Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXIV
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventiquattresimo
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CANTO XXIV.
1In quella parte del giovanetto anno,
Che il Sole i crin sotto l’Aquario tempra,
E già le notti a mezzo di’ sen vanno;1
4Quando la brina in su la terra assempra
L’imagine di sua sorella bianca,
Ma poco dura alla sua penna tempra;
7Lo villanello, a cui la robba manca,
Si leva e guarda, e vede la campagna
Biancheggiar tutta, ond’ei si batte l’anca:
10Ritorna in casa, e qua e là si lagna,
Come il tapin che non sa che si faccia;2
Poi riede, e la speranza il ringavagna,3
13Veggendo il mondo aver cangiata faccia
In poca d’ora; e prende suo vincastro,45
E fuor le pecorelle a pascer caccia;
16Così mi fece sbigottir lo Mastro,
Quand’io li vidi sì turbar la fronte,
E così tosto al mal giunse lo impiastro:
19Che come noi venimo al guasto ponte,
Lo Duca a me si volse con quel piglio
Dolce, ch’io vidi in prima a piè del monte.6
22Le braccia aperse, dopo alcun consiglio
Eletto seco, riguardando prima
Ben la ruina, e diedemi di piglio.7
25E come quei che adopera et estima,
Che sempre par che inanzi si proveggia;
Così, levando me su per la cima8
28D’un ronchione, avvisava un’altra scheggia,
Dicendo: Sopra quella poi t’aggrappa;
Ma tenta pria se è tal ch’ella ti reggia.9
31Non era via da vestito di cappa,
Che noi a pena, ei lieve et io sospinto,
Potavam su montar di chiappa in chiappa.1011
34E se non fosse, che di quel procinto,
Più che dell’altro, era la costa corta,
Non so di lui; ma io sarei ben vinto.
37Ma perche Malebolge in ver la porta
Del bassissimo pozzo tutta pende,
Lo sito di ciascuna valle porta,
40Che l’una costa surge e l’altra scende:
Noi pur venimo al fine in su la punta,
Onde l’ultima pietra si scoscende.
43La lena m’era del polmon sì munta
Quand’io fui su, ch’io non potea più oltre,
Anzi m’assisi nella prima giunta.
46Omai convien che tu così ti spoltre,
Disse il Maestro: chè seggendo in piuma,
In fama non si vien, nè sotto coltre,
49Sanza la qual chi sua vita consuma,
Cotal vestigio in terra di sè lascia,
Qual fummo in aere et in acqua la schiuma.
52E però leva su, vinci l’ambascia
Con l’animo che vince ogni battaglia,
Se col suo grave corpo non s’accascia.
55Più lunga scala convien che si saglia:
Non basta da costoro esser partito;
Se tu m’intendi, or fa sì che ti vaglia.12
58Leva’ mi allor, mostrandomi fornito
Meglio di lena, ch’io non mi sentia;
E dissi: Va, ch’io son forte, et ardito.
61Su per lo scoglio prendemmo la via,
Ch’era ronchioso, stretto e malagevole,
Et erto più assai che quei di pria.13
64Parlando andava per non parer fievole;
Et una voce uscì dell’alto fosso,14
A parole formar disconvenevole.
67Non so che disse, ancor che sopra al dosso
Fossi dell’arco già, che varca quivi;
Ma chi parlava ad ira parea mosso.
70Io era volto in giù; ma li occhi vivi
Non potean ire al fondo per l’oscuro;
Perch’io: Maestro, fa che tu arrivi
73Dall’altro cinghio, e dismontiam lo muro:
Che come io odo quinci, e non intendo;
Così giù veggio, e niente affiguro.
76Altra risposta, disse, non ti rendo,
Se non lo far; chè la domanda onesta
Si dee seguir con l’opera, tacendo.
79Noi discendemmo il ponte dalla testa,
Dove s’aggiugne con l’ottava ripa,
E poi mi fu la bolgia manifesta:
82E vidivi entro terribile stipa
Di serpenti, di sì diversa mena,
Che la memoria il sangue ancor mi scipa.
