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c a n t o    xiii. 299

103Spirto, diss’ io, che per salir ti dome,
     Se tu se’ quelli che mi rispondesti,
     Fammiti conto o per loco o per nome.
106Io fui Sanese, rispuose, e con questi
     Altri rimendo qui la vita ria,
     Lagrimando a Colui che sè ne presti.
109Savia non fui, avvegna che Sapìa1
     Fossi chiamata, e fui delli altrui danni
     Più lieta assai, che di ventura mia.
112E perchè tu non credi ch’ io t’ inganni,
     Odi s’ io fui, com’ io ti dico or, folle:
     Già descendendo l’ arco de’ miei anni,
115Eran li cittadin miei presso a Colle
     In campo giunti coi loro avversari;
     Et io pregava Iddio di quel che volle.
118Rotti for quivi, e volti ne li amari
     Passi di fuga; e vedendo la caccia,
     Letizia presi a tutte altre dispari
121Tanto, ch’ io volsi in su l’ ardita faccia,2
     Gridando a Dio: Omi più non ti temo;
     Come fa il merlo per poca bonaccia.
124Pace volsi con Dio in su l’ estremo
     De la mia vita; et ancor non serebbe
     Lo mio dover per penitenzia scemo,
127Se ciò non fusse, che a memoria m’ ebbe
     Pier Pettinaro in suoe sante orazioni,
     A cui di me per carità rincrebbe.

  1. v. 109. Donna Sapìa fu moglie di Ghinibaldo de’ Saracini, e con suo marito fondò un ospizio pe’ viandanti nel 1265. Ella risponde a Dante, non come latina; ma come italica, qualità allora distinte e per la diversità delle razze, e per quella delle leggi personali. E.
  2. v. 121. C. A. io in su levai l’