Della moneta (1788)/APPENDICE
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APPENDICE.
È notissimo l’Editto del Re di Francia in data delli 30 ottobre 1785, per cui ha rinnovato la moneta d’oro. Il Controllore generale Calonne, pel cui suggerimento si è fatta questa nuova monetazione, è stato anche per tal cagione gravemente accusato dopo il suo esilio e la sua fuga, in molti scritti, e perfino nelle instanze dei Parlamenti. Ha intrapreso egli la giustificazione d’ogni sua condotta ministeriale nel libro intitolato Supplica al Re diretta a S. M. dal sig. di Calonne Ministro di Stato. Questo libro è stampato non si sa dove nell’anno 1787, e contiene pag. 138 di testo, ed altre 88 di documenti. Fra questi alla pag. 3 trovasi una dissertazione di lui intitolata Sviluppamento intorno all’operazione della rifusione delle monete d’oro. Intraprende in essa il sig. di Calonne a provare che la rifusione da lui consigliata ed eseguita per ordine Regio nel 1785, era necessaria, e che fu eseguita nella miglior maniera possibile. Le osservazioni quì annunziate del sig. D. P. tendono a confutare la dissertazione predetta. Il sig. Necker nella celebre opera sua intitolata Dell’amministrazione delle Finanze di Francia tratta nei primi capi del tomo terzo della monetazione, e termina il capo quinto con questa sentenza. Sonovi tante affinità (se così è lecito esprimersi) nella maggior parte delle questioni di economía politica, che l’amministrazione di Parigi o di Versailles non è comunemente nè assai fornita di lumi in questo genere, nè assai secondata dai lumi generali per difendersi dai sofismi, che l’interesse particolare non cessa mai di impiegare. Utilissima cosa sarebbe il riconoscere se le operazioni di Calonne abbiano giustificato quest’asserzione di Necker; ma più utile ancora l’accrescere in materia di monetazione i lumi generali tanto utili, e, il dirò pur francamente con Necker, assolutamente necessarj per diriggere e secondare il Governo qualunque volta si trova in necessità di dare qualche provvidenza in materia di monete. Questa materia, benchè di sua natura a primo aspetto semplicissima, è stata dalle opinioni di molti Scrittori, dalle misteriose pratiche delle zecche, dalle astuzie di molti Finanzieri, imbrogliata a tal segno, che chi giunge al ministero senza averla studiata prima, senza averne idee ben chiare, riescirà difficilmente ad impararla allora, ed a suggerire nelle opportunità i migliori provvedimenti. Non v’ha forse Nazione più instrutta dell’Italia in materia di monetazione. Ne fanno fede gli eccellenti trattati che si trovano nella raccolta dell’Argellati e il libro di Pompeo Neri intitolato Osservazioni sopra il prezzo legale delle monete1, libro prezioso, il più dotto, il più chiaro che siasi scritto mai in questa materia: nè fa fede la durevole prosperità delle zecche di Firenze e di Venezia da tempo antichissimo non mai interrotta: ne fa fede finalmente la diligenza somma con cui per lo spazio di quattro anni si sono preparate le basi della nuova monetazione fattasi in Torino l’anno 17552. Io ho meditato assai intorno alle monete, ed ho pubblicato le mie riflessioni in un libro stampato in Milano l’anno 1772 col titolo Della moneta Saggio politico. Credo di avere scritto in quel libro poco o forse nulla di nuovo: mi compiaccio assai ciò non ostante che il risultato delle mie meditazioni sia stato per lo più simile a quello delle riflessioni di Lock, e di Neri, perchè coloro che cercano spassionatamente la verità, facilmente s’incontrano. Non è quì mio intendimento di dare un trattato novello sulla moneta, ma di cogliere opportuna occasione dall’esame dei due libri di Calonne, e del suo avversario per cooperare allo spandimento dei lumi generali desiderato da Necker, e render più facile a chiunque l’intelligenza dei libri, e del linguaggio monetario.
La quistione importantissima che quì si tratta, si è principalmente se fosse necessaria la rifusione dei luigi nell’anno 1785. Urgentissimo motivo ne trae Calonne dalla mutata proporzione tra il valore dell’oro e quel dell’argento. Devesi adunque esaminare se siasi cambiato questo relativo valore, di quanto, e per qual cagione; poichè un’alterazione passaggera non sarebbe stata causa legittima di rifusione.
Due sono i valori dell’oro e dell’argento: uno è quello che viene a quei metalli o in pasta o in moneta assegnato nelle tariffe dei Principi, un altro è quello che viene a quei metalli assegnato dalla comune estimazione del commercio. Si è creduto una volta, e si è voluto far credere ai Principi, che fosse in loro arbitrio assegnare a quei metalli, almeno quando sono monetati, quel valore che più riputavano conveniente. Ma l’unanime consenso di tutti gli Scrittori avvalorato non tanto dalle leggi Romane citate da Pompeo Neri, ma più ancora da chiarissimi ragionamenti, ha svelto interamente questo fatalissimo pregiudizio. Non è questa, diss’io, una mancanza di diritto, ma una fisica limitazion di potenza, per cui non può il Principe mutare i necessarj rapporti delle cose, nè più fissare il valore della moneta, che la quantità di pioggia che deve ciascun anno innaffiare le sue campagne. Più argutamente il Neri disse non essere ciò in potere dell’autorità legislativa, quando non si voglia contare per una specie di potere quello che sempre ciascuno ha di fare un errore di calcolo. Lo stesso Calonne si fonda sul medesimo principio, allorchè attribuisce i disordini del suo tempo a che l’oro non era apprezzato nei luigi dal Principe quanto l’era in commercio; cosicchè ciascun luigi avea un valore intrinseco e metallico superiore al suo corso legale e convenzionale.
