Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXV

Inferno
Canto venticinquesimo

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Inferno - Canto XXIV Inferno - Canto XXVI
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C A N T O   XXV.





1Al fine delle sue parole il ladro
      Le mani alzò con ambedue le fiche,
      Gridando: Togli, Idio, che a te le squadro.1
4Da indi in qua mi fur le serpi amiche,2
      Perch’una li s’avvolse allora al collo,
      Come dicesse: I’ non vo’ che più diche;3
7Et un’altra alle braccia, e rilegollo,
      Ribadendo sè stessa sì d’inanzi,4
      Che non potea con esse dare un crollo.5
10Ah Pistoa, Pistoa! che non stanzi
      D’incenerarti, sì che più non duri,
      Poi che in mal far lo seme tuo avanzi?6
13Per tutti i cerchi dello Inferno scuri
      Non vidi spirto in Dio tanto superbo,7
      Non quel, che cadde a Tebe giù da’ muri.
16Ei si fuggì, che non parlò più verbo;
      Et io vidi un Centauro pien di rabbia
      Venir gridando: Ov’è, ov’è l’acerbo?

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19Maremma non cred’io, che tante n’abbia,
      Quante bisce elli avea su per la groppa,
      Infìn dove comincia nostra labbia.
22Sopra le spalle, dietro dalla coppa,
      Con l’ali aperte gli giacea un draco,8
      E quello affuoca qualunque s’intoppa.
25Lo mio Maestro disse: Quelli è Caco,
      Che sotto il sasso di monte Aventino
      Di sangue fece spesse volte laco.8
28Non va co’ suoi fratei per un cammino,
      Per lo furar fraudulente che fece9
      Del grande armento, ch’elli ebbe a vicino;
31Onde cessaro le sue opere biece
      Sotto la mazza d’Ercole, che forse
      Gliene diè cento, e non sentì le diece.
34Mentre che sì parlava, et el trascorse,10
      E tre spiriti vennor sotto noi,1112
      De’ quai nè io, nè il Duca mio s’accorse,
37 Se non quando gridar: Chi siete voi?
      Perchè nostra novella si ristette,
      Et intendemmo pur ad essi poi.
40Io non li conoscea; ma el seguette,13
      Come suol seguitar per alcun caso,
      Che l’un nominar l’altro convenette,

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43Dicendo: Cianfa dove fia rimaso?14
      Perch’io, a ciò che il Duca stesse attento,
      Mi puosi il dito su dal mento al naso.
46Se tu se’ or, Lettore, a creder lento
      Ciò ch’io dirò, non sarà maraviglia:
      Chè io, che il vidi, appena il mi consento.15
49Com’io tenea levate in lor le ciglia,
      Et un serpente con sei piè si lancia
      Dinanzi all’uno, e tutto a lui s’appiglia.
52Coi piè di mezzo li avvinse la pancia,
      E con li anterior le braccia prese,
      Poi li addentò e l’una e l’altra guancia.
55Li diretani alle cosce distese,
      E miseli la coda tra amendue,16
      E dietro per le ren su la ritese.
58Ellera abbarbacata mai non fue
      Ad arbor sì, come l’orribil fiera
      Per l’altrui membra avviticchiò le sue:
61Poi s’appiccar, come di calda cera17
      Fossero stati, e mischiar lor colore,
      Nè l’un, nè l’altro già parea quel ch’era;
64Come procede inanzi dall’ardore
      Per lo papiro suso un color bruno,
      Che non è nero ancora, e il bianco more.
67Li altri lo riguardavano, e ciascuno
      Gridava: O me! Agnel, come ti muti!
      Vedi che già non se’ nè due, nè uno.
70Già eran li due capi un divenuti,
      Quando n’apparver due figure miste
      In una faccia, ov’eran due perduti.18

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73Fersi le braccia due di quattro liste;
      Le cosce con le gambe, il ventre e il casso
      Divenner membra che non fur mai viste.
76Ogni primaio aspetto vi era casso:
      Due e nessun la imagine perversa
      Parea, e tal sen già con lento passo.
79Come il ramarro, sotto la gran fersa
      Dei di’ canicular, cangiando siepe,19
      Folgore par, se la via attraversa;
82Sì pareva venendo verso l’epe
      Delli altri due un serpentello acceso,
      Livido e ner come granel di pepe.
85E quella parte, d’onde prima è preso20
      Nostro alimento, all’un di lor trafisse;
      Poi cadde giù dinanzi a lui disteso.
88Lo trafitto il mirò, ma nulla disse;
      Anzi coi piè fermati sbadigliava,21
      Pur come sonno o febre l’assalisse.
91Egli el serpente, e quei lui ragguardava;
      L’un per la piaga, e l’altro per la bocca
      Fumava forte, e il fummo si scontrava.
94Taccia Lucano omai, dove si tocca
      Del misero Sabello e di Nassidio,
      Et attenda a udir quel, ch’or si scocca.
97Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio:
      Chè se quello in serpente, e quella in fonte
      Converte poetando, io non l’invidio:22
100Chè due nature mai a fronte a fronte
      Non trasmutò, sì ch’amendue le forme23
      A cambiar lor materie fesson pronte.24

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103Insieme si ripuoser a tai norme,25
      Che il serpente la coda in forca fesse,
      E il ferito ristrinse insieme l’orme.
106Le gambe con le cosce seco stesse
      S’appiccar sì, che in poco la giuntura
      Non facea segno alcun che si paresse.
109Togliea la coda fessa la figura,
      Che si perdeva là; e la sua pelle
      Si facea molle, e quella di là dura.
112Io vidi entrar le braccia per l’ascelle,
      E i due piè della fiera, ch’eran corti,26
      Tanto allungar, quanto accorciavan quelle.
115Poscia li piè di retro, insieme attorti,
      Diventaron lo membro che l’uom cela,27
      E il misero del suo n’avea due porti.
118Mentre che il fumo l’uno e l’altro vela
      Di color nuovo, e genera il pel suso28
      Per l’una parte, e dall’altra dipela,
121L’un si levò, e l’altro cadde giuso,
      Non torcendo però le lucerne empie,
      Sotto le quai ciascun cambiava muso.
124Quel ch’era dritto il trasse in ver le tempie,29
      E di troppa materia, che là venne,
      Uscir li orecchi dalle gote scempie:
127Ciò che non corse in dietro, ei si ritenne,
      Di quel soverchio fe naso alla faccia,30
      E le labra ingrossò quanto convenne.
130Quel che giacea, lo muso innanzi caccia,
      E li orecchi ritira per la testa,
      Come face le corna la lumaccia:

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133E la lingua, che avea unita e presta
      Prima a parlar, si fende; e la forcuta
      Nell’altro si richiude, e il fummo resta.
136L’anima, ch’era fiera divenuta,
      Sufolando si fuggì per la valle,31
      E l’altro dietro a lui parlando sputa.
139Poscia li volse le novelle spalle,
      E disse all’altro: Io vuo’, che Buoso corra,32
      Com’ò fatt’io, carpon per questo calle.33
142Così vid’io la settima zavorra
      Mutare e trasmutare, e qui mi scusi
      La novità, se fior la penna aborra.
145Et avvegna che li occhi miei confusi
      Fossono alquanto e l’animo smagato,34
      Non poter quei fuggirsi tanto chiusi,
148Ch’io non scorgessi ben Puccio Sciancato;
      Et era quel che sol de’ tre compagni,
      Che venner prima, non era mutato:
151L’altro era quel, che tu, Gaville, piagni.35

  1. v. 3. C. M. Tolle, Idio,
  2. v. 4. C. M. mi fur le serpi
  3. v. 6. C. M. dicesse: Non vo’ che tu diche; - Diche per dica o dichi: in antico tutte le persone singolari al congiuntivo cadevano in e. E.
  4. v. 8. C. M. Ribattendo
  5. v. 9. C. M. grollo.
  6. v. 12. C. M. in mal far il seme
  7. v. 14. Spirto non vidi in Dio
  8. 8,0 8,1 v. 23-27. Draco e drago, laco e lago dicevano gli antichi e nel verso e nella prosa, come noi tuttora usiamo Federico e Federigo, aco e ago e simili. E.
  9. v. 29. C. M. Per lo furto che fraudolente fece
  10. v. 34. C. M. le suo parole biece
  11. v. 35. venner verso noi,
  12. v. 35. Vennor, oggi meglio vennero; ma in antico per eguaglianza di cadenza qualunque coniugazione aveva il perfetto in oro. E.
  13. v. 40. Seguette. Consueta riduzione d’un verbo della terza coniugazione alla seconda. Il perfetto in ette della seconda fu il tipo, a cui si adattarono molti verbi; quindi convenette, fuggette, odette e altri. E.
  14. v. 43. C. M. Gianfa
  15. v. 48. C. M. mel consento,
  16. v. 56. C. M. tra ambedue,
  17. v. 61. C. M. appicciar,
  18. v. 72. C. M. dov’eran perduti.
  19. v. 80. C. M. sepe,
  20. v. 85. C. M. onde prima appreso
  21. v. 89. C. M. sbavilliava,
  22. v. 99. C. M. Convertì poetando,
  23. v. 101. C. M. Non trasmutor,
  24. v. 102. C. M. fosser pronte.
  25. v. 103. C. M. si ripuoseno
  26. v. 113. C. M. E due piè della bestia,
  27. v. 116. C. M. le membra
  28. v. 119. C. M. e ingenera
  29. v. 124. C. M. dritto trassen
  30. v. 128 C. M. fe naso la faccia,
  31. y. 137. Si fugge sufolando
  32. v. 140. Io vuo’. Vuo’; potrebb’ essere la voce vo’, troncata da voio e framessovi l’u, come in vuoglio, vuogli ec., al modo che incontransi negli antichi. Oggi a vuo’ si preferisce vo’. E-
  33. v. 141. C. M. Come faccio, carpon
  34. v. 146. C. M. Fusser
  35. v. 151. C. M. Gavilli, piangili.




