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nota 331

traduceva tragedie greche e faceva versi, egli, contro il costume della sua età, scimieggiava Mai, latineggiava, correggeva testi, discuteva varianti, confrontava date, raccoglieva frammenti, disseppelliva rispettabili rovine, con quello stesso ardore che altri mettevano a disseppellire Ninive, o Troia, o Pompei. Abbiamo l’erudito, o se vi piace meglio, l’eruditissimo, come lo chiama Niebhur, e in quella superlativa erudizione vediamo già svilupparsi quella critica che sta ancora nelle basse regioni dell’emendazione e illustrazione de’ testi. Non abbiamo ancora indizio di gusto e di sentimento, né a ciò erano propizii quegli autori e quegli esercizii.

Il 1815 si apre con uno strascico del finito anno, un nuovo comento latino, In Julii Africani Cestos condotto a metá e che De Sinner giudica dottissimo. Poi piglia a scrivere il Saggio, di cui fu discorso avanti, e insieme traduce gli idillii di Mosco e la Batracomiomachia e vi aggiunge due discorsi intorno agli autori. Il commentarius diviene discorso. Trovi il comentatore greco-latino in veste italiana. Quel suo latino, tanto predicato e da così valenti non fu potuto pubblicare né a Roma né altrove, e sta ancora polveroso e dimenticato in casa De Sinner. Miglior fortuna ebbe il suo italiano. Discorsi e versioni furono pubblicate dallo Stella nello Spettatore, e questo valse a spargere il nome del giovane assai più che non quel latino indirizzato a un cerchio ristretto di eruditi.

A leggere il discorso sopra Mosco ti ricordi il De vita et Scriptis di Ermogene o di Frontone. È un’altra rovina che il giovane vuol disseppellire. Di Mosco è rimasto solo poco più che il nome, soverchiato dalla maggiore fama di Teocrito. Chi sia, di che paese, di che tempo, e che cosa abbia scritto, di tutto questo non si ha notizia certa. Vedi occasione magnifica a un De vita et scriptis. E il giovane fruga e rifruga, e raccoglie grande quantità di citazioni e di testimonianze.

E prova e crede di provare che Mosco e Teocrito sono non uno stesso poeta, come parea a taluni, ma due persone distinte, e che Mosco, se non fu di Siracusa, fu certo di Sicilia, e discepolo di Bione e contemporaneo di Teocrito, e che sono suoi otto idillii, e di altri due attribuitigli uno è di Bione, l’altro di Teocrito. Poi numera le edizioni e le versioni di Mosco, fermandosi alquanto sulle francesi e le italiane, e dicendo solo i nomi delle tedesche, che probabilmente non aveva innanzi. È difficile trovare qualcuno che abbia parlato di Mosco, e che non sia ricordato qui. L’autore sa tutto, ha cercato tutto. E oltre al sapere si vede abbastanza sviluppato il suo ingegno critico, chi guardi a certi confronti e a certe fine osservazioni. Sappiamo quello che sapevamo, la sua erudizione e il suo ingegno critico.

Ma qui c’è del nuovo. Gli capita innanzi un monsieur Poinsinet de Sivry, membro, niente meno, dell’Accademia di scienze e lettere di Lorena; traduttore in versi francesi di Anacreonte, Saffo, Mosco, Bione e altri poeti greci.

Il giovine lo ferma al passaggio e non lo lascia più, gli fa una pettinatura di santa ragione».