Filotimo
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II
FILOTIMO
(Collocutori: Berretta, Testa, Ercule).
Berretta. O Fortuna iniquissima dispensatrice di lochi! Maledetta sia cosí iniqua sorte che sopra di te mi ha posta!
Testa. Che hai tu, che, da molti giorni in qua, mai altro che lamentazioni e querele da te si sente?
Berretta. Io vorria che quella lana, de la quale io nacqui, insieme con la pecora che la produsse, fusse stata dal lupo divorata, o che pur arsa fusse tra le dita di quella sordida feminella che la filò.
Testa. Che ti manca? che vorrestu? Da me non hai iniuria alcuna.
Berretta. Anzi da te sola ogni mio male procede, ogni mio torto nasce; tu di ogni mio lamento sei cagione, perché di me ogni iniquo portamento tu fai.
Testa. Non so vedere in che cosa del mio mal portamento dolere ti possi. Io ti comprai a maggior prezio che cerne di questa sorte, qual tu sei, comprar non si soglino; la notte, quando a letto mi conduco, da uno scovino grattar ti faccio, poi sopra un tappeto, da un sottilissimo faccioletto coperta, tutta la notte, con qualche parte del giorno, posar ti lasso; e il di, quando al publico conspetto ne vado, prima di odorate polveri e acque ti aspergo, poi nel piú onorato loco ch’io abbia e nel più alto ti pongo.
Berretta. E io vorria prima che nel piú infimo mi avessi posta, ovvero per peduli o per scapini mi avessi deputata o per coperta di quella parte, per la quale le supervacue reliquie fòra si mandano de l’alimento: ché almeno piú queta mia vita seria, né potria mai di iniquitade esser imputata. E queste tue delizie a temine di natura piú molle vorria che tu riservassi.
Testa. Per certo a me pare che abbi in tutto perso il sentimento, a dire che ti rincresca che per loco il capo ti sia deputato; il quale è sedia e casa de la ragione e de lo intelletto e del iudizio, et è in loco conspicuo e veduto da ogni omo; e piú presto di fetidi lochi e occulti vorresti essere coperta.
Berretta. Quando in questo capo quelle cose vi fussino che tu dici e che esser vi doveriano, a me tal loco non gravarla; ma quando considero che dentro alcuna di esse non si trova e che posa alcuna non ho, anzi ora in una foggia, ora in un’altra, ora in un sito, ora in un altro, or giú, or su, senza alcun iudizio mi porti e levi e poni, per certo mi doglio pur troppo, e chiamo felice il pelo caprino che a tappeti e zelleghe deserve, e la canepa e il lino chiamo beati, che per sacchi e calzoni da naviganti si usano, piuttosto che la lana de la quale io fui composta, se ben del vello di Iasone fusse stata tosata.
Testa. Io non intendo questo tuo parlare; o tu sei disperata o tu frenetichi.
Berretta. Freneticar mi pari tu, che hai dentro materia a ciò disposta e fai opera da frenetico; ma pur che in mio danno e vergogna non fusse, poco me ne curaria.
Testa. Tu mi fai per certo parer un’altra ch’io non sono, o io non intendo te. Fammi una grazia: parla piú chiaro.
Berretta. Io farò peggio: perché s’io ti vorrò parlar chiaro, non cessarò, misera! di dirti il vero, e tu, non usata a tal ragione, ti adirerai e sopra un desco impoiverito, come si usa ne l’ira, ovver nel fango per furore mi butterai.
Testa. Io ti prometto di non m’adirare; di’ su ciò che a bocca ti viene, ché di audire per certo io son disposta.
Berretta. A chi non scappasse la pazienza, vedendo in te tanta inconstanza, che mai in un garbo o in un abito mi pòi tenere? e ora in guisa di capitello mi porti, ora in guisa di piramide, quando in forma di un laveggio, quando di una zangola roversa, un tempo a figura di mezzo melone, un altro tempo a costola, quando a la pazza e quando a la veneresca, or con mezza e or con tutta piega, e or con binde o cordelle di uno o di piú colori mi leghi. Chi potria mai tante mutazioni, e si diverse, tollerare?
Testa. Io credeva che tu volessi dire qualche cosa, ma io ti vincerò a ragione. Non debb’io fare tutto quello ch’io posso per aver reputazione et essere estimata da li omini?
Berretta. Si bene. Ma che ha a fare questo a proposito?
Testa. Io ti dirò. O bello o terribile si deve sforzare l’omo di parere: la prima, per piacere a li amici; la seconda, per indurre paura e terrore a li inimici. Questi modi vari, ne li quali ti uso, operano l’una e l’altra cosa.
Berretta. Rispondimi a questo: la diversitá de le fogge ne le quali tu mi usi, può ella fare che un brutto paia bello e che un pusillanime e vile paia terribile?
Testa. Io penso che si: perché vedo ancora che quando tu sei posta in capo ad uno che sia stato in studio di teologia o di legge civile o di altra scienza, con le cerimonie e ornamenti che a quelli atti si usano, quel tale, a chi cosí sei posta, pare ad altrui et è reputato savio e dotto; e cosí ancora bello e terribile può esser estimato uno, secondo la forma e sito che ti porta.
Berretta. Prima che andiamo piú oltra, vediamo che non erriamo ne li termini. Che cosa è bellezza?
Testa. Io tei dirò bene e presto. Bellezza è l’avere una bella zázzara, con la berretta in foggia sopra un ciglio, la calza tirata, la scarpa stretta, con l’andar vago de la persona.
Berretta. Noi non ci accordaremo, ch’io il vedo! Ora cominci a dimostrare che in cotesto capo non è cervello. Piú pazza definizione di questa non vidi mai io.
Testa. A me pare cosí, perch’io ti so dire che tutti quelli che sono tenuti politi cosí definiscono ancora la Bellezza; pur dillo tu, se tu senti altramente.
Berretta. Io non voglio contendere, per esser breve; e però, senz’altra confutazione de la tua descrizione, io la definirò in poche parole. Bellezza è un’atta e iusta proporzione di tutte le membra, insieme con grande aspetto.
Testa. Or io intendo mo’; cosí volea dire io.
Berretta. Di’ piú oltra, che cosa è terribilitá?
Testa. Io spero di questa meglio satisfarti. Terribilitá è la spada cinta, la voce grossa, la berretta su li occhi, col sguardo traverso e la cappa ad armacollo.
Berretta. Tu mi fai venir voglia di dire in una parola la biastema del cancaro, ché tu se’ una bestia. Ma mi voglio portare onestamente: questo tuo capo in sumraa è un nido di parpaglioni.
Testa. Perché? non è cosí com’io ti dico? Io vedo pure questi del.palazzo regale chiamare questa la terribilitá. Vorria vedere come la descriveresti tu.
Berretta. E ancor questo ti dirò, per non stare in parole. Io voglio che tu sappi che la terribilitá è una opinione concetta ne la mente de li omini de la vera gagliardia, animositá, potenza e severitá di colui che è tanto terribile.
Testa. Orsú, posto che sia cosí, per non contendere, che vòi tu dire per questo?
Berretta. Io voglio dire che tu sei pazza, se tu credi ch’io possa, in foggia alcuna, far parere bello colui che non ha quella debita proporzione de li membri né la grazia de l’aspetto, e terribile colui che non è per animoso né per forte — né per potente conosciuto. E piú supina ignoranza è la tua ancora a credere ch’io possa fare teologo o iurisconsulto, per esser posta in capo ad uno che sia stato in studio, ancora che in la cima mi vi acconcino un fiocco divisato di seta. Che se tu sapessi quanta ignoranza io qualche volta copra, tu diresti (com’io) che’1 seria meglio ch’io fussi calzetto che berretta; perché Tesser stato in studio non è quello che faccia dotto e savio, ma è l’avere studiato e ben assai. E però, si come io non posso far dotto l’ignorante, cosí né il brutto bello né il pusillanime terribile posso fare.