85Più non si vanti Libia con sua rena:
Chè, se chelidri, iaculi e faree15
Produce, e chencri con anfisibena;
88Nè tante pestilenzie, nè sì ree
Mostrò già mai con tutta l’Etiopia,
Nè con ciò che di sopra al mar rosso ee.16
91Tra questa cruda e tristissima copia17
Correvan genti nude e spaventate,
Sanza sperar pertugio o elitropia.1819
94Con serpi le man dietro avien legate;
Quelle ficcavan per le ren la coda
E il capo, et eran dinanzi aggroppate.
97Et ecco ad un, ch’era da nostra proda,
S’avventò un serpente, che il trafisse
Là dove il collo alle spalle s’annoda.
100Ne Ο sì tosto mai, nè Ι si scrisse,
Com’ei s’accese et arse, e cener tutto20
Convenne che cascando divenisse:
103E poi che fu a terra sì destrutto,
La polver si raccolse per sè stessa,
E in quel medesmo ritornò di butto.21
106Così per li gran savi si confessa,
Che la Fenice muore e poi rinasce,22
Quando al cinquecentesimo anno appressa.
109Erba, nè biado in sua vita non pasce;23
Ma sol d’incenso lagrime et amomo;
E nardo e mirra son l’ultime fasce.
112E quale è quei che cade, e non sa como,24
Per forza di demon ch’a terra il tira,
O d’altra opilazion che lega l’uomo,25
115Quando si leva, che intorno si mira,
Tutto smarrito della grande angoscia26
Ch’elli à sofferta, e guardando sospira;
118Tale era il peccator levato poscia.
O potenzia di Dio, quanto è severa,
Che cotai colpi per vendetta croscia!
121Lo Duca il domandò poi, chi egli era;
Perch’el rispuose: Io piovi di Toscana,27
Poco tempo è, in questa gola fiera.
124Vita bestial mi piacque, e non umana,
Sì come a mul ch’io fui: son Vanni Fucci
Bestia, e Pistoia mi fu degna tana.28
127Et io al Duca: Dilli che non mucci,
E domanda qual colpa qua giù il pinse:
Ch’io il vidi uom già di sangue e di corrucci.
130E il peccator, che intese, non s’infinse;29
Ma drizzò verso me l’animo e il volto,
E di trista vergogna si dipinse.
133Poi disse: Più mi duol, che tu m’ài colto
Nella miseria dove tu mi vedi,
Che quando fui dell’altra vita tolto.
136Io non posso negar quel che tu chiedi:
In giù son messo tanto, perch’io fui
Ladro alla sacrestia de’ belli arredi;
139E falsamente già fu apposto altrui.
Ma perchè di tal vista tu non godi,
Se mai sarai di fuor de’ luoghi bui,30
142Apri li orecchi al mio annunzio, et odi:
Pistoia pria de’ Negri si dimagra;31
Poi Fiorenza rinnuova genti e modi.
145Tragge Marte vapor di Val di Magra,
Che di torbidi nuvoli è involuto,32
E con tempesta impetuosa et agra32
148Sopra campo Picen fia combattuto;
Ond’ei repente spezzerà la nebbia,33
Sì ch’ogni Bianco ne sarà feruto;
151E detto l’ò, perchè doler ti debbia.34
- ↑ v. 3. C. M. al mezzo di’
- ↑ v. 11. C. M. Come tapin
- ↑ v. 12. C. M. la speranza irringavagna,
- ↑ v. 14. C. M. In poco d’ora;
- ↑ v. 14. In poca d’ora. Maniera ellittica; cioè in poca durata, in poca quantità d'ora. E.
- ↑ v. 21. C. M. vidi prima
- ↑ v. 24. C. M. diemmi poi di piglio,
- ↑ v. 27. C. M. su ver la cima
- ↑ v. 30. reggia. In antico nell’indicativo si disse reggio, traggio, e fuggio; e quindi reggia, traggia, e fuggia nel congiuntivo, come anch’oggi proferisce il popolo della Toscana. E.
- ↑ v. 33. C. M. Potevam
- ↑ v. 33. Chiappa; pietra, come odesi tutto di’ in quel di Genova. E.
- ↑ v. 57. C. M. fa che sì ti vaglia.
