fantasia. Quel suo plumbeo umor nero, che si chiama la tristezza ed è infecondo, si sciolse in una malinconia piena di dolcezza e di grazia. A questa felice disposizione dobbiamo gl’Idillii scritti nell’anno appresso e pubblicati solo nel 1820. Erano sei tra’ quali un frammento della Cantica della morte che intitolò lo Spavento notturno; di cui abbiamo già detto, composto prima e in quell’anno probabilmente rifatto. Rimangono altri cinque, e sono l’Infinito, la Luna, la Sera del dì di festa, il Sogno, la Vita solitaria.
L’idea e il nome gli venne naturalmente dagli idillii greci, lui traduttore degli idillii di Mosco. Il quinto idillio di Mosco ha una visibile parentela con l’Infinito perché il giovane che contempla l’infinito, e vi si sente dolcemente naufragare, ricorda quel pastore che sente tanta dolcezza all’ombra di un platano chiomato e al mormorare del rivo. Anche parecchi concetti degli idillii greci qui rivivono. Ma la sostanza è diversa. Qui abbiamo un primo contenuto, proprio del Leopardi, il primo sguardo ch’egli gitta sul mondo.
Cap. XI, p. 86 rr. 27-28: «tu non lo trovi quasi che in solo questo giovane», Ro «tu non lo trovi che in solo questo giovane». P. 92 r. 6: «Sono stonature, qualche passaggio», Ro «Non di meno qualche passaggio»; ivi r. 9: dopo «petto» Ro ha: «ci dicono che siamo ancora ben lungi dalia perfezione»; ivi rr. 18-24: questo brano «La noia... annoiarmi» manca in Ro; ivi rr. 28-29: «Le sue idee sulla nostra letteratura diventano più concrete», Ro «Il suo gusto si è già raffinato»; ivi rr. 35-36: «Con quest’occhio più acuto ripete il suo giudizio che quasi tutto è a rifare», Ro «Con quest’occhio più acuto gli si è mutato il giudizio della letteratura italiana e biasima ora quello che lodava prima, trova che anzi tutto è a rifare». P. 104 r. 36: «uno schizzo appena», Ro «uno schizzo indiretto». P. 105 r. 9: correggiamo «Nostre misere salme e nostre menti» in «Nostre misere menti e nostre salme» forma corretta del verso leopardiano come si legge alla citazione degli stessi versi a p. 104. Correggiamo ugualmente a r. 11 «e mai non vivrai» in «e mai più non vivrai» (come si legge a p. 104) e a p. 106 r. 24: «mai» in «più» (come si legge correttamente a p. 94 r. 19).
Cap. XII, p. no rr. 1-2: «Il dualismo si accentua in questo anno. La malattia continua, e con essa il suo torpore. Il 20 marzo», Ro «L’anno appresso continua la sua malattia con qualche momentaneo sollievo. Il 20 marzo». P. 111 rr. 1-2: il periodo «Viene... lui» sostituisce il seguente brano di Ro: «Sempre quei mali e quei sentimenti. E a poco a poco gli si formava un linguaggio abituale che vi corrisponde e i sentimenti si fissano, diventano opinioni, pigliano aspetto filosofico. Questo si vede già nella lettera a Giordani del 6 marzo. Sospirava la primavera come l’unica speranza di medicina allo sfinimento dell’animo». P. 112 r. 14: «Questa lettera a Giordani», Ro «Questa lettera». P. 113 r. 26: «sicché tristi sono i meno felici». Correggiamo in «sicché i tristi sono i meno felici» come richiede il senso del discorso in relazione alle parole leopardiane che seguono nel testo. P. 114 r. 6: dopo «speranze» in N è cancellato: «e d’immaginazioni»; ivi r. 22: dopo «desiderio» Ro ha: «Logicamente non dovrebbe essere così. La poesia dovrebbe essere l’apoteosi del vero e della morte, e la condanna dell’illusione e della vita. Ma l’arte come la vita, non va a fil di logica. E coloro che veggono da per tutto il suo nullismo, non hanno senso d’arte»; ivi r. 26: «Questo era l’anno che dilatavasi ecc.», Ro «In quest’anno, mentre Leopardi si abbandonava alle sue meditazioni solitarie e le confermava e le coordinava nel suo spirito, dilatavasi ecc.»; ivi r. 35: dopo «solitudine» Ro ha le seguenti parole: «pensava a tutt’altro che a quelle prime canzoni, e si raccoglieva in sé e vedeva tutto scuro, perduta ogni speranza di sé e della patria». P. ii5 r. 3: dopo «impressione» Ro ha il seguente brano: «La tacita aurora, il sole che brilla su’ tetti, la quiete di una bella notte stellata, l’arguto canto di una tessitrice, l’abbaiare lontano de’ cani bastava a muoverlo»; ivi r. 14: dopo «vissuto» Ro ha: «stampava ne’ suoi versi l'orme di una vita immortale»; ivi r. 25: «Erano queste contraddizioni naturalissime», Ro «Quelli che mi hanno seguito in questo studio troveranno queste contraddizioni naturalissime». P. 118 r. 23: «idee scettiche». Prima era in N «idee calde», corretto poi come in Ro. P. 121 r. 22: dopo «pensoso» Ro ha il seguente brano: «È il tarlo che rode quella bella rappresentazione, e ti fa dire ne’ sospiri: sono le ombre del passato; ritornerà questa Italia?»; ivi r. 35: «È come una filosofia della storia», Ro «É una vera filosofia della storia».