C O M M E N T O

Al fine delle sue parole ec. Avendo trattato l’autore nel canto passato del ladroneccio, in questo canto xxv intende di trattare di quel medesimo; ma in altra spezie, cioè nella seconda e terza, come se vedrà, quando sporremo lo testo. E dividesi questo canto principalmente in due parti, perchè prima tratta della seconda spezie del furto, oltra quello che continua di Vanni Fucci; nella seconda tratta della terza spezie, quivi: Come il ramarro, ec. La prima, che sarà [p. 640 modifica]la prima lezione, si divide in sei parti, perchè prima pone quel che fu di Vanni Fucci, dette le predette cose; nella seconda, quello che uno Centauro; cioè Cacco, disse contra Vanni Fucci, quivi: Ei si fuggì, ec.; nella terza, come Virgilio manifesta che il Centauro è Cacco, e manifesta la cagione, perchè non è con li altri, quivi: Lo mio Maestro disse: ec.; nella quarta, come il Centauro trapassò, e tre spiriti vennono nominando de’ compagni, quivi: Mentre che sì parlava, ec.; nella quinta pone la pena della seconda spezie delli furi, quivi: Se tu se’ or, Lettore, ec.; nella sesta pone come li compagni si maravigliano della pena del loro compagno, quivi: Li altri lo riguardavano, ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

Poiché Vanni Fucci ebbe predetto a Dante tristo annunzio della parte sua, levò le mani suso facendo due fiche da ciascuna mano, gridando: Togli, Idio, ch’a te le squadro. Et allora una serpe li s'avvolse alle braccia, e rilegollo ribadendo sè stessa sì dinanzi, che non potea con essa dare un crollo. E pone l’autore una esclamazione contra Pistoia, dicendo: Perchè non t’affretti 1 d’ardere et incenerarti, poi che tu avanzi in mal fare il seme tuo; cioè di Catellina e de’ suoi, dicendo, che per tutto lo inferno non à trovato alcuno spirito, tanto superbo contro a Dio, non Capaneo che cadde a terra delle mura di Tebe, del qual fu detto di sopra nel xiv canto? Allora dice che Vanni Fucci si fuggì, che non parlò più parola; et ecco uno Centauro pieno di rabbia venir gridando: Ov’è l’acerbo Vanni Fucci? E dice ch’avea tante bisce su per la groppa, infino quivi; cioè ove comincia la figura umana, che non crede che Maremma n’abbia tante; e dietro in sulle spalle li giacea uno dragone con l’alie aperte, che affocava 2 qualunque scontrava. Et allora Virgilio certificò Dante che quel Centauro era Cacco, che fece grande uccisione d’uomini sotto lo sasso di monte Aventino; e rende ragione, perchè non è posto di sopra con li altri Centauri nel cerchio de’ violenti, perchè fece lo furto dell’armento d’Ercole, onde Ercole l’uccise. E pone che mentre che Virgilio parlava così, lo Centauro trascorse; et ecco tre spiriti venir sotto loro, de’ quali non s’accorse nè Virgilio, nè Dante, se non quando gridarono: Chi siete voi? Et allora si ristettono di loro parlare, et attesono a loro poi; e dice Dante che non li conoscea, ma avvenne che all’uno convenne nominare l’altro, dicendo l’un di loro: Cianfa dove rimase? Perchè Dante accennò a Virgilio che stesse cheto. Et ora fa l’autore un proemio a lettore, che s’elli è lento a credere, non se ne maraviglia, che appena elli che il vide lo credè; e dice che, com’elli stava attento a ragguardarli, uno serpente con sei [p. 641 modifica]piedi si lanciò dinanzi all’uno et appigliossi a lui, e coi piè di mezzo li adunghiò il ventre, e co’ piè d’inanzi prese le braccia, e poi con la bocca prese l’una e l’altra guancia, e li piedi di dietro distese alle coscie, e miseli la coda tra amendue le cosce, e drizzolla su dietro per le reni; e così venne avvitichiando alle sue membra più che l’ellera non si avvitichia all’arbore, poi s’appicarono l’uno corpo con l’altro, come se fossono stati di cera, e mescolarono lo lor colore sì, che nè l’uno, nè l’altro parea quel ch’era prima. E fa una similitudine che, così si cambiava lo colore del peccatore di bianco in bruno, come fa lo lucignolo della lucerna o del candelo, che come viene ardendo lo fuoco; così si muta lo bianco in bruno a poco a poco, e diventa poi nero. Li altri suoi compagni lo riguardavano, e ciascuno gridava: O Agnello, come ti muti! Vedi che già non se’ nè due, nè uno. E già erano li due capi fatti uno, quando apparvono due figure mischiate in una faccia dov’erano perduti li due capi, e le braccia si feciono di quattro liste, le coscie con le gambe e il ventre e il vano del corpo diventarono membra, che mai non furono vedute più, et ogni primo aspetto v’era perduto: e quella imagine perversa parea due, e nessuno era, e così fatto se n’andava con lento passo. Posta la sentenzia litterale, ora è da vedere lo testo con l’esposizioni allegoriche o vero morali.

C. XXV — v. 1-15. In questi cinque ternari l’autor nostro finge come Vanni Fucci, di cui già è detto, bestialmente e superbamente insurse contra Dio, e la pena che ne sostenne, dicendo: Al fine delle sue parole il ladro; cioè Vanni Fucci, già detto di sopra, al fine del suo parlamento fatto in verso di me Dante, Le mani; cioè sue amendu’, alzò; cioè verso lo cielo, con ambedue le fiche; questa fica è uno vituperoso atto, che si fa con le dita in dispregio e vituperio altrui, e non se ne può fare se non due da ogni mano con le dita, e però dice l’autore con ambedue, per significare che tante ne fe, quante potè; cioè due da ogni mano, Gridando: Togli, Idio, che a te le squadro; cioè a te, et a tuo dispregio et obbrobio le fo tutte e quattro; e però dice squadro, per ch’erarno quattro e stavano in quadro. Da indi in qua; cioè da quell’ora in qua, mi fur le serpi amiche; cioè a me Dante che prima l’avea in odio, poi ò voluto lor bene: mostra l’autore ch’avesse in dispiacere la bestial superbia di Vanni Fucci, e che fosse lieto della vendetta, Perch’ una; di quelle serpi, li s’avvolse allora al collo; cioè a Vanni Fucci, quando fece quello che detto è, e disse la sopra detta villania contra Dio, Come dicesse; cioè quella serpe a Vanni Fucci, I’ non vo’ che più diche; cioè quel che tu dì; Et un’altra; cioè serpe, alle braccia; li s’avvolse, e rilegollo; e per questo mostra che si fosse sciolto da la prima legatura, che detto fu di sopra, quando tornò in cenere sì, che poi s’era levato [p. 642 modifica]sanz’essere legato, com’era prima, Ribadendo sè stessa sì d’inanzi; però dice d’inanzi: imperò che le mani erano legate di retro con la serpe et avvolta era poi d’inanzi molto stretta, Che non potea con esse; cioè con le braccia, dare un crollo; cioè non potea punto scuotere le braccia; onde l’autore usa invezione, o vero esclamazione, contro la patria di costui, dicendo: Ah; questa dizione è intergezione che significa esclamazione, Pistoa, Pistoa! Parla l’autore a modo de’ Pistoiesi, che levano molto questa lettera i del loro parlare, dicendo Pistoa, dovendo dire Pistoia; et usa quel colore che si chiama conduplicazione, a mostrare maggiore indegnazione d’animo, replicando lo vocabolo, che non stanzi; cioè perchè non ti spacci e non ti avacci D’incenerarti; cioè d’ardere e farti cenere, sì che più non duri; tu città; ma anzi venghi meno, Poi che in mal far lo seme tuo avanzi; cioè di Catellina e de’ suoi, li quali furono sconfitti dai Romani in su quello 3 di Pistoia, quando fu la sedizione Catellinaria? E fu morto Catellina, secondo che scrive Sallustio nel primo libro; e li rimanenti, secondo che si dice, edificarono Pistoia sì, che piggiori erano quegli ch’erano nati di quel sangue, che non furono li edificatori, che furono uomini scelleratissimi, siccome dice Sallustio 4. Questo il quale fu romano e con suo’ compagni romani uscie di Roma per la congiura quivi fatta, e ribellò Fiosole, e quindi cacciato da’ Romani, fu morto in su quello di Pistoia elli e suo’ da’ detti Romani che lo seguirono, come narra Sallustio nel Catellinario et ancora altri autori; e quelli de’suoi che scamparono, secondo che si dice, edificarono Pistoia sì, che piggiori erano quelli ch’erano li edificatori loro, i quali furono uomini sceleratissimi, come dice Sallustio. Per tutti i cerchi dello Inferno scuri; quasi dica: Per quelli che sono più scuri ove sono li più gravi peccatori, perchè quanto più si scende maggior oscurità è, e più grave peccato si punisce, Non vidi; io Dante, spirto in Dio; cioè contro Idio, tanto superbo; quanto Vanni Fucci, lo quale fece quello e disse che detto fu di sopra, lo quale fu pistoiese, Non quel, che cadde a Tebe già da’ muri; cioè Capaneo, del quale fu detto di sopra, fu tanto superbo contra Dio, quanto fu Vanni Fucci da Pistoia.