- ↑ v. 63. quel di pria.
- ↑ v. 65. C. M. Unde una voce
- ↑ v. 86. C. M. O che se lidri,
- ↑ v. 90. ee. In antico la seconda persona singolare del presente indicativo nel verbo primitivo essere fu e, poscia ei, dal latino es; e quindi naturalmente ee nella terza singolare, che pur vive nella Toscana. E.
- ↑ v. 91. Tristissima copia; crudelissima copia. E.
- ↑ v. 93. C. M. pertusio
- ↑ v. 93. L’elitropia presso gli antichi fu creduto rendesse gli uomini invisibili. E.
- ↑ v. 101. C. M. Arse, cui cener tutto
- ↑ v. 105. C. M. E quel medesmo
- ↑ v. 107. C. M. lo Fenice
- ↑ v. 109. C. M. biada
- ↑ v. 112. Como; derivato dal latino quomodo, presso gli antichi frequente in verso e in prosa. E.
- ↑ v. 114. C. M. oppilazion
- ↑ v. 116. C. M. per la grande
- ↑ v. 122. Io piovi; ora piovvi nel perfetto, è la naturale piegatura dell’infinito piovere, come sarebbe altresì bevi da bevere, e movi da movere; ne’ quali tutti potrebbe dirsi che viene sotratta l’ e, piovei, bevei. L’uso vuole che ne’ primi due si raddoppi il v, affine di cessare ogni equivocazione, e all’altro dà una diversa cadenza. E.
- ↑ v. 126. C. M. a me fu degna tana.
- ↑ v. 130. C. M. non si finse;
- ↑ v. 141. C. M. fuor da’ luoghi
- ↑ v. 143. C. M. in pria de’ Neri
- ↑ 32,0 32,1 v. 146-7. C. M. Che da turbidi nuvoli involuto, E con tempesta
- ↑ v. 149. C. M. spesserà
- ↑ v. 151. C. M. E dicolo, perchè
COMMENTO
In quella parte ec. In questo canto xxiv l’autor nostro intende di trattare della vii bolgia ov’elli finge che si punisca il peccato del ladroneggio, e non si compie di trattare d’esso in questo canto; e dividesi questo canto principalmente in due parti, perchè prima pone come uscirono della sesta bolgia1, in sul ponte della settima pervenendo; nella seconda, come discesono in su la ripa, quivi: Noi discendemmo il ponte ec. La prima, che farà la prima lezione, si divide in sette parti: imperò che prima fa l’autore una similitudine; nella seconda adatta la similitudine, quivi: Così mi fece ec.; nella terza dimostra come Virgilio lo pose fuori della sesta bolgia, quivi: E come quei che adopera ec.; nella quarta manifesta l’abilità dell’uscire, quivi: E se non fosse ec.; nella quinta si pone una bella riprensione 2 con esortazione fitta a lui da Virgilio, quivi: Omai convien ec.; nella sesta, come usciti della bolgia, presono il cammino, quivi: Leva’mi allor ec.; nella settima priega Virgilio di discendere in dell’altra ripa, per veder meglio la continenzia di quella bolgia, quivi: Io era volto in giù ec. Divisa dunque la lezione, è da vedere la sentenzia litterale, la quale dice così:
Come nel mese di gennaio, quando il sole è sotto quel segno che si chiama Aquario, e già le notti cominciano a mancare a noi e crescere a coloro che sono di là dal circulo meridiano, quando la brinata in sulla terra assomiglia la imagine della sua sorella bianca; cioè della neve; ma poco dura; lo contadino, a cui manca la roba, si lieva e guarda e vede la campagna tutta biancheggiare, ond’elli si batte l’anca dolendosi, e ritorna in casa lamentandosi, come tapino che non sa che si faccia; e poi tornato fuori piglia buona speranza, vedendo il