Cap. XIII, p. 125 nota: abbiamo aggiunto per chiarezza l’anno alle date delle note 2, 4, 5. P. 126 r. 13 - p. 127 r. 6: questo brano «del quale... italiana» manca in Ro. P. 127 rr. 15-23: questo brano «Scrivendo... satira» sostituisce il seguente periodo di Ro: «Disegno antico assai accarezzato, con molti schizzi e pensieri». P. 128 r. 9: «educazione letteraria», Ro «educazione classica». P. 131 r. 8 - p. 132 r. 3: questo brano («Ci sono... pallone») manca in Ro ed è sostituito da queste parole: «Abbiamo già visto parecchi disegni suoi con questo fine. E di qui uscì la celebre poesia per le nozze ecc.».
Cap. XV. Questo capitolo risulta dalla unione di due articoli dei giornali che avevano i seguenti titoli: Il Bruto minore di Leopardi e La Saffo di Leopardi e che furono pubblicati anche come «note» del «socio» De Sanctis nel Rendiconto delle tornate dei lavori della Reale Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli, aprile-luglio 1877 pp. 3-10, 11-18. Il testo del Rendiconto coincide con quello dei giornali tranne qualche caso che indico con l’abbreviazione Rd. P. 143 r. 1: dopo «pensiero» Ro ha: «Qui è la crisi, il momento psicologico della sua esistenza»; ivi r. 4: dopo «disperazione» Ro ha il seguente brano: «Finiscono le canzoni patriottiche, che non furono mai altro in lui che velleità; l’idea vagante che la vita è un agitarsi nel vuoto, piglia consistenza, si fissa. E come il mondo non è mica disposto a seguirlo, e si diverte e si nutre di speranze e di piaceri, se la piglia col mondo, e si sveglia in lui un umor satirico che si sfoga nei Dialoghi e nei Paralipomeni. Accanto a questo che si potrebbe chiamare il lato negativo della sua idea, ci è il lato positivo, l’idea nelle sue varie impressioni e situazioni»; ivi r. 7: dopo «fissa» il De Sanctis aveva aggiunto in N: «Non c’è la lotta, c’è la catastrofe» frase poi da lui stesso cancellata; ivi r. 14: «Questo suo Bruto è un personaggio», Ro «È in fondo un personaggio». P. 144 r. 4: «altra notte», Ro «atra notte» (lezione da noi adottata); ivi, rr. 9-11 «Appare... colossali», Rd «Appare nel fondo del quadro uno scalpitare de’ barbari cavalli, uno sfolgorare de’ gotici brandi, il fosco avvenire di Roma, che già lampeggia innanzi al funereo eroe e gli dà proporzioni colossali»; ivi, r. 18 «e delle sue ambasce», Rd «e della sua pace». P. 145 r. 19: «porta nella sua ribellione la coscienza della vittoria», Ro «porta nella sua ribellione spirito d’uomo, la coscienza della vittoria»; ivi, r. 20 «vinto ispira simpatia», Rd «ispira simpatia». P. 146, r. 6 «Opinioni», Rd «Tali opinioni»; ivi r. 35 - p. 147 r. 2: questo brano «L’argomento... si rialza» manca in Ro. P. 147 r. 11: «Ispirata agli stessi fini è la Saffo», Ro «Ancor più interessante è la Saffo». In Rd manca questo inizio. P. 148 r. 27: «e coglie la Saffo a catastrofe compiuta, nell’atto ecc.», Ro «Leopardi coglie la Saffo nell’atto ecc.»; ivi r. 27: «aborra», Ro «aborre» (lezione da noi adottata). P. 149 r. 8. «E non solo le immagini tornano fredde», Rd «E non solo le immagini abbellite pure dall’immaginazione ubbidiente tornano fredde»; ivi r. 11: «fuggono», Ro «fuggano» (lezione da noi adottata).