Testa. Troppo mi pare che tu dichi il vero. Ma questo negare non si può, che secondo che Tomo adorna il capo, cosí è estimato; come vedemo ne le pitture di quelli omini morti, che sono per constituzione de’ viventi fatte dappo’ la morte di loro: che quando si vedeno dipinti con la diadema in capo, sono tenuti beati nel cielo. E vedemo ancora che le corone e le mitrie fanno li capi, ove son poste, degni di venerazione quasi divina tra li omini.
Berretta. Non ti dico io che in te non è parte niuna di quelle cose che tu dici avere dentro? Quanti di questi da le diademe hai tu veduti, che piú di vent’anni sono stati dipinti nel muro, né mai però fecerno miracoli! E quanti portano corona, che meglio seria che di aglio o di cepolle se la facessino! E quanti son quelli che portano mitria, e nel summo loco coperta di gemme, che se bene fussino li loro meriti pesati, degni piuttosto seriano (si come a’ damnati per loro eccessi si usa) di una mitria di carta, a vituperosa imagine dipinta! Adunque tu credi che io possa racconciare e ricoprire li mancamenti de l’animo, si come io posso il calvizio e la tigna nascondere?
Testa. Tu potresti dire tanto, che io mi chiamaria vinta in questa parte; ma questo è però vero, che io faccio come li altri e me ne vado con la piú parte.
Berretta. Tu mi confermi ancor piú quello ch’io t’ho detto, che né ragione né intelletto né iudizio in te ritieni, andandone col vulgo, il quale di ogni veritá pessimo interprete fu sempre iudicato. Ma questa è la minore iniuria che mi fai; maggior cagione di querela mi danno molti altri tuoi modi.
Testa. Finalmente che ti faccio io? A me pare che tu abbi detto pur troppo, e tutto quello che si può dire, né so vedere in che io ti possa piú offendere.
Berretta. Anzi pare che tu abbi piacere ch’io sia quella ché, insieme col lacerarmi, m’abbi a vituperare; perché non ti basta che binde rosse e gialle e violacee portare mi fai, ché ancora di penne di uccelli spesse volte mi empi le pieghe: e ora alcuni bolli, o tondi o quadri o di altra figura, dorati con lettere o altri segni, mi attacchi, onde a me togli mia dignitade e a te non lieve carico ti fai.
Testa. Questo faccio io per una certa cosa chiamata galanteria, la qual pare non si disdica; anzi pare che colui che cosí ti porta, abbia animo cortesanesco, leggiadro e amoroso.
Berretta. Che cosa è galanteria?
Testa. Io non te ne sapria dire una propria definizione, per non averne mai trovato scrittura; ma credo che la sia un portamento ovvero impresa di qualche cosa rara, che fa l’omo esser mirato da altri et estimato piú atto e piú bello.
Berretta. Non tei dico io che tu sei vota? Quanto piú parli, piú ti scopri. Tu ti diletti di questa tua galanteria, né sai che cosa ella sia. Né altro vói dir questo se non che cosí come tu non sai che cosa ella sia, cosí anco non sai quello che tu fai. (Né peggio si puoi dire ad un omo razionale, che dirgli che ’l non sappia quello che ’l faccia, che è uno vivere temerariamente e a caso). Onde io te la voglio descrivere: galanteria altro non è che una occupazione in cose superflue e di niun momento, causata da vanitá di mente e levitá di cervello.
Testa. Questa è definizione, che forse a li galanti contumeliosa pareria; onde non la provando tu altramente, forse che in iudicio se la chiameriano iniuria.
Berretta. Io te la proverò in piú modi. Prima per la etimologia e derivazione del vocabulo, poi da l’autoritá de li proverbi antiqui, che sono regole di filosofia. Questo nome ‛galanteria’ è dedotto da galla, che è una superfluitá nata ne le querce, inutile, senza seme e levissima e tonda, che ap pena si può fermare in terra; onde è nato il proverbio: «Tu se’ piú leggero d’una galla». E tu sai che simili cose inutili e vane, di che io mi doglio, che mi fai, sono dal populo chiamate galle. Voglio ancora che tu sappi che da galla è nato un verbo, che si chiama gallare, che altro non vòl dire che insanire et esser pazzo. Appresso, queste penne di grue, di pappagallo, di gazza, che spesso mi ficchi ne la piega, altro non significano che levitá di chi le porta; il perché in proverbio ancora si dice, alcuno «essere piú leggero che una penna».
Testa. Mai piú intesi che cosa fusse galanteria, et hollo caro per certo. Ma ancora ch’io ti concedessi che questo portare di galle e penne dovesse con qualche ragione dispiacere, come cosa senza alcuna valuta e a la gravitá de Tomo al tutto contraria, di questo non voglio che tu parli, ch’io ti faccia portare questi piccoli segni dorati; che certo aresti il torto a biasmarli.
Berretta. Vòi tu ch’io ti dica il vero in poche parole? Quelle idee o figure che ha Tomo ne l’intelletto, quelle manda di fora ne le opere esteriori: si come il pittore e il scultore fanno le imagini e le statue simili a quelle che prima ne la mente avevano concepute, e Tomo savio fa le opere simili a li savi pensieri che prima ne l’intelletto ha avuto. Io credo che similmente tu abbi divisato quel poco di cervello che hai, come sono le divise, le galle e le imprese che tu mi fai portare. Tu sai che li frutti mostrano li arbori e li segnali le balle.
Testa. Per certo a me pare che tu abbi il torto di questo, perché vedemo pure che anche li omini militari le loro imprese e pennacchi ne li eserciti portano, e nondimeno biasmati non sono.
Berretta. E io ti dico che non solum biasmare non si debbeno, anzi per questo di commendazioni son degni; e quando non lo facessino, imputare si potriano, perché non lievi ragioni, ma onorevoli e iuste tale usanza hanno introdotta, de le quali niuna in te milita.
Testa. E quali ragioni son quelle? Io non credo che sia altro che Galanteria.
Berretta. Eccoti pur su la tua! Quanto piú ti maneggio, piú scema ti trovo. Giá è bene questo naturale ne li stolti, che sempre in altri credono quello che in loro sentono e da la loro pazzia le altrui azioni misurano, credendo ogni omo essere simile a loro! La ragione de le divise, ovvero fogge, che dai militanti sopra li elmetti e le armi si portano, da una di queste quattro cagioni, o da tutte insieme, ebbe origine: perché, ovvero si portano per distinguere le nazioni e le compagnie militari, per schivare confusione e tenere ordine in riconoscere la milizia: si come ne li eserciti germanici si facea, che alcuni capi di orsi, alcuni di cinghiari, altri di lupi portavano); ovvero come cosa acquistata e virtuosamente vinta da l’inimico in battaglia, e chiamansi spoglie: si come Manlio romano il torque, il qual da l’inimico gallico tolse, portare solea; ovvero per segno son poste di qualche glorioso fatto: si come ne lo elmetto di Lisimaco le come del toro; ovvero si pongono da li valorosi cavalieri sopra de’ loro elmi per poter essere conosciuti ne la mischia e poter far note le virtú loro ne la confusione e furore di battaglia: si come Pirro le come del becco, Pompeo il leone con la spada ne la branca, Iulio Cesare l’aquila negra e li principi de la valorosa famiglia estense, a l’etá nostra, l’aquila bianca ancora portano. Ma che tu, oziosa e imbelle, vogli di simil cose vane e frivole senza fondamento di virtú infrascarmi, cosa è per certo ridicola e perversa. Vói tu che ti dia un bon consiglio?
Testa. Con me di’ ciò che tu vòi, ch’io t’ho promesso non mi adirare. Ma se tu dirai in loco che questi gioveni che in casa del re praticano, ti odano, si turberanno con te e porterai qualche pericolo.