Sembra però che il prezzo legale dei metalli debba avere una grande influenza sull’estimazione loro in commercio. Chi impiega una considerabile quantità d’una materia nella sua fabbrica, la fa colle sue ricerche o co’ suoi rifiuti incarire di molto, o bassare di prezzo. Non v’ha fabbrica più cospicua di materiali d’oro, che le zecche. Dunque se queste ricusassero l’oro a un prezzo maggiore d’un certo prezzo determinato, qual sarebbe, per esempio, di 14 once d’argento per una d’oro, mancherebbe ai possessori dell’oro la concorrenza di moltissimi compratori, e sarebbero costretti ad accontentarsi del prezzo esibito dalle zecche. Ma un monopolio fra tutte le zecche è più chimerico che l’alleanza fra tutte le Nazioni, dell’Abbate di S. Pietro.
Ove una zecca sola, ancorchè cospicua, volesse per questo modo dar legge al prezzo dell’oro; se lo dasse più scarso del comune in commercio, non ne troverebbe pel suo bisogno, e crescerebbe il lavoro delle altre zecche in proporzione, cosicchè non mancherebbero compratori dell’oro; se lo esibisse maggiore, presto le mancherebbero i mezzi di sostenere una fabbrica così dispendiosa. Puossi adunque con tutta ragione conchiudere che i prezzi legali debbono corrispondere all’estimazione del commercio.
Non è scevra di grandi difficoltà la ricerca della proporzione vegliante in commercio tra il valore dell’oro, e quel dell’argento. Questa non può a meno d’essere varia in varj luoghi e in varj tempi. Poichè la rarità e il desiderio produce carezza, è assai naturale che nei paesi ove più abbonda l’oro, cambierassi con una quantità minore d’argento, che nei paesi ove abbonda l’argento. La maggiore o minore abbondanza, e la maggiore o minore ricerca può variare sensibilmente di tempo in tempo nei luoghi medesimi. Dunque la proporzione del commercio non può essere fissa e costante. Ma supponendo che i Governi ben informati dei prezzi popolari, abbiano scelto una proporzione media tra le estreme per assegnarla alle loro monete, nasce quindi una fiducia, per cui credesi comunemente non lontana di molto dal vero quella proporzione che raccogliesi dalle tariffe dei Principi. Son nati da ciò molti sbaglj, in cui facilmente cadono coloro che per questa via esplorano la proporzione dei due metalli. La cosa è di molta importanza, e vuol essere quì sviluppata colla maggiore chiarezza.
Quando si confronta il valore dell’oro con quel dell’argento, intendesi sempre di oro e di argento purissimo. Un pezzo d’oro pesante 24 denari, se contenga 22 d’oro fino, e 2 di rame, non si considera che per 22 denari, e così dell’argento. La finezza, ossia bontà dell’oro misto con lega si suole determinare con una misura ideale che si chiama caratto. Un pezzo d’oro di qualunque peso siasi, supponesi mentalmente diviso in 24 caratti, ciascun caratto si suppone diviso in 24 grani3. Quando vuolsi esplorare la finezza o bontà di un pezzo d’oro (il che chiamasi nel linguaggio dell’arte il suo titolo) si pesa quel pezzo esattamente, quindi coll’arte dei saggiatori si fa consumare o separare ogni altro metallo che siavi frammisto. Quel che avanza è l’oro puro. Il confronto di questo con quel che si è tolto determina il titolo. Così se si è tolto un ventiquattresimo del suo peso, dicesi quell’oro di 23 caratti, se ha perduto due ventiquattresimi ed un quarto d’altro ventiquattresimo, dicesi quell’oro di caratti 21, grani 18. La divisione ideale dell’argento per esplorarne il titolo si fa in denari 12, e ciascun denaro in grani 24, e si procede per esaminarlo nella stessa maniera.
Ove adunque alcun voglia indagare la proporzione che passa in Francia tra l’oro e l’argento, e la voglia ricavare dalla estimazione legale delle monete, comincia a calcolare a qual titolo sia il luigi, e lo trova, per esempio, a 21. , quindi con una regola di proporzione dal prezzo di lire 24 assegnato all’oro di caratti 21. ricava il prezzo che corrisponderebbe all’oro di 24 caratti. Facendo la stessa operazione sulla moneta d’argento, e trovato il prezzo dell’argento fino, dal confronto di questi due prezzi deduce la proporzione, per esempio, di uno a quindici. Resta ancora più spedita l’operazione paragonando i valori d’un marco d’oro, e d’un marco d’argento. Un marco è composto di otto oncie, ed è invalso in tutte quasi le zecche di usare questa misura per determinare sia il peso di ciascuna moneta, sia il valore dei metalli. Così quando si è ordinato in Francia la fabbricazione dei luigi nel 1726, si è prescritto che ne fosse il titolo di 22 caratti, e il numero (che nel linguaggio dell’arte dicesi il taglio) di 30 per marco, con che restava determinato il peso di ciascuno. Gli esecutori di questa fabbricazione o fossero impresarj, o fossero stipendiati dal Principe, erano obbligati da tempo antico a dar le monete al titolo e peso prescritto dalla legge. Ma la difficoltà somma d’indovinare a tanta precisione il titolo dell’oro nel preparare la pasta pelle monete, e la difficoltà parimenti di non commettere un minimo errore nel peso di ciascuna moneta ha suggerito il mezzo termine di accordare ai fabbricatori alcuni limiti sia pel titolo, sia pel peso, entro cui essi tenendosi, si accettassero per buone le loro monete. Questi limiti si chiamarono rimedj; quello del titolo si è chiamato rimedio di lega, ed ora lo chiamano i Franzesi rimedio di legge, l’altro chiamasi rimedio di peso. Così per legge del 1726 si è ordinato il conio dei luigi nuovi al titolo di 22 caratti col rimedio di , e al taglio di 30 per marco col rimedio di 15 grani per marco. Ciò vuol dire che trovandosi i luigi al titolo non di 22 caratti, ma di 21. , e mancando di peso nulla più di mezzo grano ciascuno, si dovessero avere per buoni.