Cap. XVI, p. 152 r. 4: «Oh se mi potessi rivedere», Ro «Oh se ti potessi rivedere» (lezione da noi adottata); ivi r. 19: dopo «gioventù» Ro ha: «che gli faceva credere all’Italia e alla libertà e alla virtù». P. 153 r. 19: dopo «la faccia» Ro ha: «Io paragono Leopardi ad un buon frate che è segregato dal mondo e vive nel pensiero di Dio»; ivi r. 22: «Momenti rari», Ro «Momenti rari ma felici». P. 154 r. 1: «per passarvi», Ro «a passarvi»; ivi r. 4: «poco educato alla scultura e alla pittura», Ro «poco educato alla scultura e alla pittura e alla musica»; ivi r. 20: in N era prima scritto «viso» per «riso». P. 156 r. 15: «pubblicate in Roma», Ro «pubblicate anche in Roma».
Cap. XVII. Il titolo dell’articolo corrispondente a questo capitolo era: Leopardi in Recanati.
Cap. XVIII, p. 163 rr. 11-12: «certi palpiti insoliti», Ro «certi palpiti insoliti, certe immagini antiche nel suo cervello». P. 164 r. 6: «dessi», Ro «i romantici». P. 165 rr. 13-14: «ci sta innanzi come una storia poco sentita e senza eco», Ro «ci sta innanzi come una storia non come una vita ricercata»; ivi r. 20: «senza nostra ripercussione», Ro «senza eco ne’ nostri petti». P. 167 rr. 5-6: «senza espressione», Ro «senza espressione, senza eco».
Cap. XIX, p. 171 rr. 13-15: «quella donna non è persona ma specie, l’‘alta specie’ e che non gli è dato neppure di serbare quella: ‘ e potess’io l’alta specie serbar!», Ro «che quella donna non è persona ma specie, e che non gli è dato neppure di serbare la specie». P. 172 r. 6: «e contemplativo; se ne contenta», Ro «contemplativo della donna creata dalla sua immaginazione e che non ha più speranza di mirar viva in terra, e se ne contenta».
Cap. XX, p. 173 rr. 12-13: «E questo è il concetto nella canzone di Bruto e nella Comparazione tra Bruto e Teofrasto», Ro «E questo è il concetto del Bruto minore». P. 177 rr. 11-12 «alla scuola manzoniana, che si accostava al reale e cercava il naturale e il semplice», Ro «alla scuola manzoniana, che si accostava al reale e cercava il naturale e il semplice e non l’eleganza».
Cap. XXII, p. 189 r. 29: le parole «scritto, dicesi, nel 1823» mancano in Ro. P. 190 r. 7: «lo splendido letterato di Vicenza», Ro «lo splendido letterato di Piacenza» (lezione da noi adottata — e già congetturata dal Tenconi — ed. cit., p. 283); ivi r. 31: «(1826)» manca in Ro. P. 192 r. 24: «L’epistola è il programma», Ro «L’epistola è nell’ultimo programma».
Cap. XXIII, p. 195 r. 18: dopo «gli occhi» Ro continua la citazione leopardiana: «Questa sensazione mi è parso di sentirla leggendo, oltre Anacreonte, il solo Zappi».
Cap. XXIV, p. 199 rr. 21-22: «è per lui tutta la filosofia», Ro «è per lui tutta e sola filosofia». P. 200 r. 5: «Strabone da Lampsaco», Ro «Stratone da Lampsaco» (lezione da noi adottata). P. 202 r. 23: «e riandando con l’occhio», Ro «e con l’occhio».
Cap. XXV, p. 204 r. 22: «le forze della vita», Ro «le forze della vita, vivendi causas»; ivi rr. 27-28: «della solidarietà umana, l’unione di tutti», Ro «della solidarietà umana, di tutti con tutti». P. 206 r. 15: «desidero a tutti quelli», Ro «desidero e prego caldamente a tutti quelli» (lezione da noi adottata).
Cap. XXVI, p. 208 r. 13: «mal copriva». In N prima era «mal capiva», poi «dissimulava», cancellati. P. 210 r. 24: «molte buone e belle cose», Ro «molto buone e belle cose» (lezione da noi adottata).
Cap. XXVII. Questo capitolo risulta dall’unione di due articoli dei giornali: Pensieri e Detti di Leopardi e Pensieri di Leopardi. P. 215 r. 24: dopo «italiano» Ro ha il seguente brano: «E non abbiano altro valore che di darci col loro studio notizia più esatta dello stato intellettuale e morale del loro autore, e a farci meglio comprendere il poeta. Leopardi aveva l’abitudine di notare le sue impressioni e le sue osservazioni. Queste, raccolte e compilate sotto forma di pensieri, uscirono in luce». P. 217 r. 36: «e oscura», Ro «si oscura».
Cap. XXVIII, p. 221 r. 2: «salgono», così corretto in N dal De Sanctis dal primitivo «risalgono»; ivi r. 7: correggiamo «Bologna» (come ha N) in «Milano» (dove le Operette morali furono edite nel 1827) seguendo l’esempio di Co; ivi rr. 17-18: «A giudizio suo, come di Platone», Ro «Innanzi a lui, come innanzi a Platone». P. 224 r. 12: «l’autore ebbe innanzi», Ro «ebbe innanzi l’autore».