Berretta. Tienlo adunque secreto, ch’io voglio a te sola averlo detto. Tuttavia io crederia che se loro estimano esserli lecito le azioni di vanitá, che anche a me lecite dovessino essere le parole di veritá. Sia adunque per non detto. Ma ancora questo per niente reputarla, se non fussino l’altre intollerabili iniurie che mi fai; ch’io eleggerla piuttosto che per spazzator da forno mi adoperassi, ché con minor indignazione di animo la mia vita passarla, e che tu facessi di me come far sòli, quando azzuffato con Bacco tu sei, che furibondo e sudato nel pavimento mi butti, e qualche volta con li piedi calpestandomi in preda di cani e di topi mi lassi.
Testa. Or dico ben mo’ che torto hai tu! Fin da ora non negarò che qualche tua ragione legata non mi abbia; ma quando da quelle cose che biasmato hai mi ritenessi, non so vedere che iniuria alcuna piú fare ti possa. Perché, come ho detto, io t’ho pure posto ne la cima de la persona mia per ornamento e coperta de la piú nobile parte ch’io abbia, né so che piú tu vogli.
Berretta. Tu mi hai ben posta in capo e volentieri vi stana, ma tu non mi vi lassi stare mai o posare; spesso mi levi e poni e sempre li hai la mano, cavandomi a questo e a quello, e (di che piú mi doglio) senza alcuna differenza di omini e senza alcun iudizio; per la qual cosa io tengo beate le fasce de li egizi e li turbanti de li asiani e le scuffie germaniche, le quali mai per incontramento o presenza di alcun omo da li loro capi sono mosse, ancor che il loro summo re fusse, il quale per terreno lor dio adorano.
Testa. Or dico ben io che tu hai natura difficile, querula e bizzarra, dolendoti di quello di che mai alcun si dolse. Adunque tu biasmi che col cavarmiti di capo io onori li omini?
Berretta. Io non biasmo l’onorare altrui, mi doglio di questo tuo levarmi, senza elezione alcuna, da la mia sedia e dal loco ove mi hai posta, avendo (come tu dici) postomi in quello per onorarmi. E se tu sapessi che cosa è onore, tu intenderesti ch’io iustamente mi doglio.
Testa. Io ’l so troppo che cosa è onore; non è pur cosí diffidi cosa a saperlo.
Berretta. Pare ben cosí a te, che ti credi ogni cosa sapere, e ti persuadi, come tu hai denari, cosí avere ancora senno e dottrina, ma l’effetto mostra poi il contrario. E per farne la prova presto, dimmi un poco: che cosa è onore?
Testa. Io tel dirò in due parole: onore non è altro che una bella cavata di berretta. E che ’l sia il vero, poni mente come ogni omo il desidera, e come alcuni vanno sempre guardando a le mani de’ circunstanti, per vedere se le levano per trarsi di capo, e invitarli e indurli a cavarsela.
Berretta. Veramente ogni tua parola dimostra pure il medesimo! Per una bella testa, io credo che al mondo non sia la piú vacua di quelle cose che li bisogni, di te. Né mi maraviglio se tu manchi di iudizio, essendo si bene armata d’ignoranza.
Testa. Che cosa è adunque onore, se il cavare di berretta non è?
Berretta. Ancor che io sappia, che, ovvero non mi intenderai ovvero quello ch’io ti dirò per una orecchia ti uscirá per l’altra (come la stanga per il mastello), pure tel dirò. Onore è una esibizione di reverenza, in segno di eccellente virtú de l’onorato.
Testa. E questo volea dire anch’io; e questo è quello ch’io faccio quand’io ti piglio per levarti di capo.
Berretta. Non ti diceva io che tu non mi intenderesti? Orsú, lassamo stare: per tua fe’,tu sei proprio una gabbia da volandole! Non voglio piú contendere. Andiamo in piazza.
Testa. Andiamo, ch’io ho li faccende. Ma voglio che facciamo la via de la corte regale, per vedere alcuno amico mio, con chi ho a fare importanti faccende.
Berretta. Andiamo pur presto. Io prego Iddio che tu mi fermi una volta in un stato, e che non sempre col consiglio di questo tuo specchio mi facci mutar posto. Vorria pur sapere a che proposito tu m’hai sopra li occhi cosí tirata.
Testa. Non vedi tu che paio adesso un gagliardo e un bravo, che quasi con li occhi li omini divori?
Berretta. Oh dio! che molesta cosa è servire pazzi! Perché mo’ sopra il sinistro ciglio mi poni? che t’ha fatto questa destra parte del capo, che tu non vòi ch’io la copra? Deh, come vorria che una volta un’emicragna ti prendesse! forse che impararesti tenerlo coperto tutto.
Testa. Tu non hai punto de l’accorto. Guarda come lampeggio quest’occhio a le dame, quando andando per la terra miro a le fenestre. Quanta lascivia porta con sé questa portatura torta sopra d’un occhio!
Berretta. E1 ti sona pur il bacinetto per certo! Ma almeno lassami stare cosí. Perché rao’ a mezza testa indrieto e negletta mi lassi?
Testa. Tu vòi saper ragione di troppe cose. Lo faccio per mostrarmi pensoso e di non curare e di affettare ornamento, e per mille altri gentili rispetti. Che credi tu? sono premure neapolitane per aver grazia, con l’andare a la sprezzata.
Berretta. Non dire piú, per la tua fe’. Andiamo, e portami a tuo modo; ma credimi, che ’l seria ben fatto ti facessi levare li capelli e in mio loco ponessi sopra questo tuo capo qualche gallo o qualche cagnòlo aperto di fresco, caldo caldo.
Testa. Per questo, che mi fariano cotesti animali?
Berretta. Io tei dirò poi un’altra volta: andiamo pur per adesso. — Or non mi posso tenere ch’io non tel dica: perché m’hai tu mo’ tratta di capo, come hai veduto costui che viene in qua?
Testa. Non volevi tu ch’io gli facessi onore? Non vedi quella bella catena d’oro che ha al collo?
Berretta. Tu hai onorato adunque quella catena, non lui?
Testa. Anzi ho onorato lui per rispetto di quella catena.
Berretta. Chi è lui?
Testa. Io non lo so, ma so bene che ’l ha una bella catena.
Berretta. E se ’l non avesse avuto la catena, lo aresti tu, col trarmiti di capo, onorato?
Testa. Non io. Anzi quando il vidi da prima non lo curai, ma lui, che se ne accorse, allargò il mantello dinanzi acciò ch’io la vedessi; e allora io feci l’atto.
Berretta. Tu onorasti pur dunque la catena, non lui?
Testa. Ben sai che sí; ma lo feci perché presumea che chi portava tal catena fusse omo di valore.
Berretta. Ma quando in veritá non fusse omo di valore, ma fusse omo ambizioso, superbo, avaro, sciocco e simili cose, e nondimeno avesse la catena, ti scopriresti tu il capo?
Testa. Non io.
Berretta. Pur una volta hai detto una bona parola! Et io ti dico che colui che portasse catena d’oro e non avesse le condizioni che tal portamento ricerca, meritarla di una bona e grossa catena di ferro, e tu insieme con lui, essere catenato; lui, perché quello che non gli conviene portarla, tu, perché quella cosa che non devi onorasti, e a’ pazzi miglior rimedio non è che la catena. — Ma perché a quest’altro mi hai tu mo’ levata di capo?
Testa. Non vedi tu che ’l ha li panni longhi e il cappuccio foderato di vaio, et è dottore?
Berretta. È egli dotto, dimmi?
Testa. Io non so questo: a me basta che ’l è dottore, che è piú che dotto.
Berretta. Oh dio, come è possibile tanta ignoranza sia in un capo? Quanto seria meglio che tu fussi stata una zucca da semente, poiché tu estimi piú essere dottore che dotto!
