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70 apologo


Berretta. Tu hai piú duro il cervello del calamaro! Ti dico che colui che esalta e predica le virtú de’ soi maggiori, non lauda sé e la propria sua condizione, ma lauda la virtú altrui; e la virtú altrui come è possibile che faccia nobile colui che quella virtú non ha?

Testa. Io vedo pur costoro che contendono di nobilita insieme, allegar sempre li soi antiqui che ebbeno grandi offici, che furono amati da li principi de le cittá e che ebbeno giá de le castelle e simil cose; e li soi vicini e famigli dicono che l’è il vero.

Berretta. Grande iniquitá commette per certo colui, anzi in gran miseria si trova, che non avendo lui di lettere o di armi, né d’altra virtú intellettiva e morale ornamento alcuno, per questo solo che li soi antiqui o fortunati o virtuosi siano stati, importunamente ricorra d’esser tenuto nobile; e lui inerte e imperito, o a qualche sordido guadagno sempre intento, vòle de la fama altrui, forse con molto sudore acquistata, valersi.

Testa. Tu mi fai travedere con certe tue ragioni. Ma fa ch’io intenda un poco, e dillo tu che cosa è nobilitá.

Berretta. Tanto è dirlo a te quanto a un cavallo, perché non piglierai quello che dirò, essendo abituata ne le false opinioni; pure ti dirò quello in che li sapienti omini d’ogni nazione e setta concordano. La nobilitá non è altro che un splendore che da la propria virtú nasce; e però chi non ha virtú, tal splendore di nobilitá non può rendere: onde il virtuoso meritamente nobile deve essere chiamato, e ancor che obscurissima la sua nazion fusse, a lui basta poter dire (come Claudio imperatore di un virtuoso disse) che di se medesimo el’ sia nato. Ben ti confesso, che si come nobilissimo si deve chiamare veramente colui che la virtuosa successione de li soi con la propria virtude continua, cosí ignominiosissimo deve essere estimato quello che la fama ereditaria de li soi lassiando, da la loro virtude e probitá degenera.

Testa. Tu m’inviluppi il cervello di parole. Io non intendo questo splendor che tu dici. Io vedo pure che dove va