Cap. XXIX, p. 226 r. 1: «filosofia dell’assoluto», Ro «filosofia».
Cap. XXX, p. 230 rr. 22-23; «e in altro dialogo da Timandro, e in altro dall’Amico di Tristano», Ro «e un’altra volta da Timandro, e un’altra volta dall’Amico di Tristano». P. 233 r. 3: «semplice», Ro «così semplice»; ivi: rr. 11-12 «sicché è appunto il progresso», Ro «sicché è il progresso».
Cap. XXXI, P. 237 rr. 23-24: le parole «com’è... il piacere» sostituiscono il seguente brano di Ro: «com’è quel primo uomo giovane che amore rinnova, insino a che, ritirandosi sempre più verso il nostro intimo, durando ancora la vita, esso muore e il piacere».
Cap. XXXII, p. 240 r. 16: correggiamo in «vanità universale» la forma «unità universale» che appare probabile svista del copista degli articoli inviati ai giornali o dei tipografi di questi passata in N e che riesce contraria al senso del discorso critico. P. 241 r. 24: correggiamo «è una finzione che per poco acquisti la tua fede» in «è una finzione che per poco acquista la tua fede» come è richiesto dal discorso; ivi r. 33: correggiamo «falsità» in «felicità» che solo può dare senso al discorso critico: «Leopardi vuol far credersi un convertito, o che abbia fede ora a tutte quelle cose a cui crede il secolo, cioè a dire alla felicità della vita, alla perfettibilità indefinita dell’uomo, sì che la umana specie vada ogni giorno sempre migliorando e i buoni crescano continuamente, e che Il secolo sia superiore a tutt’i passati e cose simili». Può trattarsi anche qui di una svista della prima trascrizione o dei tipografi.
I capitoli XXXIII, XXXIV, XXXV corrispondono all’articolo Leopardi risorto (Nuova Antologia, 15 ottobre 1879). Diamo per ognuno dei tre capitoli (in cui abbiamo ridiviso con i titoli relativi l’articolo, secondo l’esempio del Croce) le varianti del manoscritto di Avellino (che indichiamo con A) rispetto al testo della Nuova Antologia (che indichiamo con Na) e le frasi o parole cancellate in A.
Cap. XXXIII, p. 244 r. 3: «Cosa fece in questo tempo?», A «Cosa fece in questo tempo s’è visto»; ivi r. 5: «17 dicembre», A «15 dicembre» (lezione da noi adottata). P. 245 r. 3: dopo «lettere» in A è cancellato: «Non è dunque improbabile che fra le tante occupazioni prosaiche non abbia pur potuto comporre de’ versi, ma non ce n’è indizio»; ivi r. 27: leggiamo «lampo» non sottolineato (come leggono Croce e Co) perché l’apparente sottolineatura di A (comunque assente in Na) è solo il segno di cancellatura della parola prima scritta dal De Sanctis: «raggio». P. 246 r. 20: dopo «giugno» in A è cancellato: «Vi attese lo Stella col quale prese tali accordi, che gli fu possibile il soggiorno di Firenze lungamente vagheggiato». P. 247 r. 11: dopo «chirurgica» in A è cancellato: «che è in vista, gli spaura l’immaginazione».
Cap. XXXIV. Il titolo in A era dapprima: «A Pisa e a Firenze. Il Risorgimento». P. 251 r. 9: adottiamo la correzione di Co della svista «A Paolina» in «Al padre» (a cui è indirizzata la lettera leopardiana da cui il De Sanctis cita).
Cap. XXXV, p. 255 r. 24: «l’immutabile verità», A «l’immutabile sostanza». P. 256 r. 6: «Le rimembranze non s’affollano, e non s’incalzano», A «Le rimembranze non s’affollano e non l’incalzano». P. 257 r. 32: «il primo versetto sdrucciola», A «il primo versetto precipita»; ivi r. 35: «ripigliate», A «ripigliate connesse». P. 258 rr. 11-12: «Essa è il preludio musicale alle nuove poesie, alla sua terza maniera», A «Essa è il preludio musicale alle nuove poesie».