Testa. Io so pure che a li di passati i’ gli vidi drieto una gran turba che lo accompagnavano a casa, e inanzi gli andavano li pifferi e li trombetti, e ’l populo correa a vederlo; e io sentiva ragionare che ’l sonava molto ben di liuto et era un bon compagnone.
Berretta. Tu m’hai satisfatto a punto. Per certo ogni cosa è pur piena di pazzia! Non era meglio a costui andarsene a casa senza trombe, che con esse far correre il populo a testificare la sua ignoranza? — Orsú, chi è quest’altro a chi tu hai fatto si bell’inchino?
Testa. Oh elio è valente omo! Ell’è causidico nel pretorio iudiciale, et è sollecito. Io ti so dire che le sa tutte!
Berretta. Ma pure che sa el’ fare?
Testa. Tu non vedesti mai omo intricare una causa meglio di lui, inviluppare il cervello a li iudici, differire quanto tempo tu vòi ogni breve e chiara lite, obscurare la veritá, metter le mani in carta, mangiar da ogni lato. Ei tutte le virtú possiede che in sublime causidico si ricercano: audace, presuntuoso, importuno, impudente. Omo, ti so dire, vivo e da l’amico.
Berretta. A tante laudi, costui mi par degno, non solo che ’l gli sia tratto di capo, ma d’essere onorato di una collana di canepa! — Ma chi è quest’altro che t’ha fatto mettere il ginocchio in terra?
Testa. Di piano, che ’l non ti senta. È uno che ha la peggior lingua d’omo del mondo: mi pare far bene ad onorarlo per tenermi al meglio ch’io posso il favor suo, acciò che di me non dica male.
Berretta. Misera condizione è la tua: onorar per paura! È segno che de la propria tua virtude e conscienza non ti fidi. Ma ad ogni modo fatto non ti vegnerá, perché il flusso de la lingua è una infermitá, che chi da quella è maculato, mai se la leva, se col bastone da altri non gli è levata.
Testa. Credo che tu dichi il vero. — Ma lassami fare una bella reverenza a costui.
Berretta. Chi è costui?
Testa. Ell’è un gran ricco.
Berretta. Come è fatto cosí ricco?
Testa. Ha saputo ben far li fatti soi, perché è un omo cauto, sollecito, che vede il pelo ne l’ovo e sfende il capello.
Berretta. Gli fu lassata la robba da li soi per ereditá oppure l’ha guadagnata lui?
Testa. Lui l’ha guadagnata, e (quello che piú mirabile ti parerá) in brevissimo tempo.
Berretta. Come ha elio potuto far si presto, a chi non è, come dicono li savi, o iniquo lui o erede di un iniquo?
Testa. Io non sapria dire tante cose; so bene che ’l fu dazierò, e serviva li amici col pegno, poi ministrò bon tempo le entrate regali.
Berretta. Basta, basta, non dir piú. — Dimmi, com’è liberale di questa sua ricchezza?
Testa. È piú arido che non è la pomice.
Berretta. Se ’l non è liberale nel dar denari e robbe, e quando e a chi bisogna, è elio almanco magnifico e suntuoso ne l’edificare, e massime cose publiche e grandi, come seriano templi, teatri, muri de la cittá, ponti e simil cose, o in aiutare il re a li soi bisogni?
Testa. Tu dimandi le strane cose! Nonché ’l non faccia questo, ma quando si ragiona di pagare il tributo per le cose publiche o per sussidio del principe, lui fa tutto quello che ’l sa e può per non pagarlo, e infine se non è sforzato non lo paga, e ancora con mille querele. Ma ti voglio dire di piú: li sorci di casa sua rodono il ferro.
Berretta. Per un tal omo adunque mi ti levi di capo e fai si grande inchino! Non ti dico io che in questa zucca non è sale? — Chi è mo’ quest’altro che ti fa scappucciare?
Testa. Non vedi tu che ’l ha i speroni dorati a le calcagne?
Berretta. Io il vedo troppo. Ma fatti in qua un poco: sa elio cavalcare? ha elio mai portato arme o combattuto per la patria o per il re, e fatto, per via d’arme, de la sua persona alcuna prova?
Testa. Non, che sappia io. Basta che porta l’oro.
Berretta. È ello almanco cortese e liberale con li amici, o difensor di vedove o di pupilli e simil persone a chi bisogna presidio? o alberga a casa sua forestieri da bene, quando per la cittá passano?
Testa. Ah, ah, tu mi fai ridere! Se un amico gli dimandasse denari in presto, partirla la soccida. Li pupilli e le vedove se hanno de l’oro, gli giova: se non hanno, lor danno. Li forestieri in questa terra vanno a l’osteria.
Berretta. Per questo solo adunque, che ’l porta l’oro, gli fai tante sberrettate? Oh Dio, fussi io una braga piuttosto che una berretta! Orsú per tua fe’, non piú, andiamo pur via. La prima lucerna da olio ch’io trovo, ho deliberato darli dentro e coprirmi tutta; almeno s’io sarò macchiata d’olio, so che non mi porterai piú a vedere tanta iniustizia. Ma ancora c’è da fare. Chi è costui, per tua fé, che come t’ha guardato a le mani, tu presto mi hai fatto fare un salto?
Testa. Questo è uno nobile de la terra.
Berretta. Che sa ’l fare costui?
Testa. Li nobili fra noi non sanno fare troppe cose, perché non imparano né arte né scienza alcuna e hanno per cosa inimica a la nobiltá il fare qualche cosa: ma stanno oziosi e vanno a piacere quanto possono, salvo se in rivedere li conti e ragioni con li loro lavoratori e villani non sono a le volte occupati. Ma costui è nobil’omo e da bene.
Berretta. Dichiarami un poco questo esser da bene, come tu l’intendi.
Testa. Io intendo omo da bene chi ha del proprio e non fa impaccio a persona.
Berretta. Tu chiami adunque da bene non colui che fa il bene, ma quello che non fa il male?
Testa. Io chiamo pur da bene colui che fa il bene.
Berretta. Costui adunque, che tu chiami nobile, non può esser chiamato da bene, poiché non fa il bene; ché chi non fa cosa alcuna (per quanto dice Aristotele) impossibile è che ’l faccia bene.
Testa. Io non sapria dire tanta loica; io so questo, che lui è chiamato nobile.
Berretta. Per certo io voglio pur vedere s’io posso ficcarti un poco di veritade in questo tuo capo arietino. Che cosa è nobilita?
Testa. Io credo che nobilita sia il poter numerare li soi antecessori in memoria di longo tempo.
Berretta. Non ti dico io che questa tua zucca è mal salata? Quanti mercadanti e notari, quanti vili e bassi artefici, quanti cultori di terra hanno longa memoria de la successione de’ soi antenati, e nondimeno non sono chiamati nobili! Anzi piú, ché non è alcuno che per questo rispetto non sia chiamato nobile ad un modo, perché niuno è che da li sassi di Deucalione e Pirra non sia nato e che da quelli la sua origine non deduca.
Testa. Se questo che io ho detto adunque non è nobilita, la sará questa un poter dire che li soi maggiori siano stati vittoriosi e grandi omini.
Berretta. Tu hai piú duro il cervello del calamaro! Ti dico che colui che esalta e predica le virtú de’ soi maggiori, non lauda sé e la propria sua condizione, ma lauda la virtú altrui; e la virtú altrui come è possibile che faccia nobile colui che quella virtú non ha?
Testa. Io vedo pur costoro che contendono di nobilita insieme, allegar sempre li soi antiqui che ebbeno grandi offici, che furono amati da li principi de le cittá e che ebbeno giá de le castelle e simil cose; e li soi vicini e famigli dicono che l’è il vero.
Berretta. Grande iniquitá commette per certo colui, anzi in gran miseria si trova, che non avendo lui di lettere o di armi, né d’altra virtú intellettiva e morale ornamento alcuno, per questo solo che li soi antiqui o fortunati o virtuosi siano stati, importunamente ricorra d’esser tenuto nobile; e lui inerte e imperito, o a qualche sordido guadagno sempre intento, vòle de la fama altrui, forse con molto sudore acquistata, valersi.
