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C A N T O XXV.
1Al fine delle sue parole il ladro
Le mani alzò con ambedue le fiche,
Gridando: Togli, Idio, che a te le squadro.1
4Da indi in qua mi fur le serpi amiche,2
Perch’una li s’avvolse allora al collo,
Come dicesse: I’ non vo’ che più diche;3
7Et un’altra alle braccia, e rilegollo,
Ribadendo sè stessa sì d’inanzi,4
Che non potea con esse dare un crollo.5
10Ah Pistoa, Pistoa! che non stanzi
D’incenerarti, sì che più non duri,
Poi che in mal far lo seme tuo avanzi?6
13Per tutti i cerchi dello Inferno scuri
Non vidi spirto in Dio tanto superbo,7
Non quel, che cadde a Tebe giù da’ muri.
16Ei si fuggì, che non parlò più verbo;
Et io vidi un Centauro pien di rabbia
Venir gridando: Ov’è, ov’è l’acerbo?
- ↑ v. 3. C. M. Tolle, Idio,
- ↑ v. 4. C. M. mi fur le serpi
- ↑ v. 6. C. M. dicesse: Non vo’ che tu diche; - Diche per dica o dichi: in antico tutte le persone singolari al congiuntivo cadevano in e. E.
- ↑ v. 8. C. M. Ribattendo
- ↑ v. 9. C. M. grollo.
- ↑ v. 12. C. M. in mal far il seme
- ↑ v. 14. Spirto non vidi in Dio