Il timore dei zecchieri di vedersi rifiutati una quantità di luigi, perchè mancanti oltre ai limiti concessi (il che si chiama nel linguaggio dell’arte fuori dei rimedj), e così di perdere tutte le spese fatte per coniarli, dovea naturalmente trattenerli in un uso assai moderato di questi rimedj; cosicchè si presume da molti che si possano estimare impiegati i rimedj solo per metà. In questa maniera si dovrebbero giudicare quei luigi al titolo di 21 , e mancanti un sull’altro d’un quarto di grano ciascuno. Ma a misura che crebbe la perizia negli assaggj, la perfezione delle bilancie, e la diligenza dei pesatori, l’interesse degli zecchieri gli ha messi in istato di gioire interamente dei rimedj concessi. Avvenne quindi ch’ebbero il medesimo prezzo legale i luigi di giusto peso, ed i leggermente calanti, quelli ch’erano al titolo di 22 caratti, e quelli di 21. . Nasce quindi una difficoltà grandissima a fissare la proporzione legale dei due metalli nobili dal valore assegnato nelle tariffe.
Questi rimedj hanno alcuna volta somministrato una lusinga alle Finanze di procacciarsi un lucro sulle monete nelle momentanee urgenze; si è dato ordine di tollerare in pro de’ zecchieri un rimedio maggiore, e si sono fabbricate monete di titolo e peso inferiore senza cambiare la determinazione del prezzo.
Oltre ciò hanno determinato i Principi il prezzo, a cui esibivano di comprare le paste d’oro e d’argento, ma questo non corrispondeva a quello, a cui spendevano l’oro e l’argento monetato. Sembrava assai giusto di farsi pagare le spese di fabbricazione (il che vien compreso sotto nome del diritto di brassaggio), ed il vantaggio che acquistavano i metalli monetati dal pubblico impronto destinato ad assicurarne il peso ed il titolo. (Questo chiamasi diritto di signoraggio). Ma anche in queste determinazioni sonosi fatte molte varietà. Sonosi estimati questi diritti talora più, talora meno, e mancando materiali alla zecca, si è esibito o con pubblico invito, o ad alcuni banchieri particolari un aggio oltre il prezzo fissato.
Finalmente a dispetto delle leggi e della vigilanza dei Magistrati, sonosi messi in corso dalle zecche medesime molti luigi mancanti del giusto titolo, e fuori dei rimedj, ed alcune fabbricazioni clandestine dei monetarj falsi hanno accresciuto il numero di queste monete peggiorate. Assicura Calonne che da’ replicati saggi fatti nel 1785 colla maggiore diligenza è risultato il titolo dei luigi in massa a caratti 21. scarsi, il che ridotto alla misura nostra che divide il caratto in 24 grani, equivale a caratti 21, grani 13. . I saggi fatti nel 1749 in Milano lo danno a 21. 19. , in Firenze 21. 18, in Genova 21. 22, in Venezia 21. 16, in Torino nel 1750, 21. 16, in Torino nel 1751 (saggio riputato da Pompeo Neri il più diligente di tutti) in dettaglio 21. 17, in massa 21. 13.4
Per tutte queste cagioni riesce difficilissimo il determinare qual sia la proporzione legale dell’oro fino all’argento fino considerato sia nei luigi e negli scudi di Francia, sia nelle paste stesse metalliche. Che se tanta difficoltà incontrasi in Francia, ove non ha corso alcuna moneta straniera, ¿quanto non sarà maggiore la difficoltà negli altri paesi, ove tante diverse specie di monete d’oro e d’argento hanno un corso legale e un prezzo determinato dalla tariffa? Pompeo Neri nella tavola XI della citata sua opera ha raccolto per mezzo di un diligente calcolo, e posto sott’occhio come in un quadro le varie proporzioni veglianti nelle varie Città d’Italia nell’anno 1751, dedotte dal confronto di ciascuna delle più correnti monete d’oro con ciascuna delle più correnti monete d’argento. Vedrassi ivi che secondo la diversità delle monete poste in confronto varia la proporzione come segue. In Venezia da 14. , a 15. contro uno. In Bologna da 14. a 16. . In Roma da 14. a 17. . In Torino da 14. , a 15. 5. In Milano da 14. a 14. . (Queste sono fra tutte le proporzioni meno discoste). In Firenze da 14. a 17. In Modena da 14. a 15. . In Genova da 14. a 16. . In Napoli da 15. a 16. . In Lucca da 14. a 16. .
Recherà grande stupore l’osservare proporzioni così lontane fra loro nello stesso paese, e nel confronto ancora dei paesi vicini, con cui si suole avere molto ed immediato commercio. La comune proporzione di Torino era di 1 a 15. circa, mentre la comune di Milano era circa di 1 a 14. . Pare che tutto l’oro dovesse passare da Milano a Torino, e quindi andare a Milano tutto l’argento. Ma il corso abusivo delle monete poneva rimedio a questo inconveniente. Da ciò si potrebbe conchiudere che molto meglio si conosceranno le vere proporzioni veglianti in un paese dal corso abusivo delle monete, che dal corso legale. Ma gli inutili tentativi fattisi in ogni paese per impedire il corso abusivo, le leggi che vietano l’estrazione delle monete, la loro fusione, gli affinamenti, gli assaggi, la separazione dei metalli fuori delle zecche: tutte queste leggi, benchè riconosciute dai Principi stessi inefficaci negli Editti stessi, in cui si rinnovano, operano però sempre un qualche effetto, per cui la proporzione fra i due metalli non si può mettere dal commercio a quel giusto livello, a cui perverrebbe naturalmente, e senza vincoli.