C. XXV — v. 16-24. In questi tre ternari finge l’autore che sparisse e fuggisse Vanni Fucci, e che venisse Cacco centuaro; e però [p. 643 modifica]dico: Ei: cioè Vanni Fucci, si fuggì; via sì, ch’io nol vidi più, che non parlò più verbo; cioè più parola, che quel ch’avea detto di sopra. Questo finge l’autore per convenienza della lettera; ma allegoricamente intende che fuggì dalla fantasia sua, perch’è detto e finto quel che volea fingere: ora passa ad altra materia, Et io; cioè Dante, vidi un Centauro pien di rabbia; che cosa sia Centauro fu detto di sopra nel canto ove si trattò de’ violenti, e però non lo replico; qui dice ch’era molto rabbioso, Venir gridando: Ov’è, ov’è l’acerbo; cioè Vanni Fucci del quale fu detto di sopra, perch’elli lo volea punire della sua superbia, secondo che dirà di sotto? Finge l’autore che questi fosse Cacco del quale dice Virgilio nell’Eneide, che abitò nel monte Aventino, nimico del re Evandro che abitava ov’è ora Roma; cioè ove è il Campidoglio, e furava e rubava con omicidi et incendi e con arsioni, facendo scorreria sopra quello che possedea lo re Evandro, et in ognuno fu crudelissimo uomo: e però finge l’autore che fosse qui posto a tormento di questi ladroni e furi, perchè fu grandissimo ladro e furo nel mondo, e rubava e furava ognuno sì, che come molestava nel mondo ognuno, non risparmiando li furi, nè li rubitatori; così finge che sia posto nell’inferno, e descrive com’era fatto. Maremma; questa è una contrada di Pisa, posta presso al mare ove abondano molte serpi, intanto che a Vada è uno monasterio bellissimo, lo quale per le serpi si dice essere disabitato, non cred’io; cioè io Dante, che tante n’abbia; delle bisce, Quante bisce; cioè serpi, elli; cioè questo centauro Cacco, avea su per la groppa; ecco che finge che fosse mezzo cavallo e mezzo uomo, come fu detto di sopra delli altri Centauri, perchè andava a cavallo a furare e rubare: e finge che avesse innumerabile moltitudine di serpi in su quella parte che era cavallo, perchè la parte bestiale che era in lui maggior che l’umana, ebbe innumerabili fraudi et inganni di furare e rubare; et osservando la fizione che à osservato di sopra, ponendo secondo li luoghi li mostri che sono stati posti per li poeti nel mondo, per li demoni che ànno signoria di tale peccato, quale quivi si punisce, così pone qui Cacco per lo dimonio ch’à signoria sopra li furi et àe a tentare li uomini di sì fatto peccato, Infin dove comincia nostra labbia; cioè lo nostro ventre, ove sta la bruttura di tutto lo corpo umano: labbia significa bruttura; cioè labe, che è vocabolo grammatico 5; e questo dice, perchè li Centauri dal ventre in su si dicono essere uomini, e dal ventre in giù cavalli, e così si mostra dell’uomo quando è 6 cavallo dal ventre in su. Sopra le spalle; umane di Cacco, dietro dalla coppa; cioè dalla parte di dietro ove è la groppa del cavallo, Con l’ali aperte gli giacea un draco; cioè quivi [p. 644 modifica]sopra le spalle portava uno dragone con l’ali aperte: questo significa lo pessimo inganno col quale lo demonio induce altrui a furare, dal quale l’umana ragione non si sa guardare, e però finge che giacesse sopra le spalle umane, E quello; cioè il drago, affuoca qualunque s’intoppa; cioè si scontra in lui. E per questo significa l’ardore del furare, che gitta lo dimonio in chi si scontra con lui; cioè chi va per la via viziosa, nella quale l’uomo con lui si scontra, che per quella delle virtù con lui non si potrebbe scontrare. E quanto alla lettera dà colore alla fizione poetica, che finge Virgilio nel detto luogo che Cacco gittava fuoco per la bocca, perchè volea dare ad intendere l’arsione ch’elli facea andando furando e rubando, per potere meglio furare e rubare.

C. XXV — v. 25-33. In questi tre ternari l’autor nostro finge che Virgilio li manifesti chi è quel Centauro, e questo non finge sanza cagione: imperò che Virgilio nel libro preallegato finge che lo re Evandro narra ad Enea, dicendoli la cagione della festa ch’elli celebrava d’Ercole, quando Enea venne a lui, che sotto la sommità del monte Aventino, il quale monte è ora in Roma, in una spilonca abitava Cacco. La verità fu che era una rocca ov’elli abitava, lo quale Cacco era mezzo uomo e mezzo cavallo, e gittava fuoco per la bocca et era uno grande furo, onde molto furava al re Evandro et alli altri vicini ch’erano d’intorno, e non si poteano aiutare da lui: tanto era corrente e sì forte era quella spilonca. Ma essendo capitato in quelle parti Ercole, quando tornava dalla vittoria di Gerione re di Spagna, e menatone lo suo ricco armento di buoi e vacche ch’elli avea, fu ricevuto dal re Evandro ad albergo; e messe le bestie nella pastura, Cacco venne di notte e furonne quattro tori, e quattro vacche le più belle che seppe scegliere 7, e maliziosamente le tirò per la coda nella spilonca per occultare lo furto, acciò che le pedate mostrassono il contrario. Onde quando Ercole si venne a partire annoverò le sue bestie, e non trovando il novero l’andò cercando, e non trovandole si partiva; e come è usanza, li tori incominciarono a mugghiare, e quelle ch’erano nella spelonca di Cacco, cominciarono a rispondere; onde Ercole, sentita la voce, andonne su e trovò Cacco che sedea di fuori, lo quale, quando vide venire Ercole con la mazza sua, subito si fuggì nella spilonca e fermò uno grande sasso all’entrata, ch’egli avea acconcio con catene e verchioni, secondo l’arte di Vulcano, del quale Cacco si dicea essere figliuolo. Ercole volle mandare a terra questo sasso, e non potendo andò intorno alla spilonca parecchi 8 volte, cercando di trovare qualche entrata; e non [p. 645 modifica]trovandone alcuna, s’avvide che il sasso grandissimo, ch’era coperchio di questa spilonca, era spiccato e pendea in verso Io Tevero, onde lo sospinse con gran forza e cacciollo a terra, e andò rovinando lo sasso in fino al Tevere. E scoperta la spilonca, montò Ercole su di sopra e gittava de’sassi a Cacco; ma Cacco gittava fumo con la bocca sì, che Ercole non lo potea vedere. Et appostato quella parte ov’era maggior lo fumo e più facea onda, gittossi Ercole nella spilonca e nella oscurità, et andando tastando lo trovò; et afferratoli la gola lo strinse sì forte, che li fece schizzare li occhi della testa, e poi lo bastonò con la sua grande mazza d’infiniti colpi tanto, che l’uccise. E cessato lo fummo, l’aperse la spilonca e trassene fuori Cacco per li piedi e rimenò le sue bestie all’armento, e questo fu grande piacere al re Evandro; e però ogni anno ne facea la festa, e così facea allora, quando Enea andò a lui, secondo che finge Virgilio; e però dice il testo: Lo mio Maestro; cioè Virgilio, disse: Quelli è Caco; dimostrando lo Centauro detto di sopra, Che sotto il sasso di monte Aventino; ov’era la spilonca, Di sangue fece spesse volte laco; e per questo mostra la grande uccisione ch’aveva fatto. Non va co’ suoi fratei; cioè con li altri Centauri, i quali à finto di sopra cap. xiii essere coi violenti, per un cammino; perchè coloro sono nel settimo cerchio de’ violenti, e questo e nel nono nella bolgia de’ furi, Per lo furar; delle vacche e de’ tori d’Ercole, fraudulente che fece; cioè di notte tirandoli per la coda, perchè non si vedessono le pedate, in verso la spilonca, Del grande armento; che fu d’Ercole, et era stato del re Gerione, ch’elli ebbe a vicino; cioè che li fu prossimano 9, quando Ercole albergò col re Evandro, Onde cessaro; cioè per questo furto che fu scoperto, le sue opere biece; cioè scelerate e ree, Sotto la mazza d’Ercole; che l’uccise, bastonandolo con essa, che forse Gliene diè cento; delle bastonate per la grande ira ch’avea contra lui, e non sentì le diece: imperò che morì, inanzi che sentisse 10 la decima bastonata.