Cap. XXXVI. Di questo capitolo possediamo la redazione in articolo (Nuova Antologia, 1 luglio 1881), un manoscritto autografo (che indichiamo con A), un manoscritto aggiunto dal Bonari al manoscritto del saggio (che indichiamo con N) e un manoscritto incompleto (da p. 263 r. 21 alla fine e che indichiamo con A1) contenuto come A nel quaderno di manoscritti desanctisiani della Biblioteca Provinciale di Avellino. Diamo le varianti rispetto al testo della Nuova Antologia, da noi riprodotto, di A, di N (copia assai fedele di A, ma priva di alcune correzioni che il De Sanctis apportò in A in una fase intermedia fra la copiatura di N e la stampa), di A1, che appare come la stesura più vicina alla stampa e che, come questa ha il finale mancante in A e N. P. 259 r. 7-p. 260 r. 7: Questo brano «Or questa... Ranieri» si legge in A in questa diversa redazione: «Questa era storia della sua anima, i cui tratti principali («essenziali» correzione successiva) sono nel Risorgimento, dove ci dà la spiegazione più profonda del suo essere, rappresentando in un quadro le vicende interne della sua vita («in un quadro vivacissimo tutta intera la sua vita intima», prima lezione rimasta in N). La quale in questo tempo ch’egli scrisse il Risorgimento, si può dire giunta a maturità («e compiuta» cancellato in A e N). Cessate sono le lotte interne e le contraddizioni. Il mondo nella sua mente è già fissato, ridotto a dogma, il cui catechismo è nel Risorgimento. È giunto alla conclusione della infelicità universale, irrimediabile come ha dimostrato già ne’ suoi dialoghi. E ora non discute più, non dimostra, non lotta, non («si ribella», prima lezione cancellata in A) s’illude. Quel mondo divenutogli chiaro e fisso come un assioma, è oramai il dato e l’antecedente di ogni sua concezione. E lo tratta come cosa sua, e lo situa e lo fa suonare cavandone tutte le note che l’istrumento può dare con la sicurezza di una intelligenza superiore che guarda dall’alto uomini e cose. Il sentimento di questa infelicità universale è fatto acuto e presente dalla sua infelicità particolare, della quale sente spesso l’aculeo. Forse l’amore avrebbe potuto riconciliarlo con la Natura; così ne avea l’anima piena e ardente. Non gli bastava l’amicizia delle donne. Di amiche ne ebbe parecchie, come l’Adelaide e la patriottica Antonietta, e la Lenzoni e più tardi la Paolina Ranieri». P. 260 rr. 10-11: «e di un lavoro della Malvezzi parla con compassione sprezzante», A: «e l’ultima volta che parla di un lavoro della Malvezzi, si contenta di dire». P. 260 rr. 15-17: il brano «Pure... disgusto» sostituisce il seguente brano di A: «Non gli bastava l’amicizia, voleva l’amore, preda facile delle illusioni (cancellato: ‘delle donne maliziose’)»; ivi r. 22: dopo «ira» A ha questo brano: «Da questa trista esperienza della donna (cancellato: ‘della vita femminile’) viene cacciato sempre più verso i puri amori di Recanati, verso gl’ideali femminili e sotto nome di Silvia (e, cancellato: ‘ e di Nerina ’) gli torna in mente la tessitrice. L’amore è una rimembranza, com’è la sua giovinezza»; ivi r. 30: «cuore vergine», A «cuore vergine e ardente». P. 261 r. 2: «gli concedeva un’espansione socievole» A «gli consentiva un’espansione socievole»; ivi rr. 3-5: il brano «Non è... solo» sostituisce il seguente brano di A: «Pure si sentiva solitario nella amicizia. Coloro avevano certe idee fondamentali alle quali non poteva partecipare»; ivi rr. 20-21: «Niccolini le tragedie», A «Niccolini l’Arnaldo da Brescia». P. 262 rr. 13-14: «dottrine venute in moda», A «dottrine simili venute in moda»; ivi r. 35-p. 263 r. 7: il brano «Con questa... conforto» manca in A. P. 263 rr. 16-17: «I sentimenti del Manzoni stavano a gran distanza dai suoi», A «Le tendenze del Manzoni non erano le sue»; ivi r. 17: «Scrive al padre sempre misurato e accorto, e talora con linguaggio e sentire paterno», A «Scrive al padre sempre in modo accorto e misurato, e parla talora col suo linguaggio e col suo sentire». P. 264 rr. 4-26: il brano «Questo... volta» manca in A, che ha il seguente periodo: «Questa vita nuova e varia in Bologna, in Milano, in Firenze, in Pisa ebbe poca azione sul suo intelletto, rimasto solitario e ripiegato in sé in un ambiente non simpatico, anzi contrario»; ivi rr. 26-27: «Risorto dalla sua apatia, riacquistata la facoltà di immaginare e di amare, si sentì redivivo al cospetto del Fato e della Natura», A «Risorto da quell’apatia morbosa ch’egli chiama indifferenza filosofica si sentì come in Recanati solo al cospetto del Fato e della Natura»; ivi r. 32: «di vivo, di presente», A «di vivo, di presente e di reale»; ivi r. 34: «il poeta dell’Infinito, del Sogno e della Sera», A «il poeta dell’Infinito, della Luna e della Sera». P. 265 r. 2: «alle favole», A «alle antiche favole»; ivi rr. 8-9: «non ne comprende nessuno», A «non ne specifica nessuno»; ivi rr. 17-19: il brano «L’uomo... luce» manca in A; ivi rr. 25-26: «in quella malinconia dolce, che sfugge le sventure reali e cerca asilo nell’immaginazione», A «in quella malinconia dolce, che fugge le sventure reali e la malinconia