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nota 329

punto che Leopardi, con in capo la biblioteca e nella biblioteca, scrivea il Saggio sugli errori popolari degli antichi. Medesimo scopo in tutti e due, l’apoteosi della religione. Ma l’una era opera viva e l’altra opera morta. Gl’Inni parvero il segnale di una nuova letteratura e di un nuovo moto d’idee, ebbero edizioni e imitatori: c’era lì dentro passione e ispirazione. Il Saggio è il prodotto dell’ambiente e della tradizione, una tradizione passivamente ricevuta, non ventilata, non assorbita nella propria personalità. Lì era il principio di un mondo nuovo; qui lo strascico di un passato che moriva. Lo scopo del Saggio è la semplice etiquette, un pretesto, senza che il giovane ne abbia coscienza. È un pretesto che gli offre occasione magnifica di metter fuori quell’immenso materiale di conoscenze condensato nel suo cervello. A dimostrare verità di fatto che tutti sanno e che nessuno contrasta, ecco una filza di citazioni, una processione di autori, diversi di valore e di autorità, e messi alla rinfusa l’uno accanto all’altro. La biblioteca a poco a poco gli esce tutta di sotto la penna. In tutta questa erudizione non ci vedo ancora discernimento o profondità e non un «esprit ferme», e non opera virile, dove non apparisce ancora personalità e originalità, e ci vedo solo quello che ci ha visto De Sinner: «admirandae lectionis et eruditionis opus». Non c’è qui dentro un interesse morale, o filosofico o artistico. È una materia trattata con i materiali che aveva, e da que’ materiali esce non altro che un’opera maravigliosa di erudizione.

Il Saggio è scritto nell’italiano corrente di quel tempo, prima che sorgesse il purismo. Vi troviamo «rimarco» con tutti i suoi figli e nipoti, il «piano» o l’«idea» di un’opera, e la meditazione «toccante» e il «trasporto d’amore» vocaboli, modi e costrutti, e gallicismi con molta volgarità e poca proprietà. Manca spesso la connessione grammaticale com’è in francese, e manca talora anche la connessione logica, con un prima e un poi arbitrario, come viene in mente.

Manca all’espressione semplicità e schiettezza, anzi, a ostentazione di sentimenti fittizii, hai pure talora un lusso di vecchie metafore. Valga a esempio la conchiusione. Vuol dire che la religione caccia l’errore e apre la via del vero alla ragione. E non lo dice già in questo modo semplice. Vuol mostrarsi appassionato, e ti fa un’apostrofe alla religione e conchiude così: «Tu hai fulminato l’errore, tu hai assicurata alla ragione e alla verità una sede che non perderanno giammai. Tu vivrai sempre, e l’errore non vivrà mai teco. Quando esso ci assalirà, quando coprendoci gli occhi con una mano tenebrosa minaccerà di sprofondarci negli abissi oscuri che l’ignoranza spalanca avanti a’ nostri piedi, noi ci volgeremo a te, e troveremo la verità sotto il tuo manto. L’errore fuggirà come il lupo della montagna inseguito dal pastore e la tua mano ci condurrà alla salvezza». Sono metafore, paragoni, frasi trovate belle e fatte nell’uso corrente, volgari e insieme grottesche.