mondo aver cambiato faccia in poco d’ora, perchè la brinata è sparita e strutta per lo sole, e piglia suo bastone e caccia fuori le pecorelle a pascere; così mi fece sbigottire Virgilio, quando li vidi sì turbare la fronte, e così tosto venne, o vero e’ giunse lo conforto 3 allo sbigottimento: imperò che come noi venimo al guasto ponte, Virgilio si volse a me con quella faccia dolce, ch’io Dante vidi prima al piè del monte. E poi ch’ebbe presa alcuna deliberazione, aperse le braccia e presemi, guardando bene prima la ruina; e come colui ch’adopera et estima e sempre pare che innanzi si provegga; così levando me Dante in ver la cima d’uno ronchione 4, avvisava un’altra scheggia dicendo: Poi t’agrappa sopra quella; ma tenta prima, s’ella è tale che ti reggia. Certo quella non era via de’ vestiti della cappa detta di sopra, che noi appena; cioè Virgilio lieve ch’era spirito, et io Dante sospinto da lui, potavamo montar su di pietra in pietra. E se non fosse che quella ripa non era sì alta, come le altre passate, io non so di Virgilio; ma io Dante sarei ben vinto 5; ma perchè lo cerchio ottavo, nel quale sono le male bolgie, inchina tutto in verso il nono che è come un pozzo: tanto strigne, ciascuna bolgia è situata a questo modo, che la ripa d’entro sempre è più bassa che quella d’intorno. Et aggiugne che con questa fatica elli giunsono in sulla punta della ripa, onde si scende poi nell’argine; e dice che quando fu sue, la lena del polmone gli era sì monta, che non potea ire più oltre, anzi si pose a sedere nella prima giunta. Et allora Virgilio li disse: Oggimai 6 convien che tu ti spoltronischi a questo modo: imperò che, sedendo in piuma o sotto coltre, non si viene in fama, sanza la quale chi consuma la vita sua, lascia in terra cotale vestigio di sè, quale lascia lo fummo nell’aere e la schiuma nell’acqua; e però lieva su, vince 7 l’ambascia con l’animo che vince ogni battaglia, se non si pone giù col suo grave corpo; e’ ti convien salire scala più lunga: non basta essere partito da costoro; se tu m’intendi, or fa sì che ti vaglia. Allora dice Dante che si levò, mostrandosi fornito meglio di lena, che non si sentia; e disse a Virgilio: Or va, ch’io sono forte et ardito; e dice che presono la via su per lo scoglio, che valicava la settima bolgia e dice che lo scoglio era ronchioso, erto, stretto e malagevole, et era8 più assai che quel di prima. Et aggiugne Dante che andava parlando per non parere fievole, onde dice ch’uscì una voce dell’alto fosso, a formar parole sconvenevoli; e dice che non sa ciò che dicesse, benchè fosse sopra il dosso dell’arco che valicava quivi; ma ben parea che chi parlava fosse mosso da ira; et aggiugne ch’era volto in giù; ma li occhi non poteano andare al fondo per lo scuro; per la qual cosa disse a Virgilio: Fa che tu arrivi dall’altro cinghio, e dismontiamo lo muro: che com’io odo quinci e non intendo; così giù veggio e niente affiguro. Et allora disse Virgilio: Altra risposta non ti do, se non il fare: chè la domanda onesta si vuole 9 seguire con l’opera tacendo. E qui finisce la sentenzia litterale: ora è da vedere lo testo con l’allegorie e moralitadi.