Il timore d’intorbidare un esteso e vivace commercio ha persuaso alcuni Governi, se non a permettere espressamente, almeno a tollerare con piena acquiescenza tutto ciò che altrove in questa materia chiamasi abuso. Sono in Genova molte botteghe di cambiavalute, ove continuamente si patteggia il prezzo d’ogni sorta di monete. Questi negozianti cavano il loro profitto dal comprare le monete a meno del corrente loro valore, e dal venderle a più. Presa dunque una media proporzionale aritmetica tra il prezzo, a cui essi comprano e vendono una determinata moneta, si potrà con fondamento estimare il vero suo valore in commercio. Fatto questo sperimento su varie monete d’oro, se ne troveranno di tempo in tempo alcune che avranno un prezzo molto sproporzionato a quello delle altre. Ciò avviene da qualche particolare ricerca che si fa in alcune circostanze di una determinata specie di moneta per particolari motivi. Allora conviene prescindere dall’estimazione di quella moneta6. Dal confronto delle altre che non hanno fra loro in ragione dell’oro fino, che contengono grande sbilancio, si potrà riconoscere il medio prezzo comune dell’oro su quella Piazza. Fatta la stessa operazione sulle monete d’argento, si riconoscerà la proporzione vegliante la più prossima alla vera che sia possibile. Trovasi in alcune Piazze abbondanza d’oro e d’argento in barra posto in commercio. Quivi è ancora più spedito il calcolo della vegliante proporzione.
Chi non ha fatto queste avvertenze ha facilmente sbagliato nel calcolare le proporzioni cercate per difetto di giuste basi. Il sig. di Calonne asserisce che la proporzione era prima dell’anno 1779 contro un marco d’oro
d’argento | in Ispagna | marchi | 14 | oncie | 7 |
in Portogallo | 15 | 6 | |||
in Inghilterra | 15 | 2 | |||
In Francia | 14 | 5 |
e che dopo l’anno 1779 si è portata quella di Spagna a 15 marchi e sett’oncie, restando le altre come erano. Se la cosa fosse così, tanto basterebbe per accertarsi che non v’era alcuna necessità nel 1785 di rifonder la moneta, ed accrescere il valore dell’oro. Il cambiamento che si pretende operato dalla sola Spagna nel 1779, se non ha influito per alcun modo a variare le proporzioni d’Inghilterra, del Portogallo e della Francia7, non v’era luogo a temere sconcerto alcuno, lasciando le monete come erano. Anzi la costanza delle proporzioni delle altre Piazze, malgrado le novità della Spagna, rende assai credibile ciò che afferma il sig. D. P., che la legge Spagnuola del 1779 non è stata un’innovazione, ma ha richiamato all’osservanza una legge del 1737, per cui la proporzione era fissata di 1 a 16, come pure la legge del 1786 richiama all’osservanza un’altra del 1750, in cui era parimenti stabilita la medesima proporzione di 1 a 16.
Sarebbe altronde cosa assai difficile che le proporzioni di quelle quattro Piazze, come sono riferite da Calonne, siano esatte. Sembra incredibile che quella d’Inghilterra (forse la sola che per la libertà del commercio si potesse meglio verificare) fosse allora di 15. , mentre ancora presentemente malgrado le novità della Francia, e le pretese novità della Spagna, non è più che di 1 a 14. 8. Quella di Spagna, secondo gli Editti citati dal sig. D. P. sarebbe di 1 a 16, e non 15. , come la dice Calonne. Ho alle mani la nuova tariffa di Portogallo, la quale, a quanto mi viene assicurato, non ha cambiato le proporzioni, e vi risultano di 1 a 16, non di 1 a 15. , come pretende Calonne.
Ma in questo proposito le leggi particolari della Spagna e del Portogallo danno luogo ad alcune riflessioni importantissime. Tutti sanno che dalle miniere del Bresile ricava il Portogallo moltissimo oro, e poco argento; al rovescio le miniere Spagnuole somministrano moltissimo argento, e poco oro. È dunque una conseguenza della più rigorosa necessità, che sia più apprezzato l’oro in Ispagna che in Portogallo. ¿Come adunque può essere, che essendo apprezzato un marco d’oro in Ispagna 16 marchi d’argento, e forse meno, sia apprezzato altrettanto in Lisbona? Ma si consideri che quelle Nazioni vietano l’uscita e delle monete e delle paste, che si è dato un privilegio esclusivo al banco di S. Carlo per l’estrazione delle piastre, che i contrabbandi più facili in monete forse che in paste, alterano i giusti rapporti, e si vedrà che nulla puossi ragionevolmente conchiudere intorno alle vere proporzioni nè dai prezzi legali, nè dalle estimazioni popolari di que’ paesi. Pare a me che il massimo commercio del Portogallo facendosi con l’Inghilterra, la proporzione vera Portoghese sarà meglio conosciuta in Londra che in Lisbona, e che il commercio delle piastre Spagnuole facendosi per la maggior parte pel canale della Francia, si saprà meglio la proporzione Spagnuola in Parigi o in Marsiglia, che in Madrid o in Cadice. Ma per le spese dei trasporti deve valere l’oro alcun poco più in Londra che in Lisbona, e parimenti le piastre alcun poco più in Parigi o in Marsiglia, che in Cadice o in Madrid. Dunque essendo la proporzione Inglese poco minore di 1 a 14. , potrebbe presumersi la Portoghese vera di 1 a 14. , e quella di Francia essendo di 1 a 14. , quella di Spagna potrebbe presumersi di 1 a 15. In questa maniera si troverebbero, come è assai naturale, molto approssimate le proporzioni di Francia e d’Inghilterra.