C. XXV — v. 34-45. In questi quattro ternari lo nostro autor finge che il Centauro, del quale disse di sopra, trapassasse e che venissono tre spiriti, nominando alcuno de’ compagni; et incomincia a trattar della seconda spezie de’ furi, e delle lor pene, dicendo: Mentre che sì parlava; cioè Virgilio, dicendo di Cacco, et el; cioè Cacco, trascorse; cioè passò oltre et uscì della fantasia dell’autore, ch’avea detto di lui quello che volea, E tre spiriti; chi fossono questi si dirà di sotto, vennor sotto noi; andando per la bolgia, come detto fu di sopra, che noi eravamo in su la ripa, De’ quai nè io; cioè Dante, nè il Duca mio; cioè Virgilio, s’accorse; e questo finge, perchè non [p. 646 modifica]erano persone ch’elli avesse conosciuto, nè che per scrittura avesse di loro avuto notizia, se non che li udì già nominare ad altrui Se non quando gridar; essi tre spiriti, dicendo a me et a Virgilio; Chi siete voi; cioè Virgilio e Dante? Perchè; cioè per la qual domanda di questi spiriti, nostra novella; cioè che Virgilio dicea di Cacco, si ristette; cioè si rimase, Et intendemmo pur ad essi poi; cioè Virgilio et io lasciammo la prima materia di Cacco, et intendemo 11 a trattare di questi tre spiriti e delli altri loro compagni. Io; cioè Dante, non li conoscea; finge questo Dante che non li conoscesse, perchè non erano stati nel suo tempo, nè erano uomini nominati dalli autori, ma el seguette, Come suol seguitar per alcun caso; ecco che poeticamente induce loro a nominarsi, Che l’un nominar l’altro convenette; ecco che dichiara in che modo si nominarono, Dicendo; cioè tra loro: Cianfa dove fia rimaso? Questi fu messer Cianfa de’ Donati da Firenze, lo quale fu diffamato 12 del peccato del furto; ma di quale spezie fosse non si dichiara per lo testo: imperò che non pone che pena avesse. Perch’io; cioè Dante, udendo nominare uno mio notabile cittadino, a ciò che il Duca stesse attento; cioè Virgilio, e notasse chi erano costoro: imperò che Virgilio significa la ragione, come più volte è già detto, e cautamente induce loro a nominar sè stessi, per non mostrare che sia elli quello che li nomini, Mi puosi il dito su dal mento al naso; questo è uno atto che l’uomo fa, quando vuole ch’altrui stia cheto et attento, quasi ponendo stanga e chiusura alla bocca.

C. XXV — v. 40-66. In questi sette ternari l’autor nostro comincia a trattare della pena de’ furi della seconda spezie, li quali sono abituati a esser furi e sempre pensano di furare; ma usano alcuna discrezione, non furando ogni cosa, nè a ognuno, nè in ogni luogo; e la pena di costoro finge l’autore che sia comunicarsi col serpente e farsi una cosa con lui, e dichiara nel testo il modo. E questa è conveniente pena a sì fatti furi: imperò che, siccome sempre ànno avuto l’animo del furare, e sempre ànno pensato di furare et ànnoci usato alcuna ragione; così stieno congiunti col serpente; cioè col demonio, che di ciò li à tentati sì, come sono congiunti con la sua fraude mentre che sono vivuti. Ma allegoricamente intende di quelli del mondo, i quali quando caggiono in tanta viltà d’animo, che si dispongano ad esser furi, si congiungono con la fraude per sì fatto modo, che sempre stanno con essa; et è sì mescolata la ragione umana con la fraude, che non si possono dire nè uomini, nè serpenti; e questa è l’intenzione dell’autore, e però vedremo il testo, toccando sempre l’allegorie ove fia bisogno. Dice adunque: Se tu se’ or, [p. 647 modifica]lettore, a creder lento; cioè se tu sarai tardo a credere, Ciò ch’io dirò; cioè quello, ch’io Dante dirò, non sarà maraviglia; et assegna la cagione: Chè io, che il vidi, appena il mi consento; di crederlo: e così fa lo lettore attento, promettendoli tacitamente di dire cose maravigliose. Com’io; cioè Dante, tenea levate in lor le ciglia; cioè stava attento a vedere ciò che facessono, Et un serpente; di quelli della bolgia che n’era tutta piena, con sei piè; finge che questo serpente avesse sei piedi quanto alla lettera, per mostrarlo abile a potersi fare uno col peccatore, sì che li due piedi d’inanzi s’aggiunsono con le braccia, e li due di retro con le cosce 13, e li due del mezzo col ventre, e il capo col capo, e la coda con lo schienale. Et allegoricamente dimostra che la fraude del furto s’aggiugne per sì fatto modo al furo, che tutto lo piglia: imperò che il capo s’aggiugne col capo, pigliando et occupando tutti li sentimenti umani che sono nel capo, come manifesto è; e li piedi d’inanzi s’aggiungono con le braccia, pigliando tutte l’opere umane significate per le braccia; e li piedi del mezzo s’aggiungono col ventre, pigliando tutti i pensieri umani che sono nel cuore significato per lo ventre e per lo imbusto; e li piedi di dietro s’aggiungono con le cosce e con le gambe e piedi, pigliando tutte l’umane affezioni che sono significate per li piedi; e la coda s’aggiugne con le reni, pigliando tutta la fortezza umana significata per le reni: e così si manifesta che l’umanità è tutta occupata da fraude significata per lo serpente, dandosi all’atto del furare; e però seguita, si lancia; cioè a dosso a quel peccatore, Dinanzi all’uno; di quelli tre che venuti erano, e tutto a lui s’appiglia; cioè s’appicca sì, che tutto lo peccatore occupa, come è mostrato di sopra. Coi piè di mezzo li avvinse la pancia; di quel peccatore lo serpente, E con li anterior; cioè piedi, le braccia prese; cioè lo serpente, del peccatore, Poi li addentò; cioè morse con la sua bocca aperta, e l’una e l’altra guancia; a quel peccatore. Li diretani; cioè piedi, alle cosce; del peccatore, distese; lo serpente, E miseli la coda; sua, cioè lo serpente, tra amendue; le cosce del peccatore, E dietro per le ren su la ritese; su in verso il capo la ritese; la sua coda lo serpente. E fa una similitudine che mai ellera non s’afferrò ad arbore, come questo serpente s’apprese a quel peccatore, dicendo: Ellera; questa è una erba che s’appicca alle mura et alli arbori, e stendesi per essi molto strettamente sì, che vi mette barbe e radice, abbarbacata mai non fue; cioè afferrata con 14 barbe, Ad arbor sì, come l’orribil fiera; cioè lo serpente, Per l’altrui membra; cioè di quel peccatore, avviticchiò; cioè avvolse come fa lo viticchio, che è una erba che s’avvolge alli [p. 648 modifica]arbori, le sue; cioè membra: Poi s’appiccar; lo serpente e l’uomo, come di calda cera Fossero stati; l’uno e l’altro, e mischiar lor colore; cioè l’umano col serpentino, et e converso, Nè l’un, nè l’altro già parea quel ch’era: imperò che in questi così fatti lo inganno si mescola sì con l’umanità, che l’uno non si può conoscere dall’altro. Come procede inanzi dall’ardore; fa qui una similitudine che, come quando arde la candela, innanzi che arda lo lucignolo sbianca 15, et escene uno fummo che va annerendo lo lucignolo, e poi si stende nell’annerato lo fuoco, et incendendolo s’arrossisce, e poi lo incenera et imbiancalo; così facea lo colore del serpente, che a poco a poco pigliava et occupava lo colore umano e la sua apparenzia, e poi lo copria lo colore serpentino, e l’ardore è cagione di quel colore 16 che n’era cagione lo serpente aggiunto, che offuscava lo colore dell’umanità; ma non in tutto: imperò che appariva alcuno colore d’umanità; e questo significa la discrezione, che pur rimane in sì fatti furi, che non furano ogni cosa, nè a ognuno, nè in ogni tempo, Per lo papiro; cioè lucignolo della candela, ovvero della lucerna, innanzi ch’arda, suso; cioè da quindi, onde incomincia lo fuoco, in suso in verso la punta, un color bruno, Che non è nero ancora; ma bene abbrunisce, poi et annerisce, e il bianco more; subito che il fuoco vi s’appiglia.