C. XXIV — v. 1-15. In questi cinque ternari l’autor nostro finge, incominciando il xxiv canto, una bella similitudine con descrizione del tempo secondo l’astrologia, dicendo così: In quella parte del giovanetto anno; parla qui l’autore dell’anno a similitudine dell’etadi dell’uomo, non di tutte; ma di quattro 10 tempi; cioè in primavera, estate, autunno e verno, ponendo che la primavera sia simile alla adolescenzia: però che come l’uomo cresce; così le cose che produce la terra escono fuori e crescono; così li giorni ancora cominciano a crescere: e come l’adolescenzia è età calda et umida; così è la primavera: e la state si è simile alla giovanezza: l’uomo è forte; così tutte l’erbe e le piante uscite fuori della tenerezza vegnano nella durezza: e come l’uomo dura e consiste nelle sue vigorosità e pone fine al crescere; così la state quasi li di’ stanno in uno essere di grandezza infino11 al solstizio estivale: e come la giovanezza è calda e secca; così la state: e l’autunno si è simile alla virilità: imperò che come l’uomo è venuto nella virilità et intende ai guadagni, onori et amistadi et alle cose fruttuose; così l’autunno dà li frutti delli arbori e gitta giù le frondi, come l’uomo gitta giù li giuochi e li trastulli: e come la virilità è fredda e secca; così è l’autunno: e lo verno è simile alla vecchiezza: imperò che come il vecchio è inabile all’opere; così lo verno è spogliato di tutti i frutti: e come il vecchio s’inchina e manca del suo corpo; così lo verno mancono li giorni: e come il vecchio è freddo et umido; così è il verno; e però volendo l’autor nostro intendere del principio della primavera, dice del giovenett’anno; cioè adolescente; cioè la fanciullezza dell’anno, chiamandolo giovanetto, a differenzia della giovanezza compiuta. Et è qui da notare che l’autore parla de’ tempi dell’anno, incominciando secondo li astrolagi la primavera dal solstizio di Capricorno, e la state dell’12 equinozio d’Ariete, e l’autunno dal solistizio di Cancro, e il verno dall’equinozio della Libra; e per confermar quello, aggiugne: Che il Sole i crin sotto l’Aquario tempra; cioè sotto quel segno che si chiama Aquario tempra li suoi raggi, pigliando i crini per li raggi, sotto il quale e nel quale segno il sole entra a mezzo gennaio o circa, e stavvi infino a mezzo febraio o circa; nel qual tempo incomincia la primavera. Ogni segno à 30 gradi et ogni di’ naturale lo sole ne passa uno, sicchè in 30 di’ à passato tutto uno segno; e dice tempra, cioè tempera; i crini; cioè i capelli. Li poeti fingono che il sole sia uno idio che lo chiamano Febo, e fingonlo con una bella capellatura, intendendo per quella capellatura li raggi suoi, li quali incomincia lo sole a temperare sotto l’Aquario: imperò che si parte dal tropico iemale e viene verso l’equinoziale, et incomincia l’aere a noi a lasciare la rigidità del freddo e mitigarsi per l’approssimamento del sole, incominciandosi già ad alzare sopra noi. E per dichiarare ancora meglio, dice: E già le notti a mezzo di’ sen vanno; cioè già incominciano a mancare le notti e crescere li di’13, che il sole è stato in Capricorno insino al suo mezzo, sono cresciute le notti e li di’ mancati. E perchè tal mezzo innanzi si parte dal tropico iemale e viene di grado in grado verso l’equinoziale, incominciano a mancare le notti infino che viene all’equinoziale ove si pareggia la notte col dì, poi ch’à passato l’equinoziale e viene verso lo tropico estivale, crescono li di’ infino che viene in Cancro ov’è lo solistizio estivale; cioè la maggior altezza che possa essere appo noi; e però è allora lo maggior di’ e la minor notte che sia in tutto l’anno, come quando è in Capricorno, che è al tropico iemale verso lo polo antartico, è la maggior notte e il minor di’ che sia in tutto l’anno, perchè 14 appo noi nella maggior bassezza che possa essere; e perchè quando va verso l’antartico, viene all’equinoziale, quando è in Libra è pari lo di’ con la notte; e quando ritorna in verso lo polo artico, partendosi dall’antartico viene all’equinoziale, quando è in Ariete ove è pari ancora il dì con la notte sì, che due equinozi sono l’anno e due solistizi; li solistizi sono in Capricorno et in Cancro, e li equinozi in Ariete et in Libra; e perchè quindi onde si parte il sole si crescono le notti 