Simile dovrebbe essere la proporzione d’Italia, se il massimo suo commercio si facesse colla Francia e coll’Inghilterra. Ma il porto di Genova ha un commercio immediato colla Spagna, quel di Venezia col Levante. Non sarebbe facile il determinare quale partecipazione abbia l’Italia nel commercio delle Indie orientali, nè quale influenza aver debba nelle proporzioni la quantità grande di zecchini che si van coniando in Firenze ed in Venezia, i quali portano l’oro necessariamente, a cagione della perfetta affinazione, ad un valore maggiore dell’altr’oro tutto. Pompeo Neri nell’anno 1751 nei congressi tenuti coi Ministri di Torino, quando trattavasi di combinare di concerto fra le Corti di Torino e di Milano, e forse altre Italiane ancora, una nuova monetazione, ha preteso che la proporzione non si dovesse stabilire minore di 1 a 15, e possono vedersi nel citato suo libro e nelle tavole annesse i calcoli, cui si appoggiava. I Ministri di Torino non hanno creduto doverla stabilire maggiore di 1 a 14. , e questa potrebbe essere stata la ragione principale, per cui non ha avuto effetto il concerto della Corte di Milano con quella di Torino per la nuova monetazione che si è quì eseguita nel 17559. Comunque sia di ciò, credo di avere spiegato abbastanza quai sono i mezzi più sicuri per riconoscere la vera proporzione fra i due metalli, quando si voglia prenderla per base di una nuova monetazione.
Che se alcuno dubitasse ancora dell’esattezza di queste proporzioni coi proposti metodi investigate, ed opponesse alle proporzioni legali l’impossibilità in cui sono di corrispondere esattamente alle popolari del commercio a cagione della perpetua fluttuazione in cui queste si trovano, io non gli darò altra risposta che recitando quì un passo degno di somma attenzione di Pompeo Neri. Al capo 2 della citata sua opera n. 54 e segg. dice così.
“Quantunque il Du-Tot ponga modernamente la proporzione d’Inghilterra in 14 , Gio. Lok appena quarant’anni avanti attesta (nuove consid. artic. 1 sect. 6 tom. 2 trad. di Firenze p. 43) che era a 16, sicchè non si possono ridurre a regola, nè prognosticare gli accidentali corsi di questa così incostante proporzione.„
“E sopra tale incostanza il predetto Gio. Lok fonda la massima (che in detto luogo, e nello stesso tomo 2 a pag. 235 fino a 255 diffusamente dimostra) che per base di regolamento fisso in materia di monete non debba prendersi altro che l’argento, e che l’oro debba monetarsi e tariffarsi sopra la corrente proporzione per uso delle casse pubbliche e dei contratti. Ma che non debba riputarsi un disordine degno di punizione, se questo medesimo oro riceve dallo spontaneo consenso dei contraenti qualche leggero augumento o decremento di prezzo; poichè questo è un effetto necessario dell’incostanza perpetua della detta proporzione, alla quale non è rimedio; e bisogna che possa agire in libertà senza guastare la legge, quando non si voglia usare la tediosa vigilanza di facilmente ritoccare la legge ogni mese, facilità che spesso produce altri disordini.„
“Sono notabili le di lui parole a pag. 42 ivi. L’argento dunque, e l’argento solo è la misura del commercio. E veramente dovendo ella essere perpetuamente la stessa, e dappertutto uniforme, e dovendo conservare la stessa proporzione di valore in tutte le sue parti, non possono due differenti metalli, come l’oro e l’argento, tutti due insieme, e nello stesso tempo essere a proposito per costituirla e conservarla tale in veruna parte del mondo. Un solo e medesimo metallo può mantenere questa necessaria invariabilità della misura, e questa uniforme proporzione di valore, siccome la mantiene in fatti l’argento rispetto all’argento, e l’oro rispetto all’oro; un’oncia d’argento è sempre di valore eguale a un’oncia d’argento, e un’oncia d’oro a un’oncia d’oro, e due once dell’uno e dell’altro son di doppio valore di un’oncia sola di ciascheduno de’ medesimi. Ma l’argento e l’oro l’uno relativamente all’altro van continuamente variando di pregio. Come, per esempio, supposto che il loro valore relativo sia, come presentemente, nella proporzione di 16 a 1, ¿chi sa che nel prossimo mese non cali a quella di 15. , 15. a 1.? Quindi avvien ch’io creda esser tanto possibile di costituire per misura una cosa, di cui le parti si allunghino e si scortino, quanto il costituire per misura del commercio materie tali che non abbian sempre l’une rispetto all’altre un invariabile e determinato valore„.
“Adunque (prosiegue il Neri) pare in primo luogo che debba investigarsi con somma accuratezza la proporzione che attualmente con verità può dirsi la comune d’Italia, o secondo i metodi tenuti negli allegati calcoli, o secondo qualche altro metodo che si ritrovasse essere più sicuro e più dimostrativo.„
“In secondo luogo, che dalla proporzione in tal guisa accuratamente investigata e ritrovata non sia praticabile il recedere nè per il più, nè per il meno.„
“E in terzo, che la cognizione di questa proporzione possa servire di fondamento per una tariffa da prezzar l’oro con l’autorità pubblica per uso delle casse pubbliche e dei contratti: ma non già di una legge perpetua e penale per il caso che lo spontaneo consenso del debitore e del creditore attribuisce alle monete d’oro nel progresso dei tempi qualche valuta diversa.„
Oltre la proporzione fra i metalli nobili è necessario ancora avvertire alla proporzione che hanno i medesimi col valore del rame quando siavi in un paese (come è da per tutto per quanto io credo) la moneta erosa detta dai Franzesi billon. Il sig. D. P. per confutare le massime, a cui appoggiava Calonne la necessità della rifusione dei luigi accingesi a provare che l’accrescimento in valore numerario di lire che hanno subito in Francia l’oro e l’argento negli anni scorsi è stato l’effetto dell’aggio offerto dalla zecca, o ai banchieri particolari, o al Pubblico nella compra di questi metalli, e che bastava restringere le esibizioni della zecca per farne scemare il valore in commercio. Io dubito assai che abbia egli sbagliato pigliando a rovescio la causa per l’effetto, e che, essendosi accresciuto in commercio il numerario prezzo dei metalli nobili, sia stata costretta la zecca ad accrescere le sue esibizioni per non mancare di materia. La cagione di questo accrescimento dei valori numerarj può essere avvenuta in Francia in gran parte per la quantità di polizze reali che circolavano in commercio, e il di cui credito ha sofferto varie vicende, ed ha forse più giovato Necker per restituire l’equilibrio dei prezzi rilevando il credito delle Finanze, che fissando alle paste dei metalli nobili un prezzo inferiore al comune del commercio.
