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tanti versi giovanili presto cancellati, divenne la grande colpevole, personificata ne’ giacobini, nemici del trono e dell’altare.

Così letterariamente il giovane era francese e secolo decimottavo; politicamente vi si ribellava, e si stringeva alla religione come sola salute contro gli eccessi della filosofia e della ragione.

Tale era Giacomo a diciassett’anni, nel 1815, quando compose il Saggio sugli errori popolari degli antichi. Quel saggio pieno di erudizione conteneva idee sane, come si diceva allora, e dové parere portento tanta dottrina in così giovane età. Pur non fu potuto pubblicare a Roma, e, mandato il manoscritto all’editore Stella, in Milano, si smarrì, e non fu ritrovato e pubblicato che dopo la morte dell’autore nel 1845. Sainte-Beuve dice: «qu’ il présente déjà les résultats d’un esprit bien ferme»; Viani lo chiama opera virile; Ranieri ci trova profonda e vasta erudizione, e De Sinner lo chiama: «admirandae lectionis et eruditionis opus». Questi elogi non sono valuti ad acquistare molti lettori al libro, rimasto come materia archeologica dell’ingegno leopardiano o buona a cercarvi le prime formazioni.

Messi quegli studi, quella biblioteca, quell’educazione, quel gusto, quelle opinioni e quell’ambiente, nessuno stupirà che ne sia uscito quel saggio.

Il giovane discorre tutti gli errori de’ greci e de’ romani, teologici, metafisici e fisici, per dar risalto al beneficio fatto all’umanità dal Cristianesimo che ce ne ha liberati, ancora che parecchi di quelli errori continuino sotto altre forme presso le ignoranti moltitudini. E vuol far ben comprendere che la religione, anzi la Chiesa, è il più sicuro rimedio contro gli errori e le superstizioni, e che la filosofia e la ragione abbandonate a sé danno pessimi frutti. Veduto da Recanati e dalla casa patema, questo libro ci par cosa naturalissima, come ci pare il libro Dell’antichissima sapienza degl’italiani di Giambattista Vico, veduto dalla solitudine della biblioteca. Ma se lo guardiamo da più vasti orizzonti, quel libro ci farà stupore. Cosa era l’Europa allora? Che movimento c’era ne’ fatti e nelle idee? Quando Leopardi aveva quattordici anni, era il 1812, spedizione di Russia; e quando componeva il saggio, era il 1815, Waterloo e la Santa Alleanza. E queste lotte e questi avvenimenti politici avevano a loro base un gran mutamento nelle idee, più forte contro Napoleone e il secolo da lui rappresentato, che non furono i battaglioni anglo-prussiani. Era il risveglio dello spirito e dell’ideale, della giustizia, della libertà, della patria contro un uomo e un secolo personificato nelle matematiche e nei gros bataillons.

C’era in quel movimento d’idee Schiller e Goethe e Fichte e Chateaubriand e la Staël, e più tardi Hugo e Lamartine. E c’era allora un italiano a Parigi, mescolato in quel gran moto di fatti e d’idee e caldo il petto di quello spirito nuovo, che pubblica gl’inni in quell’anno ap-