C. XXV — v. 67-78. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come i compagni nominarono quello congiunto col serpente, del quale fu detto di sopra, dicendo: Li altri; cioè li due compagni ch’erano venuti con lui, lo riguardavano; maravigliandosi della trasmutazione, e ciascuno Gridava: O me! Agnel, come ti muti! Ecco che poeticamente l’autore à indotto li compagni a nominare lo trasmutato, e finge l’autore che questi fosse messer Agnello de’ Brunelleschi da Firenze, lo quale non à mostrato di nominare elli, o perchè non fu noto di lui, o perchè non era sì onesto. Vedi che già non se’ nè due, nè uno; perchè la figura mostrava che fossono due, e lo corpo mostrava essere uno. E questa è fizione quanto alla lettera; all’allegoria s’intende che questi così fatti uomini non sono due: imperò che ciascuno è uno subietto: e non sono uno, perchè non tanto fanno opere d’uomo ragionevole; ma usano fraude di demonio sì, che sono uomini e demoni: uomini, usando alcuna discrezione, come detto è; dimoni, usando la sua fraude. Già eran li due capi; cioè l’umano e il serpentino, un divenuti; cioè fatto uno capo: imperò che una è la determinazione; cioè di furare e togliere con inganno, Quando n’apparver due figure miste; cioè l’umana e serpentina, In una faccia; [p. 649 modifica]cioè in una sentenzia 17 di furare era lo inganno del furto; e la ragione umana di non pigliare e furare ogni cosa: quanto alla lettera fu esposto di sopra questo, ov’eran due perduti; cioè perduta v’era la ragione, in quanto furava; e perduta v’era la fraude, in quanto non ogni cosa, nè in ogni tempo, nè a ogni persona. Fersi le braccia due di quattro liste; due erano le braccia et erano di quattro colori, perchè l’uno e l’altro aveano colore umano e serpentino; e questo significa che l’opere erano duplicate; cioè serpentine, in quanto l’usava lo inganno del furto; et umane, in quanto usava discrezione. Le cosce con le gambe, il ventre e il casso; cioè la parte pettorale ove è nell’animale del voito, per dare spazio e scialo al cuore; e però si chiama casso; cioè vano e voto, Divenner membra che non fur mai viste; sì che non somigliavano alcuna specifica figura sì, che mai non furono vedute ad alcuno animale; e questo significa che l’affezione e la volontà e li pensieri in tali uomini sono sì fatti, che mai non si comprendono. Ogni primaio aspetto vi era casso; cioè vano, Due; insieme, e nessun; di quelli due distintamente, la imagine perversa; cioè trasmutata, Parea; a chi la ragguardava, e tal sen gìa con lento passo; oltra per la bolgia. E qui finisce la prima lezione del canto vigesimo quinto: seguita la seconda lezione.

     Come il ramarro ec. Questa è la seconda lezione, nella quale l’autor nostro tratta della terza spezie del furto, e dividesi questa lezione in sei parti: imperò che prima pone come venne uno serpente e ferì l’altro de’ tre compagni; nella seconda induce certe similitudini di poeti, quivi: Taccia Lucano ec.; nella terza pone il modo come si trasformò lo serpente nell’uomo, e l’uomo nel serpente quanto dalle spalle in giù, quivi: Insieme si ripuoser ec.; nella quarta, come si mutarono dalle spalle in giù 18, quivi: L’un si levò ec.; nella quinta pone come innomina 19 lo serpente lo mutato, quivi: L’anima, ch’era ec.; nella sesta pone l’autore com’elli conobbe lo terzo di quelli tre ch’erano venuti, et il quarto che venne poi in spezie di serpente, quivi: Et avvegna che li occhi ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.

     Poi che messer Agnello fu congiunto col serpente, come detto fu di sopra, ecco venire uno spirito mutato in serpente; cioè di quattro piedi, in verso li altri due ch’erano rimasi, correndo come fa 20 lo ramarro quando passa dall’una siepe 21 all’altra, che corre come folgore la state quando attraversa la via: et era livido e nero quel serpente [p. 650 modifica]come il granello del pepe, e gittossi all’uno de’ due compagni che erano rimasi, e ferilli pungendoli il bellico, e cadde giù in terra dinanzi al ferito disteso. E lo spirito punto lo ragguardò e nulla disse; ma fermatosi lo ragguardava sbadigliando come se sonno o febbre l’assalisse: e il serpente ragguardava lui, et amendu’ fumavano forte, l’uno per la piaga e l’altro per la bocca, e li fumi si scontravano insieme. Et usa l’autore digressione, dicendo che nè Lucano o Ovidio, che usarono di porre trasformazioni, mai non le posono a questo modo che le porrà ora elli; cioè che due nature si mutino l’una nell’altra, cambiando le forme le loro materie. Et aggiugne lo modo, dicendo che il serpente fece della coda, dividendola 22, le gambe e li piedi umani; e l’uomo fece delle due gambe, unendole, la coda del serpente; all’uomo entrarono le braccia nelle ditella e scorciarono sì, che rimasono grandi, quanto si convenia al serpente; et al serpente crebbono le branche d’inanzi, quanto conveniano essere le braccia dell’uomo; e li piedi di rietro del serpente si giunsono insieme e fecesene lo membro umano generativo; e quello dell’uomo si fesse per mezzo e fecesene due piedi di serpente; poi lo serpente mise tutti li peli alle parti ove si convenia all’uomo, e l’uomo li gittò via; lo serpente poi si levò ritto, e l’uomo cadde giù carpone, come sta lo serpente; lo serpente del capo suo steso 23 stirò della lunghezza in verso le tempie tanto, che fece li orecchi umani, e dall’altro ch’era d’avanzo fece lo naso umano e le labbra 24, come si convenia ad uomo, e l’uomo stese lo muso a modo di serpente, e ritrasse li orecchi nella testa, come fa la lumaca le corna; e la lingua umana si fendè e diventò forcuta, e la lingua serpentina s’unie et allora restò lo fumare dell’uno e dell’altro; e l’uomo fatto serpente fugge fischiando, e il serpente fatto uomo parla e sputa. Poi si rivolse a quel ch’era rimaso, dicendo: Io voglio che Buoso corra carpone, come ò fatt’ io, per questa bolgia. E così dice Dante che vide la settima bolgia mutare e trasmutare, e scusasi che, se lo stile qui fosse scuro et intricato, ne sarebbe cagione la novità della materia. E dice che avvegna che li occhi suoi fossono confusi e l’animo smagato, quelli due; cioè l’uno ch’era rimaso delli tre che non era mutato; e l’altro che di serpente era fatto uomo, non poterono sì chiusi fuggire, ch’ elli non conoscesse che lo non mutato era messer Puccio Sciancato; e l’altro di serpente fatto uomo era messer Francesco de’ Cavalcanti, lo quale, o Gaville, ancora tu il piagni. Veduta la sentenzia litterale, ora è da vedere lo testo con le allegorie, o vero moralitadi. [p. 651 modifica]

