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nota 327

A diciassette anni era già quasi l’uomo più dotto di quel tempo. E la sua dottrina lo aveva avvezzato a cercare nelle questioni il pensiero altrui anziché a meditarvi lui. La sua intelligenza era dominata dalla sua dottrina.

Nudrito di studi classici e pieno il capo di forme greche e latine, non aveva il gusto conforme ai suoi studi. In una sua lettera a Pietro Giordani, dice che aveva il capo pieno delle massime moderne, sprezzava Omero, Dante, e i classici, non pregiava che francesi, e i suoi primi scrittacci originali furono traduzioni. Come si spiega? Era il gusto di quel tempo, era il secolo decimottavo e tutti, retrivi e liberali, erano figli di quel secolo.

La Francia era tenuta allora «á la tête de la civilisation», per dirlo alla francese, e si disputava ancora seriamente quali fossero più grandi scrittori, o i greci o i francesi, Euripide o Racine, Sofocle o Corneille.

Con queste impressioni il suo scrivere era un italiano corrente, venutogli attraverso il francese. Le sue opinioni si accostavano a quelle del secolo. Pei giovani ha ragione sempre il secolo che ultimo parla. A sentirlo, Aristotile è il tiranno della ragione, e non bisogna giurare «in verba magistri», e bisogna pensare col capo suo — ma nol dice questo col capo suo — e il mondo è pieno di errori e di superstizioni, e se una riforma universale è cosa ridicola, bisogna pure acconciarsi a questa o a quella riforma.

Fin qui arrivava lui, e ci stavano in generale gli uomini colti. Quelle massime in quella misura così temperata, già fu tempo, erano partecipate anche da’ principi. Il giovanetto scriveva: «Credere una cosa perché si è udito dirla e non si è avuta cura di esaminarla, fa torto all’intelletto dell’uomo. Una tale cecità appartiene a que’ tempi d’ignoranza, ne’ quali si stimava saggio chi obbediva al tiranno della ragione, e chi giurava sulle parole di Aristotele». Ecco linguaggio di secolo decimottavo. E prima aveva già detto: «Si deridono con ragione i progetti di riforma universale. Frattanto è evidente che v’ha che riformare nel mondo, e fra tutti gli abusi, quelli che riguardano l’educazione sono, dopo quelli che interessano il culto, i più perniciosi».

Sembra un periodo tradotto dal francese, con lieve movenza italiana. Ma il secolo decimottavo nelle sue applicazioni andò ad un punto, che il giovinetto non poté più seguitarlo. Que’ principii ancora astratti, ancora idillici, ricevuti da tutti, e prima dai nobili e dai principi, presero corpo, divennero l’Ottantanove, e il Ventuno gennaio e la Convenzione e i giacobini, e Bonaparte, che, orrore! giunse a mettere la mano sino sul papa. Immaginate quale impressione dovettero produrre que’ fatti su di un buon suddito pontificio, qual era il conte padre, e che ambiente si formò in quella casa e in quel paese, e quali potevano essere le opinioni di Giacomo. La Francia «scellerata e nera», come la chiamò in uno di que’