Testa. Tu mi fai travedere con certe tue ragioni. Ma fa ch’io intenda un poco, e dillo tu che cosa è nobilitá.
Berretta. Tanto è dirlo a te quanto a un cavallo, perché non piglierai quello che dirò, essendo abituata ne le false opinioni; pure ti dirò quello in che li sapienti omini d’ogni nazione e setta concordano. La nobilitá non è altro che un splendore che da la propria virtú nasce; e però chi non ha virtú, tal splendore di nobilitá non può rendere: onde il virtuoso meritamente nobile deve essere chiamato, e ancor che obscurissima la sua nazion fusse, a lui basta poter dire (come Claudio imperatore di un virtuoso disse) che di se medesimo el’ sia nato. Ben ti confesso, che si come nobilissimo si deve chiamare veramente colui che la virtuosa successione de li soi con la propria virtude continua, cosí ignominiosissimo deve essere estimato quello che la fama ereditaria de li soi lassiando, da la loro virtude e probitá degenera.
Testa. Tu m’inviluppi il cervello di parole. Io non intendo questo splendor che tu dici. Io vedo pure che dove va costui, sempre la vicinanza, nel celebrare di funerali, nel sedere ne li conviti nuziali e simili lochi, gli dá la presidenza.
Berretta. Che vòl dire ‛presidenza’?
Testa. Vòi dire che lo mandano inanzi al compagno.
Berretta. Di’ ‛precedenza’, in tua mala fortuna! Vòi tu vedere come è busa questa tua cervelliera, che non sai pur distinguere ‛precedenza’ da ‛presidenza’?
Testa. Ben sai ch’io non ho studiato.
Berretta. Tu il dimostri al parlare; e però tanto peggio per te. Mal tesoro, dice Ippocrate, è l’ignoranza! Ma pur che importa questa precedenza? Io ho bene inteso dire piú volte che è naturale e antica legge, e per commune consenso de la gente ancora ne le bene ordinate cittá immobilmente si serva, che quelli che sono nati prima, in privilegio de la etá, sono a li piú gioveni preposti: cosa di che niuno iustamente dolere si può, come da la natura, commune madre, introdotta. E ho anco audito dire che li arbori e le piante, secondo li lochi e il terreno ove son poste, acquistano grado di piú o meno bontá; e li astrologi di maggiore o minore efficacia fanno li loro pianeti secondo li lochi, ove ne le loro figurazioni si trovano; ma che il mettere un omo piú inanzi o piú indrieto, o piú in giú o piú in su, per differenza di loco lo faccia migliore o piú sufficiente o piú dotto, questo non intesi 10 mai. Ho bene inteso che li omini son quelli che onorano 11 lochi, e non li lochi li omini. Piú ti voglio dire ch’io ho per esperienza il contrario piú volte veduto: ché molti omini, finché sono stati in basso loco, hanno avuto vita e fama laudabile, ma poi che sono stati esaltati e sublimati, hanno perduto l’arte e la reputazione, e finalmente come le scimie feceno, che quanto piú in alto montano, piú brutta parte di loro mostrano. Ma di che ridi tu?
Testa. Io rido di questa tua similitudine, ché veramente ho piú volte notato la scimia che finché la sta a sedere, pur qualche grazia e piacevolezza dimostra, ma come la monta in alto, se li vedeno quelle sue natiche callose, e mostra il vituperio suo.
Berretta. E questo è quello che voglio dir io. Sono molti che cercano presidenza per poter precedere altri, che quando l’hanno poi e che sono in loco conspicuo et eminente (come è il magistrato o altro esercizio publico) dimostrano la ignoranza, l’avarizia, l’ambizione, la cupiditá e insufficienza loro; che se avessino pensato e fussino stati contenti del loro basso e mediocre stato, la lor miseria intesa non si seria. Questi tali adunque come meritano precedenza? E tu perché per simili omini tanto torto mi fai, che de la mia sedia mi movi e di tanta iniustizia appresso mi fai ministra?
Testa. Io comprendo ben che tu dici il vero, ma io faccio come vedo fare li altri.
Berretta. Vedi tu che te ne vai col vulgo? Or non dire piú che tu m’abbi posto in loco di ragione, ma di’ sopra una nidata di grilli.
Testa. Tu mi maneggi pur sinistramente per certo! Ma io vorria sapere un poco da te: non avendo tu mai studiato, come sai tante cose, che ’l par che tu sii una filosofa femina?
Berretta. Di questo non hai da maravigliarti, perché io son stata sopra tanti capi di industriosi, di dotti, di savi, di stolti, di ostinati, di vani e di tante sorte di omini, ch’io seria molto degna di reprensione se in tanta pratica con loro qualche veritá non avessi imparata. Ma lassamo andar questo, leviamoci pur presto di qui e andiamo a fare quello che tu vòi fare; e riportami presto a casa per tua fé, acciò ch’io stia alquanto in posa. Questa è cosa purtroppo tediosa per certo che tu non lassi sorte di omini a chi tu non mi ti togli, come a rari comandatori o spenditori: e non è omo si vile o cosí basso, che tu non vogli ch’io sia quella che ne porti la pena col trarrai del capo tuo per onorarlo. E appresso fai certi toi volti sforzati e tratti de la lor natura per dimostrare con finta umanitá la tua maggior subiezione e servitude, non pensando che li sottili et esperti ingegni ingannar non si possono, perché sanno quanto fumo getta il tuo camino. E peggio a le volte avviene, che tu sei schernita e dileggiata e rimani delusa: ché sei si pronta e intenta al cavarmi, col cercare che altri a te se la cavino, che ogni minimo movimento di mano che fanno quelli che incontra ti vengono, tu estimi subito che per trarsi a te di capo lo faccino, e per non perderli (quasi come se uccelli di tua pantera fussino) in un momento mi ti levi di capo; e nondimeno vedeno poi li circunstanti con riso, et hollo veduto io, che quelli che la mano mosseno, uno per grattarsi la testa, l’altro per nettarsi il naso, il terzo per levarsi una bruca dal petto la mano alzorono. E tu nondimeno, facendo di me come li strozzieri di un lodro fanno a chiamar loro uccelli e falconi, inconsideratamente levandomi, col capo nudo e schernito rimanesti! E io udii uno che disse: — Questa testa uccella a berrette, ma non sempre piglia. —
Testa. Io ti promisi non mi adirare, e anche te l’ho osservato; ma tu mi hai pur aspramente toccata e imputata di mille mancamenti! E voglio però mostrare che tutto faccio con gran ragione, e di quella non ne son priva, come tu molte volte hai detto. A me pare che colui che in tutte le sue cose mira sempre a l’utilitá propria, sia uno valente omo, e chi per quella si affatica meriti commendazione. Tra li altri modi di farsi qualche utilitade, l’acquistare li amici mi pare cosa molto fruttuosa, onde trovandomi in tanta ambizione di omini, che ciascuno, e basso che ’l sia, si reputa degno che tu gli sii tratta (e per questo ne vadono con li occhi intenti di qua e di lá guardando a le mani altrui se le movono a toccarsi il cappuccio, pur loro uccellando a berrettate in tutti li modi possibili); anch’io vedendo non potersi fare cosa piú grata, ti piglio e del capo mio al loro conspetto ti traggo. E tu vedi qual fronte mi fanno e come allegri mi accettano! E se una volta io mancassi di trarti, mi diventariano inimici, perché ne le leggi de l’ambizione ancor questa hanno, che chi una volta o due li ha tratto la berretta, tengono averla, come per prescrizione, guadagnata per sempre; ond’io, che mi adatto al tempo e a la propria utilitá, ho avuto il mio rispetto e a tutti ti cavo per farmili amici e poterne poi trarre qualche utile. E però a quello da la catena ti trassi, perché tu vedessi in quanti modi se la metteva acciò che gli fusse veduta: ora la ributtava in drieto, ora inanzi e ora ad armacollo, ora parte, ora tutto ne scopriva il mantello, acciò che dal populo veduta gli fusse, che altro dir non volea se non: — Cavatemi tutti la berretta. — Cosi al dottore e al procuratore, che una volta in palagio servire mi potriano; il medesimo al ricco e al nobile e a tutti li altri che veduto hai, ché niuno di loro è ch’io non creda che una qualche volta giovare mi possa, o almanco di nocermi si guardi: come quel detrattore e altri a chi per paura ti cavo. Or di’ mo’ ch’io sia senza ragione e zucca senza sale!