Ma la cagione ordinaria di questi accrescimenti che si fanno insensibilmente dal commercio ai valori numerarj dell’oro e dell’argento procede dalla sproporzione che hanno colle monete nobili le monete erose. Sia per interesse del fisco, sia per abuso degli impresarj delle zecche, la deteriorazione delle monete infime (alle quali, o alle di cui parti aliquote unite insieme si è sempre attaccata la denominazione di lire) ha fatto crescere in ogni paese, ove più, ove meno, il numero delle lire, con cui si estima una moneta d’oro, cosicchè il gigliato che nel 1259 valeva in Firenze una lira, nel 1738 ne valeva 13. 6. 810. Io non ridirò quì quanto i più valenti Scrittori hanno chiarissimamente dimostrato sopra questa materia. Avvertirò solo ad una circostanza, a cui non parmi siasi fatta tutta la dovuta attenzione. Proporzionando la copia delle monete erose alla sola necessità del giornaliero minuto commercio, sembra che nulla sia a temere dalla sua depravazione, ossia dalla sproporzione del suo intrinseco con quello delle monete nobili. Diventa essa allora più una rappresentazione che un pegno di valore. Tale è stata la massima indicata nel preambolo dell’Editto di nuova monetazione in Torino nel 1755. Il Ministro che diriggeva quest’operazione insistette sempre colla maggior forza, ed ottenne che si contenesse nei più ristretti limiti del necessario la copia di questa moneta. Ma gli Scrittori che hanno consigliato di non prendersi cura mediante questa condizione della sproporzione fra il valore del rame, e quello dei metalli nobili, non hanno considerato che le savie misure del Governo sono facilissimamente deluse dalli frodatori, i quali, quando siano invitati da un lucro considerabile, non mancheranno di riempiere lo Stato di tali monete erose contrafatte, con gravissimo discapito dell’erario, e del Pubblico, onde deve nascere subito il rialzamento del prezzo dell’oro e dell’argento.
Il Re nostro Vittorio Amedeo II nel 1695 osservò i disordini cagionati dalle monete inferiori sproporzionate alle nobili, e vi rimediò riducendole tutte d’un colpo ad un sesto meno del loro valore nominale. Non era nuovo questo rimedio, ma già stato adoperato cogli Editti 11 agosto 1642, 8 aprile 1646, 10 febbrajo 1671. Ma il preambolo dell’Editto dei 2 novembre 1695 fa vedere insieme e le cagioni che hanno prodotto l’alterazione delle monete inferiori, e quanta fosse la giustizia di quel gran Re, e quanto antica sia fra noi la perizia delle buone massime in materia di monetazione11.
Egli è vero che molti Ministri consultati in quell’occasione furono di sentimento contrario, non già perchè ignorassero le buone massime, su cui era fondato, ma principalmente perchè non credevano tale operazione conveniente allora, perchè in tempo di guerra. Prevalse ciò non ostante l’avviso del Controllore generale, e non volle il Re differire sino alla pace una provvidenza, di cui credeva pel pubblico bene imminente la necessità. Io non so in vero quali siano state le conseguenze immediate di questa legge. So che si è calcolato ad un millione e mezzo l’indennizzazione che avrebbe dovuto darsi ai sudditi per tal novazione. Io non ardirei di proporre a chi fosse in simili circostanze un rimedio di apparenza così violenta, e preferirei anche con qualche spesa maggiore dell’erario di ritirare tutte le monete erose di sproporzionato valore, e darne altre in vece di un valore proporzionato12.
Ma questa proporzione non vuol essere intesa a tutto rigore. Quando non se ne metta in corso più del bisognevole pel minuto commercio, e quando contengano queste monete tanto valore, quanto basti perchè non abbiano interesse i frodatori a coniarne delle simili, non vi sarà a temere inconveniente alcuno. Le monetazioni clandestine costano assai più che in zecca, e i pericoli cui s’espone chi fabbrica e spaccia monete di conio adulterino, non s’affrontano mai senza l’attrattiva di un forte guadagno.
Si è considerata finquì la nuova monetazione fattasi in Francia sotto l’aspetto dell’utilità pubblica, la quale si è creduto da Calonne che dovesse risultare dalla più esatta proporzione stabilita fra l’oro e l’argento. Ma egli osa di più asserire che questa nuova operazione è stata lucrosa insieme alle Finanze ed ai possessori dei luigi rifusi. Non sarebbe difficile disingannare i leggitori dimostrando la fallacia de’ suoi calcoli, ma conoscerassi più evidentemente la verità, sviluppandola con un calcolo più semplice ed intelligibile. Trenta dei vecchj luigi formavano un marco, altrettanto pesano trentadue dei nuovi. Chi avesse adunque ricevuto dalla zecca 32 luigi nuovi in cambio di 30 vecchj, avrebbe avuto il fatto suo senza alcun profitto. Avendo esibito la zecca soltanto 25 lire per ciascun luigi vecchio di giusto peso e titolo, il possessore venne a conseguire in cambio di 30 luigi vecchj 31 di nuovi, onde fu in discapito evidente di di un luigi per ogni marco. I luigi vecchj scadenti di peso (e l’erano quasi tutti) sono calcolati da Calonne a ll. 24. 12, e tutt’al più a ll. 24. 15. I possessori di questi luigi hanno dunque ricevuto per ciascun marco di luigi vecchj 30. , o tutt’al più 30. di luigi nuovi; onde hanno perduto sul marco nel cambio l’equivalente a luigi 1. , e fors’anche 1. .