C. XXV — v. 79-93. In questi cinque ternari l‘autor nostro finge come venne uno serpente, che ferì uno de’ due compagni ch’erano rimasi, et incomincia a trattare della terza spezie de’ furi che usano lo furto sanza alcuna discrezione, e fa una similitudine, prima dicendo: Come il ramarro25; che è un serpentello verde con quattro piedi, et ancora ne sono delli sprizzati e di colore nero, o vero bigio, sotto la gran fersa; cioè sotto la grande battitura, ponendo lo strumento per l’effetto: ferza e scuriata è una medesima cosa, et è lo strumento con che si batte lo cavallo, o vero li fanciulli, Dei di’ canicular; cioè quando signoreggia quella stella che si chiama canicula, la quale è una costellazione figurata in modo di cane, et à una stella in capo che per lo suo ardore si chiama Sirio, et un’altra n’à nella lingua che si chiama Cane: et è prossimana questa costellazione a quel segno del zodiaco che si chiama Tauro, e li mesi della state è suso nel centro del cielo; e però, quando lo sole s’accosta a lei ch’entra in Tauro, che è circa a mezzo aprile, allora incomincia lo caldo e comincia a molestare i corpi umani, e quanto più viene alla sua altezza, più cresce lo caldo, e secondo che si truova accompagnata, quando aopera infermitadi, quando pestilenzie, e quando niente, secondo che è vietata la sua malizia da la buona compagnia: e sono li di’ caniculari da di’ otto di luglio infino a di’ 13 di settembre, che sono in tutto di’ 64; nelli quali di’ non è buono a fare purgazione ai corpi umani, e però intende l’autore del detto tempo, quando dice: sotto la gran fersa Dei di’ canicular, cangiando siepe; cioè andando d’una siepe in un’altra, Folgore par: folgore è lo lampo che viene inanzi al tuono, il qual viene molto ratto, se la via attraversa: imperò che à paura d’essere preso, o morto da’ viandanti; Sì pareva; folgore, venendo verso l’epe; cioè verso lo ventre: con la pancia sì venia ratto, Delli altri due; peccatori ch’erano rimasi, un serpentello; cioè un piccolo serpente, acceso; di caldo e di veleno, Livido e ner come granel di pepe; e questo è Francesco dei Cavalcanti lo quale era mutato in quello, come apparirà alla fine del canto. Che l’autor finga questa pena alli furi della terza spezie, che l’uno mutato in serpente faccia mutar l’altro, et elli ritorni e poi ancora sia26 mutarsi fatto; e così avvicendevolmente facci l’uno mutar l’altro, come dice il testo, è conveniente pena a quelli così fatti correspondente a quel ch’ànno fatto nel mondo, che l’uno à insegnato la fraude del furare all’altro, o ànno dato esempro o ànno fatta compagnia in ciò, e furato a vicenda; cioè quando l’uno e quando l’altro; e però questo, che dice l’autore, si dee intendere al[p. 652 modifica]legoricamente di quelli del mondo. E quella parte, d’onde prima è preso Nostro alimento; cioè lo bellico27, come dicono li Naturali. Mentre che la creatura sta nel ventre della madre, piglia suo nutrimento per uno intestino che lo chiamano le donne la vite, lo quale intestino, o vero budello, è congiunto col bellico della creatura e questo, quando la creatura nasce, si lega al lato al ventre del feto et oltre di sopra la legatura si taglia, e così si spicca il feto dalla matrice sì, che mentre che sta lo feto nel ventre della madre, lo suo nudrimento piglia quindi e non altronde, nè per bocca, come piglia poi che è nato; e però, volendo l’autore dire lo bellico, lo descrive a questo modo, all’un di lor; cioè di quelli due ch’erano rimasi; cioè a messer Buoso Donati del quale si dirà di sotto, e l’altro era messer Puccio Sciancato, trafisse; cioè punse col suo dente lo bellico di messer Buoso. Che il serpente punga più tosto lo bellico, che altro membro, finge l’autore perchè il bellico significa concupiscenzia de’ diletti carnali, per li quali l’uomo s’induce a furare; che sia serpente fatto d’uomo significa che l’esempro che vede 28, e le parole che ode chi è abituato a furare dall’altro furo 29, lo peccatore imprende et inducelo a usare simile fraude. Poi cadde giù dinanzi a lui disteso; dice l’autore che, poi che il serpente in ch’era tornato messer Francesco, ebbe punto messer Buoso, cadde giù disteso dinanzi a lui; e per questo dà 30 intendere che messer Buoso, veduto l’esempro o udite le parole di messer Francesco, fatto serpente usando la fraude del furto, mossa la sua concupiscenzia a ciò, incominciò a considerare la fraude del furto, la quale giacea dinanzi alla sua fantasia giuso, perchè ancora non s’era deliberato di seguire, benchè n’avesse tentazione; e però finge l’autore che colui ancora si stava in terra serpente, et elli si stava ritto uomo ancora. Lo trafitto il mirò; cioè messer Buoso lo serpente ch’era in terra; cioè messer Francesco, ma nulla disse: imperò che la fantasia, quando non à lo intelletto diliberato, è legata sì che la lingua non parla, Anzi coi piè fermati; cioè fermata l’affezione, considerando la fraude del furto, sbadigliava, Pur come sonno o febre l’assalisse: lo sbadigliare è uno scialare d’increscimento, indotto da fame o da sonno o da travagliamento che l’uomo sente dentro, o da pensieri di tristizia; e cotale accrescimento 31 di tristo pensieri finge l’autore che fosse quello, che facea sbadigliare Buoso. Egli el serpente; cioè Buoso ragguardava lo ser[p. 653 modifica]pente, e quei; cioè il serpente, lui; cioè Buoso, ragguardava; cioè ponea mente. Per questo finge Dante che Buoso ponea mente la fraude del furto, per pigliarla; et ella ponea mente lui, per darlisi: imperò che il dimonio sta apparicchiato 32 a dare questa fraude a chi l’accetta, o vogliamo intendere che nel mondo l’uno avea preso esempro dall’altro a furare, o che l’uno avea indotto l’altro a furare, e che facessono a vicenda, come si dirà di sotto. L’un; cioè Buoso fummava forte, per la piaga; del bellico, e l’altro; cioè il serpente, per la bocca Fumava forte, e il fummo si scontrava; dell’uno e dell’altro insieme. Per questo significa l’autore che la volontà corrotta della concupiscenzia, ferita dalla fraude consente alla fraude, et accordasi insieme la volontà depravata, ch’è significata per lo fummo, con la ignoranzia e cechità 33 che genera la fraude, che è significata per lo fummo.

C. XXV — v. 94-102. In questi tre ternari l’autor nostro induce certe mutazioni recitate da’ poeti, per mostrare questa che à cominciata essere più mostruosa, che le dette da loro, dicendo così: Taccia Lucano. Questo Lucano fu poeta da Cordòva di Spagna, nipote del grande Seneca morale, che fece lo suo poema della discordia civile che fu tra Cesare e Pompeo; nel quale poema nel libro ix descrive lo cammino, che fece Catone con l’esercito per lo diserto di Libia, dov’era grandissima copia di serpenti; e finge che stando quello esercito nel diserto, et andando per quello e dormendo, avvenne caso che uno serpente, che è chiamato seps o sepe, punse la gamba d’uno cavaliere che si chiamava Sabellio; per la quale puntura finge Lucano che Sabellio distillasse tutto in umore, e convertissesi in quello umore non pure la carne; ma ancora l’ossa sì, che tutto si trasmutò in quello umore, niente rimanendo della umana effigie. E così finge che un altro serpente, che si chiama praester, pugnesse Nassidio che fu un altro cavalieri del detto esercito, lo quale enfiò tanto per la detta puntura, che perdè ogni figura umana, e parea come una botte, perduti tutti liniamenti del corpo umano; e benché Lucano in quella parte dica ancora delli altri, lo nostro autore fa pur menzione di questi due, dicendo: omai; cioè oggimai, dove si tocca; nel detto libro, Del misero Sabello e di Nassidio; li quali furono mutati per lui, com’appar di sopra, Et attenda a udir; cioè Lucano, quel, ch’or si scocca; cioè si narra per me Dante in quell’avvicendevole permutazione ch’io qui fingo: imperò che niuna delle sue è mostruosa, come è questa. Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio. Similmente vuol mostrare che Ovidio, che fece il libro delle trasmutazioni che si chiama Metamorfoseos, [p. 654 modifica]non ne puose veruna sì mostruosa; et imperciò fa menzione di due, che furono molto mostruose, le quali recita Ovidio predetto; cioè di Cadmo e d’Aretusa. Onde doviamo sapere che nel libro terzo della detta opera finge che Cadmo figliuolo del re Agenore di Sidonia, mandato per lo padre a cercare Europa sua figliuola, li comandò che non tornasse se non la ritrovasse, onde si rimase in Grezia 34; e come detto fu a lui, così alli altri due suoi fratelli; cioè Fenice dal quale fu detta Fenicia la contrada dove rimase, et a Cilice dal quale fu denominata Cilicia la contrada ove rimase. Questo Cadmo, pervenuto in Grezia, in una contrada che si chiama Boezia per lo bue che vi trovò quivi, ove edificò la detta citta, e volendola edificare, mandò i compagni per l’acqua alla fonte 35 chiamata Dirce e Castalio: quivi era uno serpente che, combattendo con loro tutti, li uccise; onde in ultimo v’andò elli e combattè col serpente et ucciselo; e moriendo lo serpente mise la voce: Tu sarai veduto serpente. Onde Cadmo prese li denti del serpente e seminolli, e nacquono d’essi denti uomini armati i quali combattendo insieme, tutti s’uccisono l’uno con l’altro, salvo che cinque i quali furono poi con Cadmo a edificare la città chiamata Tebe, de’ quali si truovano nominati due 36; Etion et Ogige. E fatta la città, subito crebbe in grande stato; ma dopo la felicità seguitò la miseria e le persecuzioni grandi, onde Cadmo credendo che quelle sciagure venissono tutte per la sua disavventura, come dice lo prefato autore nel quarto libro della detta opera, volendo liberare la patria, andò con la donna sua in Illiria; cioè in Ischiavonia; e pervenuto in una contrada, che v’è una città chiamata Enchelia, vedendo uno serpente, ricordatosi di quello che gli avea detto il serpente ch’elli uccise alla fonte 37 Castalio, ragguardandolo e dicendo: Or foss’io, come quel serpente, Cadmo fu mutato in serpente e similmente la moglie; e di questo fa menzione l’autor nostro. Finge ancora Ovidio nel detto libro quinto che Alfeo idio di uno fiume così chiamato, che è in Grezia appresso a una città chiamata Elis, s’innamorò d una ninfa chiamata Aretusa, la quale volendo servare verginità fuggiva da lui: un giorno d’istate essendo grande caldo, Aretusa si spogliò ignuda per bagnarsi nel detto fiume; onde finge Ovidio che Alfeo, com’ella fu nel fiume, la volle sforzare, ond’ella uscie ignuda del fiume et incominciò a fuggire ignuda dall’altra parte del fiume, che quivi ov’ella avea lasciato li vestimenti. E così [p. 655 modifica]finge che Alfeo uscisse del fiume e perseguitassela, ond’ella chiamò l’aiuto di Diana; et allora fu mutata dallo idio in fonte chiarissimo, e bellissimo, onde non potuto avere Aretusa, Alfeo dirizzò l’acque sue alla fonte d’Aretusa e mescololle con le sue, e fecesi uno fiume il quale, poi che fu mischiato, poco corso prese che fu absorto 38; cioè inghiottito dalla terra. E fingono li poeti che passi sotto il fondo del mare e passi in una isola che si chiamava Ortigia, e per altro nome Delo, e quivi ancora sia absorto 39; cioè inghiottito, dalla terra, e va per li meati della terra sotto il mare e riesce in Cicilia, e fa una 40 fonte che si chiama Aretusa; e però fa menzione l’autore nostro di questa mutazione, com’appare di sopra. Seguita lo testo: Chè se quello; Cadmo, in serpente; come detto è, e quella; cioè Aretusa, in fonte Converte poetando; come è mostrato, io; cioè Dante, non l’invidio; cioè Lucano ed Ovidio, perchè abbino fatte queste mostruose trasmutazioni: però ch’io l’ò fatte molto più mostruose di loro; et ecco che il dimostra: Chè due nature mai a fronte a fronte Non trasmutò; cioè in uno istante et in una trasmutazione nè Lucano, nè Ovidio, sì ch’amendue le forme; di quelle due nature, A cambiar lor materie fesson pronte; come ò mostrato io Dante nella detta trasmutazione di sopra narrata, et ancora seguita di sotto. Questa è fizione poetica, per mostrare l’allegoria che detta è: imperò che queste mutazioni sono impossibili, come appare alli uomini intendenti.