Berretta. Non piú, non piú. Quanto piú parli, piú tua sciocchezza, ignoranza e falsitá di iudicio dimostri. Perché non è vero quello che tu dici, che valente omo sia quello che a la propria utilitá sempre ha rispetto e a che per l’utile proprio fare si deve: anzi simili omini come veneno fuggire si vogliono, e da loro guardarsi, come de la republica e commune utilitá specialissimi inimici. Guai a quel principe e a quel re, che per consiglieri e ministri si governano che a la propria loro utilitá mirano! guai a quelle cittá che il lor stato amministrano per cittadini, che a la loro utilitá e commodi intendono! Niuna piú dannosa peste al mondo si trova che ’l studio del privato emolumento, ove retto consiglio si ricerchi; piú, dicono li savi che il voler sempre d’ogni cosa trarre utile, ad omini ingenui e magnanimi in niun modo conviene. Ma qual iustizia è questa, che comporta che quella reverenza che a li dei e a li re e a li magistrati publici e a li boni e virtuosi è debita, tu vogli a li omini ignoranti, viziosi, maligni, inutili, avari, ambiziosi e d’ogni infamia maculati transferirla, non se li convenendo, anzi degni essendo de l’opposito, cioè d’ogni vituperio e disonore? Sapendo che misero e periculoso loco sia quello ove il vizio senza rispetto è onorato, come credi tu ch’io sia contenta, vedendo che tanti strazi fai di me, che ’l pare che ad altro uso né ad altro effetto io sia fatta che per mostrare la leggerezza, la vanitá, la inconstanza, la inscizia, la pusillanimitá, in si varie figure mutandomi, tagliandomi, frappandomi, foderandomi, roversandomi, ficcandomi penne, strin ghe, galle, viole e mille argumenti di levitá? e, quello che molto piú estimo, cavandomi senza elezione e iudicio alcuno ad omini indignissimi di vita, nonché di onore? E però portami a casa, ch’io te ne prego, e inanzi attaccami ad un cavicchio ch’io mi copra di polvere, o se pure a qualche uso operare mi vuoi, mettimi sopra la testa di un Priapo ne l’orto, ché almeno stando ferma impaurirò li uccelli. E sopra questo tuo capo non piú me, ma un pennello da camino vi metti, che ad ogni vento girando sfumerai, e cosí ad ogni omo, a tuo modo onorando, satisferai.
Testa. Ben mi pare che le tue ragioni sian vere, ma sono purtroppo contra la commune opinione; ond’io dubito che tu non sii tenuta bizzarra, o che vogli saper troppo, sempre a la piú parte contradicendo. Onde a me par meglio che andiamo con la piena.
Berretta. Non t’ho io detto che la veritá non abita col vulgo né con la moltitudine, anzi è da quello sempre conculcata? Come vòi tu ch’io sequiti le false opinioni? Non sai tu che li amici e ogni omo in certo modo onorare si debbeno, ma che la veritá sopra tutto nonché reverita ma adorata dev’essere? Andiamo pure a casa, e col vulgo non volere ch’io tenga commercio, se la mia salute tu ami.
Testa. Andiamo! Finalmente altro remedio non vedo che andare sempre al sole e al vento col capo scoperto. Ma ecco l’augusta presenza di Ercule che ne viene. Di’ mo’ che a costui io non debba cavarti!
Berretta. Costui non solamente col cavarmi onorare si deve, ma col ginocchio in terra reverirlo conviene; perché a costui meritamente la definizione de l’onorare è adatta, che è, come ti diceva, una esibizione di reverenza in testimonio di eccellente virtú. E quale piú eccellente virtú di quella di Ercule sia, non lo so per ancora vedere.
Testa. Ma tu mi riprendevi ancora perché in tante fogge io ti portava. Adunque riprendere si deve ancor lui, il qual vedi in capo si strana cosa portare: e tu nondimeno lo iudichi dignissimo di onore.
Berretta. Tu hai pur per certo non solo de l’ignorante, ma anco de lo smemorato. Non t’ho io detto che non si disdice, anzi si comanda il portare in capo una foggia, la quale sia indizio de la virtú de l’omo, e piuttosto spoglia che coperta si chiama, cosa al mondo ornatissima? Se Ercule adunque porta quella testa di leone che tu vedi, non è da maravigliare, anzi per questo è di venerazione molto piú degno, perché quella è la testa del leone nemeo, la quale esso, con vera virtú combattendo, vittoriosamente acquistò, onde or la pelle, per memoria e per insegna di quella vittoria, cosí porta.
Testa. Tu l’acconci sempre a tuo modo questa tua cosa, né so allegarti tante cose, che tu piú uncini non trovi da attaccarmi.
Berretta. Non sono uncini questi, anzi sono veritá provate. Sai tu quali sono, non uncini, ma mascare da vulgo? quando tu vedi un asino portare in dosso la pelle del leone o la cornacchia le penne del pavone, e voler usurpare quell’onore che non se li conviene. Ma che uno virtuoso porti la memoria e l’insegna de la virtú sua, e quella s’ingegni con modestia far nota, questa gloria si chiama.
Testa. Volemo noi in questo Ercule tutta la nostra differenza rimettere?
Berretta. Niuno iudice migliore di lui trovar si potria. Ma lo voglio interrogare io.
Testa. Anzi io, che ho voglia di piú cose a ciò pertinenti chiarirmi. — Noi ti adoriamo, o Ercule: sapemo che in te è sapienza e veritade, però sopra una nostra controversia, la quale brevemente ti narraremo, il tuo iudicio ricerchiamo.
Ercule. Altra narrazione non bisogna. Il mio nume a tutta la vostra disputazione è stato presente, e dove piú necessario sia, mia definizione vi prometto.
Testa. Per la prima adunque, ti preghiamo che dichiarare ti piaccia che cosa è onore, la qual cosa (si come tra tutti li omini onoratissimo) meglio de li altri sapere devi.
Ercule. Si come tra li beni del corpo la sanitade è il primo e tra quelli de l’animo la virtú, cosí tra li beni esterni chiamati di fortuna, l’onore il primo e summo loco tiene; non le ricchezze, come li irrazionali e vulgari omini estimano. Et è quello che li omini eleganti e che a le azioni famose e celebri son atti, sopra ogni altra cosa desiderano; ma li in- fimi e plebei, e quelli che nel fango hanno li loro pensieri demersi, poco lo curano. E in questo modo descriver si può: Onore è ogni segno, ogni detto e ogni fatto, che per reverenza e testificazione si fa di una eccellente virtú, che ne la persona de l’onorato esser si vede.
Testa. Il trarre de la berretta, corn’ io diceva, è pure adunque segno di onore ?
Ercule. Tu dici il vero che seria segno, quando il fon- damento di tal segno ci fusse, cioè la eccellenza de la virtú; e benché il fumo sia segno di foco acceso, nondimeno, se senza foco qualche fumositá si vede, quella non fumo che nasca da foco, ma esalazione o vapore o altra densa eleva- zione di qualche sordida materia chiamare si deve.