Il lucro delle Finanze sembra evidente. L’oro ha costato alle medesime ll. 750 per ogni marco, e si è dato nei luigi nuovi per ll. 768. Sonovi adunque 18 lire di profitto per ogni marco. Deducendo le spese di fabbricazione, d’affinamento, di restituzione al giusto titolo per li luigi mancanti ec., le quali sono estimate da Calonne ll. 10, restano in netto ll. 8 per marco. Io non ho i dati per verificare tutti questi calcoli, ma ne ho quanti bastano per conoscerne l’illusione. È legge di necessità che la monetazione non dia alcun lucro a chi la fa, e nemmeno il compenso delle spese. Gli Imperatori Romani han dato oro monetato in cambio dell’oro in pasta ad egual titolo peso per peso, come ha provato Pompeo Neri. Narra nel libro quì annunziato il sig. D. P. che i primi Re di Francia fecero lo stesso; che Pipino introdusse il primo il diritto di brassaggio per indennizzarsi delle spese, cui si aggiunse poscia quello del signoraggio per fare delle monete un oggetto di rendita: che gli Inglesi fin dal 1667 hanno adottato il sistema antico della monetazione pienamente gratuita: che il celebre Colbert l’ha parimenti adottato in Francia per Editto dei 28 marzo 1679. Il Re nostro Carlo Emanuele coll’Editto del 1755 ha rinunziato ad ogni signoraggio sulle monete d’oro e d’argento. Questo si è conservato in altri paesi, ed in Francia vien ora calcolato, come abbiam visto da Calonne, a ll. 8 per marco. Ciò non ostante io sono persuaso che la maggior parte delle zecche, malgrado le illusioni che si fanno, si trovano in discapito, e non in profitto. Ho visto il calcolo delle operazioni sull’oro fatte per otto anni in una zecca. Il risultato di questo calcolo dà un profitto di circa per cento. Ma non erano ivi comprese le spese della manutenzione, degli utensili, del carbone, di molti stipendj giornalieri, dello stipendio degli impiegati, del fitto di casa, e sopra tutto dell’aggio esibito ai venditori dell’oro. Tutti questi articoli compongono un sopracarico di spesa, per cui mi risulta la perdita della zecca estimabile ad per 100 del valore legale di ciascuna moneta.
Mi si opporrà forse che le zecche di Firenze e di Venezia riscuotono sicuramente un diritto nel coniare i loro zecchini. Ascende questo diritto, secondo i calcoli di Pompeo Neri appoggiati ai più sicuri riscontri, a circa 1. per 10013. Accorrono sempre mercatanti a queste zecche per far convertire l’oro in zecchini, e sono contenti di ricevere 1. per 100 meno in peso d’oro di quello che hanno consegnato. Questo profitto è diviso in due parti; d’esso si pigliano a titolo di cementazione, gli altri a titolo di spese, che tutte, compresi i consumi e i pericoli, sono a carico dello zecchiere. Quanto alla cementazione, per cui mezzo si affina l’oro alla perfetta purezza di 24 caratti, non è meraviglia che il commercio paghi alla zecca un’opera che rende l’oro atto a molti usi fabrili, a cui prima non l’era. Non è questo dunque un guadagno sulla monetazione, e questa parte si paga egualmente da quelli che richieggono dalla zecca l’oro affinato non coniato. Ma l’altra parte, se non un profitto di monetazione, sembrerebbe almeno un giusto compenso delle spese che io dissi dapprima mai non potersi ottenere dal commercio. Cambiati i nomi svanirà la difficoltà. Il commercio ha bisogno d’oro affinato a 24 caratti per gli usi fabrili. Il doratore, il battitore Veneto o Fiorentino paga la sola spesa fissata nella zecca a titolo di cementazione, e ne riceve l’oro affinato in barra. Ma il negoziante che vuole vendere agli artisti lontani la materia dell’arte loro, non può esibire ai medesimi oro in barra; costerebbe troppo il verificare la purezza di questo titolo. L’impronto dello zecchino la guarentisce. Devono adunque li zecchini Fiorentini e Veneziani apprezzarsi in commercio assai più che lo stess’oro ridotto in pasta. Altronde la cementazione fatta in grande da persone esperimentatissime costa assai meno che l’affinamento che farebbe ciascun particolare. Il sig. Compayre assicurava non potersi fare nella zecca di Torino a meno di 30 soldi l’oncia (V. cit. opera di Neri mem. XIX), spesa che giungerebbe quasi ad uguagliare quanto riscuotono tra l’affinazione e la battitura gli zecchieri di Firenze e di Venezia. ¿Quanto non dovrebbe quest’operazione costare di più ai particolari?
Nasce da queste osservazioni una conseguenza importantissima, con cui porrò fine a questo mio discorso, ed è che mentre si cerca con varj divieti di sottrarre la moneta agli usi fabrili, si rende frustraneo il desiderio di trarre profitto dalla zecca, o almeno d’indennizzarsi delle spese; e quelle zecche che fanno monete a posta per servire all’uso delle arti, sono le sole che non soffrono alcun discapito.
Note
- ↑ L’ho alle mani stampato in foglio senza data di luogo, nè di tempo: trovasi aggiunto nel tomo quinto della raccolta dell’Argellati.
