Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
332 | giacomo leopardi |
Da questo punto il testo è uguale a quello del capitolo IV da p. 22 r. 11 a p. 24 r. 18 (tranne tre varianti riportate da noi fra le varianti del capitolo IV). Poi il testo dei giornali passa a p. 25 r. 11 della nostra edizione, e di qui continua uguale sino a p. 29 r. 13, dove troviamo il seguente brano che non compare più nel manoscritto:
E perché la critica venga da Leopardi stesso prendete la Batracomiomachia rifatta, e vedrete le sue correzioni tendere appunto a dar colore e rilievo a quel primo lavoro giovanile che è la Batracomiomachia volgarizzata anche in quest’anno. Prendiamo l’arringa di Gonfiagote, il re delle rane:
Calmate, rane mie, questi timori.
Verso cascante, volgare. C’è la cosa, non c’è alcuna impressione. Leopardi corresse:
Zitto, ranocchie mie, non piú timori.
Qui c’è lo stesso senso, e c’è ancora la concitazione e il tuono imperatorio dell’oratore, appena giunge tra quella folla clamorosa.
Gonfiagote continua:
Ben so che un certo sorcio impertinente |
Lascio stare lo stento del secondo verso, ma qui c’è la semplice esteriorità del fatto. Leopardi corregge.
So ben che certo sorcio impertinente, |
Dove si vede l’intenzione nell’oratore di mettere in ridicolo la presunzione del sorcio e il modo di sua morte.
Il giovane traduttore dice: |
E l’uomo maturo corregge:
Corriamo aitarmi; e di suo cieco ardire |