Testa. Dove è nato adunque questo cavar di berretta per onore?
Ercule. Il scoprire del capo in segno di venerazione voglio che sappiate che solo a li principi de le cittá et a li magistrati che ’l governo hanno di quelle, fu antiquamente in- stituito. E benché alcuni tra’ dotti dicessino che per conserva- zione de la sanitá del capo introdotto fusse; acciò che col coprirlo e discoprirlo a tali persone, la testa, assuefatta al freddo e al caldo, piú ferma e piú valida diventasse; nondi- meno non questa, ma piú vera ragione ne fu causa. Però che, essendo il capo la piú nobil parte de l’orno, è quella che summamente da esso ne li pericoli è guardata e difesa; come ne l’armeggiare e ne li insulti e ne le battaglie vedemo che quelli che per forza erano superati ne le guerre, quando a la dedizione veniano, in segno di vera sommissione e di vera potestá, che davano de la vita e de la morte al vincitore, l’elmetto, ovvero celata, di capo si traevano e quello inclinato e nudo al capitano de lo esercito offerivano, dimostrando che la piú nobile e vital parte di loro disarmata in tutto nel suo arbitrio ponevano: onde la prudentissima vetustá de’ romani, per denotare la vera obedienza, quale a magistrati e principi de la republica e a li re portar si deve, quella militare usanza a le civili conversazioni transferire volle, che al conspetto di simili persone ciascuno, col nudarsi la testa, la nobiltá de la sua obedienza mostrasse. Quelli adunque che senza elezione alcuna ad ogni omo per ogni vii causa il capo scopreno, di ignorante e servile animo fan segno e una nobile instituzione adulterano; e quelli che tal segno in sé cercano e usurpano, se di quelle persone non sono a chi il publico governo sia commesso, Fi lo ti mi e ambiziosi si chiamano. Ma quando, pur privati essendo, di eccellente virtú dotati fussino, congrua- mente, come utili membri de la republica, per la loro virtú debbeno, a similitudine de li pubblici magistrati, essere ono- rati, non come in magistrato constituiti, ma come di magistrato summamente dignissimi; però che (come Aristotele dice) un omo di eccellente virtú un dio tra li omini deve essere repu- tato. Onde in questa etade ancora vediamo in quelle cittá che di aristocritá o di republica hanno qualche forma, tale usanza del nudare la testa, se non al conspetto de le publiche per- sone, non essere.
Testa. Quanto ho cara questa controversia per aver inteso quello di che piú volte ho dubitato! Ma di una cosa rimango alquanto ambigua, ne la quale mi pare che questa ragione cessi. Per quale cagione, o Ercule, quando per mangiare li principi e signori le mani si lavano, tutti li circunstanti il capo si scoprono ? Qui non accade segno alcuno di obedienza dimostrare.
Ercule. Anzi, da la medesima ragione ancor questo pro- cede. Perché, si come il capo ne le intelligenze mistiche e sacre la cognizione e vita significa, e li piedi li effetti de l’animo, cosí le mani le operazioni umane significano; e per questo antiquamente si usava che chi volea innocenza in qual- che particolare atto per sua purgazione dimostrare, le mani in conspetto pubblico si lavava, quasi se tutte le operazioni sue fussino in quel tal atto monde e innocenti: onde ancora in proverbio si dice, quando alcuno di qualche cosa illecita con- sapevole esser non vòle: — Io me ne lavo le mani. — Quando il principe adunque si lava le mani, li sudditi che tal atto ve- deno, a dui effetti lo capo discoprono: lo fanno prima a rin- graziarlo de l’innocenza, la quale in lui essere, per il lavarsi, estimano, poi per dargli segno de la vera loro obedienza e arbitrio che gli danno per merito di essa innocenza, la quale di tutte le cose umane la massima e la summa è reputata. E sebbene il principe non a quell’effetto in quel tempo, ma per mundizia le mani si lava, nondimeno perché non cosí facilmente in altri tempi lavare lo vedeno, quella dimostrazione fanno quando tempo hanno di vederlo: che una tacita moni- zione è ancora al principe, che l’innocenza sua (come virtú) conservare sempre debia. Vero è eh’ io mi ricordo da un sacerdote di Egitto avere audito, che essendo usanza de li re nel cominciar del loro cibo invocar la divinitade e cosí nel fine ringraziarla, tutti per supplicare li dei il capo scoprivano; onde essendo il lavare de le mani principio e fine de la mensa, nel qual tempo la invocazione si faceva, sebbene li dei non s’invochino, l’usanza del scoprirsi ancora dura, come se in- vocar si do vessino.
Testa. Oh come mi piace udirti, Erculei Io ne ringrazio questa mia Berretta per certo, che con l’essere turbata con me, cagione è stata di farmi intendere quello di che molte volte ho veduto altri, senza alcuna soluzione, dubitare. Anzi alcuni parassiti udii giá dire, che usanza era de li principi, nel lavar le mani, invitare seco a mangiare quelli che presenti erano, ma la moltitudine, ricusando per modestia l’invito, la berretta di capo per ringraziar si traeva, onde tal consuetudine ancora, come se invitati fussino, persevera. — Ma se ’l non ti aggrava, un altro scrupolo prego che da la mente mi levi. Io ho veduto che quando il principe stranuta, li circunstanti tutti (appresso la salute che con parole gli pregano) il capo ancora scoprono; e in questo non vedo che tal ragione abbia loco.
Ercule. Tutto da una fonte deriva. Veramente beata chia- mare quella cittá, quella provincia e quella nazione si deve, che di bon principe è dotata; e non immeritamente il bon principe dono di Dio è chiamato, perché non è dubbio (se- condo la sentenza de’ savi) che quando Dio vòle bene ad una patria, non d’altro la provvede che di un bono e inno- cente signore, del quale il populo, quetamente posando, può dire: — Io dormo e il mio core, cioè il mio principe, il mio signore, per me veglia. — Scrivevano li antichi savi che di tutti li segni, li quali atti sono a portendere e significare cosa alcuna nel corpo umano, il stranutamento solo è segno au- guriale santo e sacro, come quello che da parte divina (ciò è il cerebro) procede e da veementissima cagione; perché è un impeto et eruzione di tutto il spirito che a la salute del corpo bono effetto produce. Quando il principe adunque stra- nuta, li circunstanti il capo scoprono a supplicare li dei che tal stranuto di segno et effetto salutare al principe diventi: la vita e incolumitá del quale, si come a la universa repu- blica è salute, cosí universalmente da tutti con reverenza da li dei implorare si deve.
Testa. Tu m’hai pur per certo satisfatto, o Ercule. Ma perché non cosí, quando altri stranutano, la berretta cavano?
Ercule. Perché non di tanta importanza è la salvezza e la vita di un privato, quanto è quella del principe. Non sai tu che li populi sono li membri, le leggi son li nervi e il principe è il capo di questo corpo publico e civile? ond’è conveniente che ogni cosa si adopri per la salute del capo, come quello che a tutti li membri è causa di salute.
Berretta. Io ho detto molte volte, o Ercule, a questa Testa, che d’ogni altra mercanzia potria esser capace, ma di prudenza e scienza non mai. Et è cosa mirabile che, sebbene niuna cosa piú efficace a persuadere esser dovesse che la ra- gione, nondimeno, se la tua autoritá non era, a pena cosa al- cuna sanamente credere potesse. Onde ti prego che li dichiari quali siano li veri onori, acciò che intendendo quelli, attenda a farsene degna e lasciando in posa me, cosí curiosa per l’av- venire non sia o di cavarmi ad altri o di stare in continuo pensiero e voto che a lei da altri cavata li sia.