- ↑ Puossi vedere una gran parte di questi preparativi stampata nella prelodata opera di Pompeo Neri, ma gli eccitamenti fatti sovra ogni massima, sovra ogni parola prima che si pubblicasse l’Editto del 1755 dalle persone le più fornite di lumi teorici e pratici, stanno in carte private che ben meriterebbero la pubblica luce.
- ↑ In Francia la divisione del caratto si intende in 32 grani.
- ↑ V. l’opera di Pompeo Neri Tav. IV.
- ↑ È da notarsi in favore della tariffa Torinese, che questi due estremi s’incontrano solo nel confronto delle doble di Spagna coi filippi, e delli zecchini di Genova cogli scudi Romani. Ma in altri confronti che si trovano quì assai più numerosi che nelle altre Città, le proporzioni sono assai meno varianti, e i più discosti limiti sono da 15. a 15. .
- ↑ Devonsi parimenti escludere dal confronto li zecchini particolarmente Veneziani e Fiorentini. Questi per la straordinaria purezza dell’oro reso atto a molti usi fabrili, hanno sempre in commercio una estimazione maggiore che non abbia l’oro fino, perchè mischiato con lega nelle altre monete. Lo stesso potrebbe aver luogo per qualche moneta d’argento, che risparmiasse agli artisti una considerabile spesa d’affinazione.
- ↑ Se son esatti i calcoli del sig. D. P. dal 1726 sino al 1785, si è sempre conservata la proporzione in Francia da 14. poco meno a 14. .
- ↑ La gazzetta di Londra intitolata London Cronicle in data dei 28 febbrajo scorso dà il prezzo dell’oro in barra in soldi sterlini 77 den. 6, e quel dell’argento in soldi 5 den. 3. . Da questo confronto risulta la proporzione di 1 a 14. circa.
- ↑ Nell’esecuzione si è adottata per massima nel 1755 la proporzione di 1 a 14. . Nella nuova monetazione fattasi in Torino nel 1785 non si sono variate le massime della precedente, solo si è approssimato la proporzione fra l’oro e l’argento alla proporzione novella stabilita in Francia, paese con cui abbiamo il maggiore commercio.
- ↑ V. la tavola cavata dal libro intitolato Il fiorino d’oro illustrato nella citata opera di Pompeo Neri appendice n. 5.
- ↑ Darò quì a soddisfazione dei leggitori ricopiato fedelmente questo preambolo.
“Le premurose contingenze della guerra avendoci posti in dovere d’appigliarci a quei mezzi che potevano recare più pronto soccorso alle nostre Finanze nelle urgenze non prevedute, che ci sono sovrastate, non abbiamo potuto non prevalerci del Signoraggio propostoci col mezzo della battitura delle pezze da soldi due e mezzo, e da soldi quindeci, che sono presentemente in commercio: tanto più che per le medesime circostanze del caso sendo stata antecedentemente permessa da Noi la spendita delli fiorini d’Alemagna a soldi cinquanta, e degli ungari a livre nove, non ostante che non avessero la loro correspettività col valore delle monete d’oro ed argento, stabilita dagli ultimi Editti, non si poteva di meno di fare altra battitura di monete erose a luogo de’ fiorini suddetti, e lasciar correre qualche sproporzione da ripararsi col beneficio del tempo. E siccome da questi tanto notorii emergenti ne è succeduto un augumento alle monete fine, che la giustizia commutativa ha partorito per la disuguaglianza del valore d’esse a paragone delle erose, considerata l’intrinseca bontà delle une e delle altre; e l’istesso augumento ha prodotto in conseguenza un maggior prezzo alle vittovaglie, alle merci, e generalmente a tutti li generi di quanto è necessario per il vitto umano, e per l’esercizio della guerra; così ne è seguita indirettamente la diminuzione delle paghe alli soldati; la maggiore spesa del vestire de’ medemi, congiunta la perdita considerabilissima che si fa con l’estrazione del danaro per la necessaria compra de’ cavalli, munizioni da guerra, ed altre robbe forestiere, oltre altri pregiudizj rilevantissimi, che ne sentono le nostre Finanze. Questi riflessi, e molto più quello dell’universale commercio tanto dannificato dal quotidiano, sproporzionato, ed eccessivo accrescimento delle monete fine, con evidente aggravio de’ negozianti istessi, da’ quali abbiamo prese accertate notizie, Ci hanno persuasi di venire senza maggior ritardo ad una diminuzione del valore delle suddette due monete da soldi quindeci, e da soldi due e mezzo, a proporzione dell’intrinseca loro bontà, e conservare le monete d’oro e d’argento nella fissazione portata da’ precedenti Editti, non ostante ogni maggior augumento che l’inferior qualità delle suddette due monete erose ha cagionato per la disugualità loro a ragguaglio delle monete fine come sopra: e questa diminuzione quantunque sembri pregiudiciale a quelli che si troveranno avere delle suddette monete, contuttociò considerata la diminuzione che proporzionabilmente deve influire al valore delle merci, vittovaglie, ed altre robbe, le quali ricevono il loro prezzo dal valore delle monete d’oro e d’argento, si troverà non essere generalmente di pregiudizio, secondo la sua numerica apparenza, oltre di che col mezzo dell’infrascritta tassa intendiamo di provvedere all’indennità di chi averà dette monete erose, e ridurre il tutto ad una vera ed adeguatissima proporzione. Con le presenti dunque ec. - ↑ Sarebbe stata più semplice e meno tumultuosa l’operazione che fu allora proposta da alcuno, di tollerare il corso abusivo delle monete nobili, che ne restituiva l’equilibrio colle erose; ma in tale maniera scemavansi considerabilmente i tributi fissati in lire, e non si può in tempo di guerra scemare i tributi.
- ↑ V. la citata opera di Neri cap. 3 n. 27 e segg., e la memoria posta al n. XX.