C. XXV — v. 103-120. In questi sei ternari l’autor nostro compie di narrare la detta trasformazione, ritornando alla detta materia, dicendo così: Insieme si rispuoser a tai norme; cioè a tali regole di mutamento l’uno all’altro; cioè l’uomo al serpente, e lo serpente all’uomo com’io dirò, Che il serpente la coda in forca fesse; facendo due gambe, E il ferito; cioè l’uomo, ristrinse insieme l’orme; cioè le pedate de’ piedi, e congiunse le gambe e fecene una coda di serpente, e però dice: Le gambe con le cosce; dell’uomo, seco stesse S’appiccar sì; cioè per sì fatto modo, che in poco; cioè in poco tempo, la giuntura Non facea segno alcun che si paresse: sì era congiunta e consolidata. Togliea la coda fessa; del serpente, che se ne facea due gambe, la figura; cioè umana, Che si perdeva là; cioè nell’uomo: imperò che le gambe con le cosce diventarono coda, e la sua pelle; cioè della coda del serpente, Si facea molle, perchè diventavan gambe umane, e quella di là; cioè dell’uomo, dura; si facea, s’intende, perchè diventavano le gambe umane coda di serpente. Io vidi; cioè all’uomo, entrar le braccia per l’ascelle; cioè per le ditelle, e diventar corte come si convenia a serpente, E i due piè della fiera; [p. 656 modifica]cioè del serpente, ch’eran corti, Tanto allungar; vidi’io Dante, quanto accorciavan quelle; cioè dell’uomo. Poscia li piè di retro insieme attorti; cioè del serpente, Diventaron lo membro che l’uom cela; cioè lo membro virile, E il misero; cioè l’uomo, del suo n’avea; cioè membro, due; cioè piedi, porti; cioè stesi, quanto si convenia a serpente. Mentre che il fumo; ch’uscia dalla ferita e della bocca del serpente, l’uno e l’altro vela; cioè lo serpente e l’uomo cuopre, Di color nuovo: però che l’uomo pigliava color di serpente, e lo serpente colore d’uomo, e genera il pel suso; cioè nelle parti umane dove dè essere al serpente che si facea uomo, Per l’una parte; cioè dalla parte del serpente, e dall’altra; cioè parte umana, che diventava serpente, dipela; cioè perdea lo pelo, perchè lo serpente non à peli.

C. XXV — v. 121-135. In questi cinque ternari l’autor nostro seguita e compie la cominciata trasmutazione, dicendo: L’un; cioè lo serpente che diventava uomo, si levò; cioè in piedi, e l’altro; cioè l’uomo che diventava serpente, cadde giuso; cioè boccone in terra, Non torcendo però; benché fosse caduto giù, e colui levato, le lucerne empie; cioè li occhi, coi quali l’uno ragguardava l’altro, Sotto le quai; cioè lucerne, ciascun cambiava muso; cioè naso e volto. E qui è da notare che l’autore dimostra qui l’allegorico intelletto, ch’elliebbe in questa trasmutazione, ponendo che per lo ragguardare l’uno l’altro, l’uno si trasmutasse nell’altro: imperò che ragguardare l’uno l’altro non è altro che pigliare esempro dall’altro sì, che l’uno lo piglia in bene, l’altro in male; cioè vedendo messer Buoso la fraudulenzia di messer Francesco nell’atto del furare, venneli in cuore d’usarla et usolla; et a questo modo diventò serpente: e vedendo messer Francesco la vita di messer Buoso esser semplice e ragionevole, come d’uomo ragionevole si dispose a lasciarla, e lasciolla per alcuno tempo e così diventò uomo; ma perchè poi ancora vi ricadea, come messer Buoso se ne cessava, però finge l’autore che facesse trasmutazione nell’altro avvisandosi, per mostrare allegoricamente la vicendevole mutazione ch’era stata nel mondo tra loro e li loro pari: imperò che, benché sempre sieno abituati a furare e sempre lo desiderino; pur alcun tempo stanno che non furano, forse tanto quanto basta e dura lo furato, et intanto si dimostrano con li atti di fuori e col parlare e con altre viste uomini ragionevoli: e li altri vedendo godere costoro, si mettono a furare per esempro di costoro; e così diventono serpenti, usando le fraudi intorno al furto. Quel ch’era dritto; cioè il serpente che si faceva uomo, il trasse in ver le tempie; cioè ritrasse lo muso steso in lungo 41 a dietro a fare le [p. 657 modifica]tempie e divenne faccia d’uomo, E di troppa materia che là venne; cioè alle tempie, Uscir li orecchi; cioè umani, dalle gote scempie; cioè semplici; cioè pur dalle gote e non d’altro: Ciò che non corse in dietro; della materia del muso, ei; cioè lo muso, si ritenne, Di quel soverchio; cioè che quivi rimase, fe naso alla faccia; che diventava umana, E le labbra ingrossò; questo dice, perchè il serpente l’à sottili, quanto convenne; ingrossare a labra 42 d’uomo. Quel che giacea; cioè l’uomo che diventava serpente, lo muso innanzi caccia; e stendelo come l’à il serpente, E li orecchi ritira per la testa; cioè dentro nella testa, Come face le corna la lumaccia; fa comperazione che, come la lumaca, o vero chiocciola, che nasce di limaccio d’acqua, stende dalla testa sua due, che paiono corna e ritirale dentro; così l’uomo, diventato serpente, ritirò li orecchi umani dentro dalla testa, e rimasono li buchi, come al serpente: E la lingua, che avea unita e presta Prima a parlar; cioè l’uomo, si fende; e diventa forcuta, come dee essere quella del serpente, e la forcuta; cioè quella del serpente, Nell’altro si richiude; cioè nel serpente che diventa uomo, diventa unita, e il fummo resta; cioè non fumma più, nel serpente per la bocca che è diventato uomo 43 diventa unita; nell’uomo che è diventato serpente per la piaga. Due cose à finto l’autore essere cagione della trasmutazione; cioè lo ragguardare l’uno l’altro, e questo fu sposto di sopra; et ora cautamente dimostra che l’altra sia lo fummare e lo riscontrare del fummo. E per questo vuole dimostrare che l’oscurità dell’ignoranzia ch’è nelli uni e nelli altri, che si trasmutano al modo detto di sopra, s’accorda insieme ad offuscare lo intelletto delli uni e delli altri: imperò che l’uomo che si mette a furare, procede da poco sapere e da oscurità d’ignoranzia; e che l’uomo se ne rimanga alcun tempo con la opera, ma non col pensieri, anche procede da oscurità d’ignoranzia; e che li fummi si scontrino insieme, significa che pari oscurità d’ignoranzia è l’una e l’altra; che il fummo resti, quando la trasmutazione è compiuta, e duri mentre che si fa, significa che mentre che si 44 sta in quello pensieri, l’oscurità dell’ignoranzia accieca lo intelletto; e quando è compiuta la deliberazione, non s’affatica più lo pensieri sopra ciò; e così cessa l’accecare dell’intelletto e lo impacciare 45 che non discerna lo vero.