Ercule. Li veri onori son quelli che a temporale o per- petua significazione si faccino di coloro che qualche notabil grado hanno di virtude: come sono triunfi, archi triunfali, co- lonne, inscrizioni, statue e ogni altro simile monumento. Vero onore fu quello di Temistocle, che entrando ne lo spettacolo publico di tutta la Grecia, tutti li omini in un tratto verso lui li occhi voltorno a mirarlo; e ’l simile a Virgilio, man- tuano poeta, nel teatro romano. Tal fu quello del magno Pompeo, che (ancor che giovenetto fusse) Lucio Siila dittatore, vedendolo a lui venire, in piedi si levò per accettarlo; non dissimile a questo quello di Azzio, vetustissimo poeta pesarese, a la venuta del quale in un consesso di grandi omini, Iulio Cesare sommo dittatore in piedi si levò per onorarlo. Perché quelli sono veri onori, che da li omini onorati e di gran iudicio si fanno. Vero onore è ancora quando uno per pro- pria virtú, senza alcun suo ambizioso e sordido ministerio, è chiamato ad una publica amministrazione o magistrato. Vero onore fu quello di Ottaviano Augusto, quando il senato e po- pulo romano ad un consenso, per vero suo merito, padre de la patria lo chiamorono. Veri onori son le corone, le lauree e li panni e li doni militari che a la fortezza e virtú di valorosi cavalieri si davano; il simile sono le insegne che ad omini di dottrina famosi debitamente si donavano, e li preziosi doni e le onorate accoglienze che li principi gravi e virtuosi fanno a li omini dotti e studiosi di lettere. Sono ancora grandissima testificazione di virtú quelli onori che da cose riservate in memoria pervengono, o che a le occasioni in un sol omo si mostrano. Né volendo io di antiquissimi esempli (che molti si hanno) faticarvi, in questa etá qual séte ad un principe mi volterò, il quale tenendo il mio nome in terra, ancor piú grato a memoria mi fia. Vero onore adunque è che in Partenope, famosa cittá di Campania, l’asta di un Ercule, dappo’ tanti anni, per miracolo si mostra; né alcuno per ancora si trovi che simile asta, di gravitá e di grandezza si robusta, possa pari- mente ne l’arme operare, come lui ne la sua verde etá sotto il iudicio di un summo re piú volte operar fu veduto. Verissimo P. Collenuccio, Opere - n. 6 onore è che ’l medesimo in tanto numero di omini solo a questa etá di religione, di constanza, di prudenza e di fede vero esemplare,sia tenuto, in tanto che solo depositario, tra sumrai principi e re, di un validissimo castello sia fatto, dal quale la pace e la guerra de la italica provincia pende; però che de la incontaminata sua fede e iustizia hanno certissimi concetti. Singulare e summa testificazione di onore e gloria sono le case, li palazzi, le mura, le torri, li templi e la ma- gnificenza de li altri edifici de la nova cittá dal medesimo Ercule da’ fondamenti edificata: cosa tanto piú degna di am- mirazione e di laude, quanto al mondo in questi tempi piú rara e piú nova, e opera tanto piú degna, quanto per l’uni- versale beneficio de la sua republica si diffonde.
Berretta. Questi son veri e indubitati onori (ancor che mai niuno la berretta si movesse) da esser venerati e in eterna memoria da la posteritá tenuti !
Ercule. Onori sono appresso quelle testificazioni che li gravi e prudenti scrittori, ne li lor libri, de le virtudi di alcuno fanno, perché quelli poca forza ha la vetustá di estinguerli; onde precipua e special cura di magnanimi principi fu sempre nutrire e onorare li dotti scrittori de la loro laude. Per la qual cosa memorabile fia sempre quel generoso sospiro del magnanimo Alessandro, che la sepoltura di Achille vedendo: — O fortunato giovene — disse — che Omero avesti, che le tue laudi ne li suoi libri descrisse ! —
Testa. Io ti confesso, o Ercule, che tutto è vero quello che tu dici, e or mi pare essere un’altra, poiché alquanto di lume mi hai posto nel cervello. Ma rimango ancora dubiosa che tu dici che Onore è testificazione di eccellente virtú: e io ho pur veduto e audito che molti principi de’ nostri tempi e de li antiqui hanno alcuni artefici onorato, come Alessandro magno Dinocrate architetto e Apelle pittore e Lisippo statuario, e cosí molti altri che longo a ricordare seria, i quali non di virtú, ma di arte hanno qualche preminenza avuto.
Ercule. Guarda di non dire mai piú che l’arte non sia virtude! E sebbene tra le virtú sian gradi di piú o meno eccel lenza, nondimeno onorare ciascuna nel suo grado si deve, chi vuole di propria umanitá e di vera iustizia aver titulo.
Testa. Io non credeva che fusse virtú degna d’onore, se non quella de le armi e de le lettere.
Berretta. Io te l’ho detto, Ercule: a costei pare, perché è fortunata di robba, aver molto senno. Ma tu vedi come la n’è fornita!
Ercule. Rara cosa è che insieme la virtú con la pecunia in un subietto stiano; anzi si male insieme si accordano, che dove una cresce, l’altra minuisce. Pure devi sapere che sono di due specie e due maniere di virtú. Alcune sono chiamate intellettive, come arte, scienza, prudenza, intelletto e sapienza: e qualunque omo che alcuna di queste eccellentemente pos- siede, d’ogni onore veramente degno chiamare si può; per queste li sublimi artefici, li studiosi filosofi, li prudenti gover- natori de le cittá, li dotti omini savi e contemplativi sempre onorati sono stati. Un’altra specie di virtú son nominate mo- rali, e queste, ove notabilmente sian poste, meritamente li soi possessori fan degni di onore; per queste li omini forti, li mansueti, li temperati, li iusti, li veridici, li magnifici e si- mili, e sopra tutto li magnanimi e liberali, sono onorati. E se li dotati di tali virtú, ciascuna da per sé, reverenza e laude meritano, quanta credi tu che ne aspettino coloro che di tutte insieme un sacro circulo han fatto, e le intellettive e morali virtú hanno parimente ne li loro porti congiunte, come ha quel Principe che ’l mio nome porta, di chi inanzi parlava? Questi non di umani, ma di divini onori, di sacro culto e di eterna vera venerazione dignissimi son iudicati: li altri che a la vanitá e leggerezza de le berrette attendono, senza farsi alcun peculio di queste virtú che ricordato avemo, di quel pericoloso vizio nudare si debbeno; che Filotimi da’savi son chia- mati, e però come Fi lo ti mi dal consorzio de le publiche azioni, quanto piú si può, rimovere si debbeno. Perché niuna piú indigna o iniqua cosa si trova di uno che voglia a nozze, ad esequie, a sacrifici essere a li altri preferito, ma a la defen- sione de la patria, a le battaglie, a le dispute, a li iudici, a le eternitá de le opere e in summa a le virili azioni, non solo postremo sia, ma, perversamente opinando, gran saga- citade e parte di nobilitade estimi le scienze e le bone arti sprezzare, et a l’accumular robba, non come civile patrizio, ma come villico quasi e castaido, ogni suo studio e industria sor- didamente converta. Per significare questo la sapientissima ro- mana republica, li templi edificando de l’Onore e de la Virtú, lor sacri dei, in tal modo insieme li congiunse, che nel tempio de l’Onore entrare non si poteva, se pel tempio de la Virtú non si passava; sopra la porta del quale queste parole di grandi e visibili lettere d’oro scolpite erano in versi: EPIGRAMMA Entrare alcun non può d’Onore al tempio, se per il mio non passa e fa dimora: ciascun sua vita adatti a questo esemplo. Questo a la vostra controversia per ora bastare vi deve et io a le mie sedie ritornarò.
Berretta. Hai tu mo’ inteso, zucca mia salata? Or por- tami a casa, e nel mio loco lassami eh’ io posi piú che nel passato fatto non hai; laudando e ringraziando il divino Ercule, la cui onorata virtú che cosa il vero onore sia ti ha fatto intendere. E tu per male avere non vogli, se da qui inanti ti chiamo Filotimo.