nera e solida»; ivi rr. 29-30: «Vive’ co’ suoi fantasmi e co’ suoi ideali, solitario; vive nella sua immaginazione forte e calda», N (in A è cancellato e corretto come in Na): «Vive co’ suoi fantasmi e co’ suoi ideali, come oasi inconscia del formidabile deserto che la circonda e che si chiama il mondo. Vive nella sua immaginazione forte e calda»; ivi rr. 32-33: «Ritorna il pittore dell’anima sua, con un senso più spiccato di vivo e di moderno», N «Ritorna il pittore dell’anima che brucia di un ardore solitario e vi si consuma, nella sua impotenza di assimilarsi il reale. Qui dove fu il suo dolore e la sua malattia, fu anche la sua originalità e la sua eccellenza. Ma ritorna con senso di vivo e di presente» (brano che in A porta cancellato il periodo «Qui... eccellenza»), A1 «Ritorna il pittore dell’anima, ma con un senso di vivo e di presente». P. 266 rr. 9-10: «della Crestomazia», A «per la Crestomazia»; ivi rr. 12-14: «Giovarono forse anche i lunghi colloqui col Manzoni, che dovettero stornarlo da quelle forme solenni e clamorose», A «Giovarono soprattutto anche i lunghi colloquii col Manzoni, le cui opinioni se non poté accettare nella parte dello stile e della lingua, dovettero pure stornarlo da quelle forme solenni e piene di rimbombo (N ‘reboanti’); ivi r. 20: dopo «stesso», A ha il periodo «La guerra... indifferenti» che in Na si legge a p. 203 rr. 3-4; ivi rr. 26-29: il brano «Nella sua vita... in sé stesso» in A si legge nella seguente maniera: «La sua vita è semplicissima: fantasticare sopra sé stesso alzandosi all’universo, fantasticare sull’universo, con ritorni continui in sé stesso»; ivi r. 26: «vita solitaria e monotona», A1 «vita ordinaria e monotona»; ivi r. 35: dopo «sentire» in A il capitolo termina così: «Poetando cantava la sua infelicità con quell’oblio, con quella effusione che allevia il cuore. Il concetto stesso dell’arte gli si era purificato. Quell’arte per sé stessa, quel giuoco dell’immaginazione, quell’andar cercando generi, forme e modelli gli doveva parere una profanazione. Era salito a quel punto di perfezione che la forma non ha più valore per sé, e non è che voce immediata di quel di dentro, in fusione perfetta. L’uomo era venuto nella piena coscienza e nel pieno possesso di sé». N riproduce, all’inizio del brano, le seguenti parole cancellate in A: «poetando cantava e sentiva sé stesso e dovea sentirsi felice in que’ rari momenti ch’egli cantava». P. 267 r. 15: «ricrea l’amore», A1 «ricrea i suoi amori»; ivi r. 18: «come, non sai», A1 «come, non sai, ma è il miracolo dell’arte»; ivi r. ’23: «che comparvero», A1 «pubblicate».
Cap. XXXVII. Di questo capitolo possediamo due redazioni in due manoscritti della Biblioteca di Avellino: uno autografo (A) e una copia riveduta da quello (A1). Diamo qui le varianti di A rispetto ad A1 che noi seguiamo.
P. 268 r. 2: «la prima età», A «quella prima età»; ivi r. 9: «e tutto finì!», A «e tutto è passato, tutto passa» (e, cancellato, «l’avvenire ci rideva, la vita ci pareva così bella»); ivi rr. 14-15: «Riandando anche noi i suoi versi, eccoci innanzi la Sera del dì di festa», A «Vediamo dunque l’antico, vediamo il cuore di una volta. Eccoci innanzi la Sera del dì di festa». P. 269 rr. 15-16: «Nel Sogno quella cara giovinetta è spenta», A «Ma nel Sogno quella cara giovinetta è morta»; ivi r. 24: «la giovinezza spenta», A «la giovinezza fuggita» P. 270 r. 17: «esprime l’intima letizia», A «manifesta l’interna gioia»; ivi r. 30: «il sentimento è uno», A «il sentimento è lo stesso». P. 271 rr. 10-12: questo brano «quel ‘vedevi’... brivido» manca in A; ivi rr. 14-15: «e oggi può con ragione dire», A «e può oggi dopo la trista esperienza dire»; ivi r. 25: dopo «completa» in A si legge: «Silvia raggiunge le sue compagne immortali nel firmamento dell’arte»; ivi r. 28: «di due individui», A «di due infelici»; ivi r. 30: «Non rende quel che promette», A «E non è solo a que’ due che ‘non rende quel che promette’»; ivi rr. 31-33: «il senso generale fa stacco a modo di sentenza o di riflessione, e talora raffredda l’impressione che ti viene dal particolare», A «ma spesso il generale vi ha la sua espressione in sentenze e riflessioni che raffreddano ciò che di vivace vi ha messo il sentimento personale». P. 272 r. 7: «E quando, in ultimo, la speranza nel suo sparire indica con la mano la ‘fredda morte’» A «E quando nel finire, la speranza, morendo, indica meta ultima all’umanità ‘la fredda morte’»; ivi rr. 12-29: questo brano «ma non fa esistenza» manca in A, in cui al suo posto si legge: «pure ella non è esagerata, non ha voce, non ha moto di persona viva (cancellato: «qui la poesia è propria e vera scultura»). È una statua immobile in una certa attitudine. E può parere la statua dell’Umanità posta all’ingresso di un cimitero (cancellato: «con una iscrizione funebre che spieghi il suo pensiero»). Elena, Beatrice, Margherita, Silvia, ecco la storia della donna nel cervello umano. L’Iliade, la Divina Commedia, il Faust svaniscono in questo breve idillio della vita al quale viene dietro il disinganno e la morte, una tomba ignuda. Sic transit».