C. XXV — v. 136-144. In questi tre ternari l’autor nostro, compiuta la trasmutazione 46 delle sopradette due forme, confermala per li effetti, dicendo: L’anima; cioè di messer Buoso, ch’era fiera divenuta; cioè ch’era divenuta serpente, Sufolando; questo è atto propio [p. 658 modifica]del serpente; e dicono li Naturali che questo addiviene per la lingua biforcuta, onde quando fischia muove sempre la lingua e così genera lo fischio dibattendo l’aere col suo fiato, et interrompendo, si fuggì per la valle; della bolgia, E l’altro; cioè messer Francesco, che di serpente era tornato uomo, dietro a lui; cioè a messer Buoso, ch’era fatto serpente, parlando sputa; questi sono atti propi dell’uomo: niuno altro animale parla e sputa se non l’uomo, come niun altro animale sufola 47 se non lo serpente; e questo vuole l’autor dimostrare che il serpente verisimilmente era trasmutato in uomo e l’uomo in serpente. Poscia li volse; cioè messer Francesco, fatto uomo, si volse verso il compagno rimaso, che non era mutato, e volse le spalle a messer Buoso ch’era fatto serpente; e però dice le novelle spalle; cioè fatte di nuovo: però che prima era serpente e non avea spalle umane. E veramente mettendomi a congetturare, io penso non perch’io n’abbia trovato niente da altrui, che l’autore volle dimostrare che tra messer Buoso e messer Francesco fosse fatta compagnia di furare, mentre che furono in questa vita, e che furassono 48 a vicenda ora l’uno et ora l’altro; e però l’autore, per dimostrare questo allegoricamente, abbia fatta la detta fizione: et a chi non piace questo intendimento, pigli li altri che sono detti di sopra. E disse all’altro; cioè a messer Puccio Sciancato, ch’era rimaso che non era mutato, che forse fu di loro compagnia; ma non andava a furare, benché consentisse e participasse con loro; e però finge che non era mutato: Io; cioè messer Francesco, vuo’ che Buoso; cioè voglio che messer Buoso, del quale fu detto di sopra, corra; fatto serpente, Com’ò fatt’io; cioè messer Francesco, carpon; cioè boccone, per questo calle; cioè per questa bolgia. Così vid’io; cioè Dante, la settima zavorra; cioè la settima bolgia ov’erano li furi, Mutare; d’una figura in un’altra, e trasmutare; cioè avvicendevolmente or l’uno, or l’altro, e qui mi scusi; dice l’autore che per la novità della materia dee essere scusato; e però dice: La novità; cioè della materia, se l’autore à usato le mutazioni qui e non altrove 49, non’è maraviglia: imperò che li furi sono quelli che più si 50 trasfigurano ch’altra gente, per non essere conosciuti, come finge Ovidio, Metamorfoseos, se fior la penna; cioè se alquanto lo scriver mio e il modo del dire, aborra; cioè acciabatta e non dice così ordinato, come altrove, nè così a punto; et ancora similmente scusi me Francesco da Buti, sopra detto esponitore del detto autore, se io non avesse esposto questo passo, tanto pienamente al piacere delli lettori. [p. 659 modifica]C.XXV— v. 145-151. In questi due ternari e uno verso il nostro autore manifesta quelli che non era mutato, e lo mutato di serpente in uomo circunscrive, dicendo: Et avvegna che li occhi miei; parla di sè l’autore, confusi Fossono alquanto; vedute le soprascritte mutazioni e trasmutazioni, è l’animo smagato; cioè cambiato e mancato 51 della sua prespicacità e sottigliezza, che bisognava che fosse e dovea essere, vedendo et avendo a trattar cose oltre a natura. E questo finge per mostrare che li uomini si stupefanno 52, maravigliandosi delle fraudi de’ furi, Non poter quei; cioè lo mutato di serpente in uomo, e l’altro ch’ancor non era mutato, fuggirsi tanto chiusi; e per questo finge l’autore ch’essi fuggissono chiusi, per non esser conosciuti da lui; et in questo si manifesta la condizione del furo, che sempre cerca d’occultarsi, Ch’io non scorgessi ben Puccio Sciancato; questi fu cavalieri e fu fiorentino come li altri, Et era quel che sol de’ tre compagni, Che venner prima; come appar di sopra, non era mutato; in alcuno modo, come appare di sopra: L’altro era quel, che tu, Gaville, piagni. Qui circunscrive lo mutato di serpente in uomo, che fu messer Francesco de’ Cavalcanti che fu morto da quelli di Gaville, ch’è uno castello di Fiorenza, per ingiurie ch’avea fatte loro, onde li Cavalcanti poi n’uccisono assai di loro in vendetta di lui; e però dice l’autore che tu, Gaville, piagni. E qui finisce lo canto xxv: seguita lo xxvi canto.

Note

  1. C. M. non t’avacci d’ardere
  2. C. M. che affogava chiunque
  3. In su quello di Pistoia. È questo uno de’ bei modi ellittici di nostra lingua, comune ai nostri Classici e al popolo toscano; e sempre vi è sottinteso contado, terreno, territorio. E.
  4. Sallustio dà ad e suoi a Sallustio, et è come stava l’esempio: chi scrisse gli parve fare meglio, come fe pure. Ciò posto, questo il quale — Queste parole riferite nel nostro Codice, sonosi messe qui, perchè sembrano del copista, o non appartenenti al Commentatore. E.
  5. Qui grammatico vale appartenente alla lingua latina. E.
  6. C. M. è a cavallo
  7. C. M. seppe sciogliere,
  8. Parecchi fu adoperato nel plurale dagli antichi in ambi i generi, seguendo anche in ciò i Latini, i quali davano a’ nomi della terza coniugazione una duplice desinenza nel numero maggiore: naves, navis; omnes, omnis. E.
  9. Prossimano; in antico, ed al presente si dice meglio prossimo, vicino. E.
  10. C. M. che ricevesse la decima
  11. C. M. intendemmo a
  12. C. M. fu disfamato
  13. C. M. con le gambe, e li due
  14. C. M. afferrata come barbe,
  15. C. M. sbianca, e poi si stende nell’annerato il bianco, e poi incendendolo l’arrossisce, e poi lo incenera et imbiancalo, e fa uno fummo che va annerando lo lucignolo; così facea
  16. C. M. colore che non è anco nero; ma pure tollie il bianco, così venia uno colore che n’era cagione
  17. C. M. sentenzia e determinazione di
  18. C. M. in su, quivi:
  19. Innominare torna lo stesso che nominare. Il Volgarizzatore d’Albertano Giudice, in luogo di narrare, scrisse «appena tel potrei innarrare» E.
  20. C. M. fa lo rogio quando
  21. C. M. dall’una sciepe all’
  22. C. M. dividendola in le gambe
  23. C. M. steso uscitte della lunghezza
  24. C. M. lo naso umano e la barba, come si conviene ad omo,
  25. C. M. il ramarro; cioè lo rogio, che è uno serpente verde
  26. C. M. sia fatto mutarsi;
  27. I moderni anatomici e fisiologi ànno abbandonata l’opinione degli antichi, i quali insegnavano la vena ombellicale essere la sola via, onde la genitrice trasmette al feto il nutrimento. E.
  28. C. M. l’esemplo che vede, e le opere che ode
  29. C. M. dell’altro furo lo corrompe et inducelo ad usare
  30. C. M. dà ad intendere
  31. C. M. increscimento
  32. C. M. apparecchiato
  33. C. M. ciechità
  34. C. M. in Grecia — Grezia e Grecia pel consueto cambio del c in z, come offizio e officio, prenze e prence. Dante in una ballata disse lazzo per laccio, e il Petrarca in un matrigale trezze per treccie. E.
  35. C. M. al fonte chiamato
  36. C. M. si trova nominati due; cioè Enchion et Ogige.
  37. C. M. alla fontana
  38. C. M. assorpto dalla
  39. C. M. ancora s’assorbe dalla
  40. C. M. uno fonte
  41. C. M. in lungo adatto a fare le tempie, per diventare faccia d’uomo,
  42. C. M. alle labbra
  43. C. M. uomo nell’uomo
  44. Da-fa-a mentre che si - è correzione del Cod. M. E.
  45. C. M. lo compiacere che
  46. C. M. la trasformazione
  47. C. M. animale sibila se non
  48. C. M. che fusseno a
  49. C. M. non altro, non
  50. C. M. quelli che simulano, per non essere
  51. C. M. cambiato emulato della sua perspicacità, che dovea essere vedendo cose oltra natura.
  52. C. M. li omini si spaventino e meravigliansi delle fraudulenzie dei furi,


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