Cap. XXXVIII. Di questo capitolo esiste una sola redazione: il manoscritto della Biblioteca di Avellino, copia eseguita dalla stessa mano a cui si devono il manoscritto A1 del cap. XXXVI e quello A1 del cap. XXXVII. Diamo qui le rare parole cancellate nel manoscritto.
P. 273 rr. 16-17: si legge cancellato: «Nel dí di festa egli contempla solitario il tramonto del sole, alla campagna uscendo»; ivi r. 20: dopo «l’immaginazione» è cancellato: «e la riflessione». P. 274 r. 1: cancellato «lontani», sostituito da: «alieni»; ivi rr. 4-5: è cancellato: «come un mistero», sostituito da: «come un costume».
In questa seconda edizione ho apportate alcune correzioni di sviste, o di errori tipografici rimaste nella prima. Ho tenuto conto in questa revisione del testo anche di alcune proposte di correzioni fatte nella recensione di A. Mauro in Giornale Italiano di Filologia, 1, 1953, nonché di alcune correzioni congetturali proposte dalla edizione degli scritti leopardiani del De Sanctis uscita presso l’editore Einaudi, a cura di C. Muscetta e A. Perna quando già, come può vedersi dalla mia edizione commentata precedentemente ristampata, avevo apportato correzioni al mio testo: è avvenuto anzi che alcune correzioni da me apportate a mie precedenti sviste non compaiono nella nuova edizione einaudiana, come ad es.: «figura» invece del giusto «lingua» (p. 92 ed. mia; p. 123, r. 7 ed. Einaudi); «i più illogici» invece di «più illogici» (p. 118 ed. mia; p. 153 r. 4 ed. Einaudi); «più che nero» invece di «più nero» (p. 138 ed. mia; p. 176 r. 22 ed. Einaudi); «materia è forza» invece di «materia e forza» (p. 200 ed. mia; p. 263 r. 13. ed. Einaudi); «pensieri» invece di «piaceri» (p. 219 ed. mia; p. 293 r. 18 ed. Einaudi).
Dall’edizione einaudiana ho accolto le seguenti correzioni: «cospirazioni» invece di «ispirazioni» (ed. Einaudi, p. 80 r. 1; ed. mia, p. 79 r. 14); «intellettivo» invece di «collettivo» (ed. Einaudi, p. 117 r. 33; ed. mia, p. 88 r. 8); «tutto vi è» invece di «vi è» (ed. Einaudi, p. 139 r. 22; ed. mia, p. 107 r. 28); «sole poesie» invece di «sue poesie» (ed. Einaudi, p. 166 r. 20; ed. mia, 129 r. 1); «cose che dice» invece di «cose» (ed. Einaudi, p. 325 r. 10; ed. mia p. 242 r. 2).
Walter Binni |
Note
- ↑ E precisamente alle seguenti date sul Roma: Lezione introduttiva, 18-19 gennaio; I, 24-25 gennaio; II, 3-4 febbraio; III, 10-11 febbraio; IV, 17-18 febbraio; V, 24-25 febbraio, VI, 10-11 marzo; VII, 23 marzo; VIII, 1° aprile; IX, 18-19 aprile; X, 29 aprile; XI, 24 maggio; XII, 22-23 giugno; XIII, 4-5 luglio; XIV, 26-27 luglio; XV, 13-14 agosto; XVI, 21-22 agosto; XVII, 5 settembre; XVIII, 23-24 settembre. Sul Diritto. Lezione introduttiva, 18 gennaio; I, 24 gennaio; II, 3 febbraio; III, 10 febbraio; IV, 17 febbraio; V, 24 febbraio; VI, 10 marzo; VII, 23 marzo; VIII, 1° aprile; IX, 17 aprile; X, 28 aprile; XI, 24 maggio; XII, 22 giugno; XIII, 4 luglio; XIV, 26 luglio; XV, 13 agosto; XVI, 21 agosto; XVII, 4 settembre; XVIII, 22 settembre.
- ↑ E precisamente alle seguenti date: sul Diritto: I, 27 giugno 1877; II, 3 luglio; III, 13 luglio; IV, 19 luglio; V, 25 luglio; VI, 4 agosto; VII, 7 agosto; VIII, 15 agosto; IX, 23 agosto; X, 17 settembre; XI, 20 settembre; XII, 4 ottobre; XIII, 12 ottobre; XIV, 15 ottobre; XV, 22 ottobre; XVI, 24 ottobre; XVII, 12 novembre; XVIII, 14 novembre; XIX, 19 novembre. E sul Roma: I, 18-20 giugno 1877; 28 giugno; III, 14 luglio; IV, 21 luglio; V, 27 luglio; VI, 5 agosto; VII, 9 agosto; VIII, 17 agosto; IX, 24 agosto; X, 21 settembre; XI, 25 settembre; XII, 5 ottobre; XIII, 14 ottobre; XIV, 20 ottobre; XV, 3 dicembre; XVI, 22 dicembre; XVII, 7 gennaio 1878; XVIII, 24 gennaio; XIX, 27 gennaio.
- ↑ E prima, nel 1877, pure nella Nuova Antologia, erano usciti due saggi leopardiani: La Nerina di G. Leopardi e Le nuove canzoni di G. Leopardi che passarono poi, con quello del 1869 su La prima canzone di G. Leopardi, nei Nuovi Saggi critici (Napoli, 1879), e sono ora ripubblicati nel II e III volume dell’edizione dei Saggi critici a cura di L. Russo (Bari, Laterza, 1952).
- ↑ Si vedano in proposito le pagine riguardanti i manoscritti desanctisiani della Nazionale di Napoli nel volumetto di B. Croce, Gli scritti di F. De Sanctis e la loro varia fortuna, Bari, 1917, pp. 26-28.
- ↑ Oltre ai manoscritti da noi utilizzati, il fascicolo della Provinciale di Avellino contiene: nel quaderno I l’autografo del saggio La prima canzone di Giacomo Leopardi, nel quaderno II e nel quaderno III due copie autografe del saggio Le nuove canzoni di Giacomo Leopardi.
- ↑ Op. cit., pp. VII-VIII.
- ↑ Op. cit., p. VIII.
- ↑ F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo decimonono, a cura di N. Cortese, Napoli, 1933, IV, p. 392 (Nota bibliografica).
- ↑ Op. cit., p. 102.
- ↑ Nella trascrizione del secondo l’edizione Cortese salta però una intera paginetta del manoscritto.
- ↑ B. Croce, Gli scritti di F. De Sanctis ecc., già cit., p. 28: «Fasc. V, carte del periodo 1854-59, 2. Due quaderni di alcune lezioni fatte in Zurigo nel Politecnico sulla lirica italiana e particolarmente sul Petrarca e il Leopardi, raccolte dal suo scolaro Teodoro Frizzoni».
- ↑ Il Croce proponeva come terzo volume della Storia della letteratura italiana nel secolo decimonono: «lo Studio sul Leopardi (già edito dal Bonari) con l’aggiunta dei sei capitoletti editi dal Croce (Scritti varii, II, 101-35), e con in appendice, a guisa di documento, la lezione introduttiva del corso (in Critica, X, 226-31)» (Op. cit., p. 106).
- ↑ Né mancano casi in cui la stessa restituzione del testo leopardiano è a sua volta errata, come a p. 150, rr. 28-29, dove le parole di Saffo citate così dal De Sanctis: «Qual fallo macchiommi anzi il natale?» son cambiate in questa forma pure imperfetta: «Qual nefando eccesso macchiommi anzi il natale?».
- ↑ Delle 344 pagine di questo (tutte numerate dal De Sanctis che aggiunse anche l’indicazione cronologica sopra i titoli dei primi 22 capitoli), solo una decina sono completamente autografe. Le altre sono dovute a tre copisti: al primo (che spesso interviene insieme al De Sanctis a correggere il testo degli altri due) si devono le pp. 1-65, al secondo le pp. 66-185, al terzo le pp. 186-344. Le pagine scritte dal primo copista sono certamente le più recenti e corrispondono ai primi quattro capitoli in cui la materia delle lezioni fu più profondamente rielaborata. Le altre parti derivano da quaderni precedenti, in cui il De Sanctis aveva già fatto copiare il testo dei giornali e su cui, negli ultimi mesi del 1883, egli apportò modificazioni, correggendo, tagliando e aggiungendo in vista della pubblicazione. Le modificazioni vanno facendosi sempre più rare dopo il cap. XIV, con cui finisce la parte corrispondente alle lezioni.