15, però dice che quando lo sole è in Aquario, che incomincia a partirsi dal polo antartico e venire in verso il nostro polo artico, che le notti se ne vanno a mezzo di’. Et a maggiore evidenzia di quello che è detto, doviamo sapere che l’ottava spera; cioè il cielo del fermamento ove sono le stelle fisse, à due poli; cioè due capi d’uno 16 piano, in sul quale si volge come noi veggiamo, una volta in 24 ore; e l’uno capo di questo piano è veduto da noi, et è quivi dove è la tramontana e chiamasi polo artico; l’altro capo è opposito a quello e chiamasi antartico, e non si può vedere da noi, perchè è di sotto opposito al nostro. E doviamo ancora sapere che tutto lo spazio del cielo, che è tra l’uno e l’altro polo, li astrolagi ànno diviso in cinque 17 spazi iguali, nelle fini de’ quali dicono essere cerchi lineari, li quali chiamano paralelli; cioè cerchi igualmente distanti, e sono cinque in tutto. Lo primo è quello che è intorno al polo artico e chiamasi paralello artico. Lo secondo è quello che si chiama tropico estivale: imperò che quando lo sole è venuto per la linea eclittica, che è sempre sotto il mezzo del zodiaco infino a questo paralello, è lo maggiore di’ che sia in tutto l’anno, perchè è nella maggiore altezza che possa essere appo noi; e perchè incomincia poi a discendere, e però si chiama tropico; cioè conversivo. Lo terzo si chiama equinoziale: però che quando lo sole è ritornato a quello descendendo, è pari lo di’ con la notte, come fu quando, venendo a noi, venne al punto opposito che è in Ariete, come questo è in Libra; li quali due segni sono nel zodiaco oppositi, intersecati dall’equinoziale paralello. Lo quarto paralello è detto tropico iemale, perchè quando lo sole è venuto quivi, è il verno et è lo minor di’ che sia in tutto l’anno, perchè è nella maggior bassezza che possa essere appo noi, e quindi incomincia dall’altro lato a ritornare all’equinoziale, e però si chiama tropico; cioè conversivo, perchè si converte a noi. Lo quinto paralello si chiama antartico, perchè intorno al polo contrario al nostro. Ma secondo li nostri poeti sono questi sei spazi ridotti a cinque, e chiamansi da loro zone: imperò che pongono per una zona lo spazio tutto quivi, ove è lo corso del sole, quanto tiene lo zodiaco; cioè dal tropico estivale in fino al tropico iemale che sono tre paralelli, perchè è in mezzo l’equinoziale. E questa zona dicono che sotto si 18 fa la terra inabitabile per lo troppo caldo; e dal tropico estivale al paralello artico dicono che è la zona temperata, perchè in mezzo tra la calda e la fredda, e fa abitabile la terra sotto sè; e dal polo artico in fino al suo paralello dicono essere l’altra zona fredda, la quale fa inabitabile la terra sotto di sè, per lo troppo freddo; e così dall’altra parte dal tropico iemale al paralello antartico dicono essere l’altra zona: cioè la quarta temperata, perchè viene in mezzo tra la fredda del polo antartico e la calda del mezzo 19; e questa dicono che fa la terra abitabile sotto sè. Ma per quello che dicono li astrolagi la terra sotto quella zona è occupata dall’acqua, e dal polo antartico al suo paralello è la quinta fredda, la quale per lo suo freddo rende la terra inabitabile sotto sè; la qual parte della terra si dice ancora essere occupata dall’acqua; adunque una sola zona è quella che s’abita. E doviamo ancor sapere che il zodiaco è uno cerchio ampio, nel quale sono xii segni; cioè Aries, Taurus, Gemini, Cancer, Leo, Virgo, Libra, Scorpion, Sagittarius, Capricornus, Aquarius, Pisces; e ciascuno di questi segni 20 in 24 ore, o poco più, il sole passa uno grado, sicchè in 365 di’ et alquante ore lo sole passa tutto, et allora è compiuto l’anno; e questo zodiaco cigne lo cielo per traverso sì, che l’uno lato del zodiaco, dove il Cancro, tocca lo paralello tropico estivale; e l’altro lato, ove è Capricorno opposito a Cancro, tocca l’altro paralello tropico iemale, e divide intersecando lo paralello equinoziale in due luoghi, oppositi l’uno all’altro, sicchè nell’uno è Ariete e nell’altro è Libra; e tutti li pianeti vanno sotto questo zodiaco obliquando qua e là, salvo che il sole, che sempre va per lo diritto mezzo 21 per la linea eclittica, e va da occidente a oriente, secondo lo suo movimento sempre acquistando in 24 ore, o poco più, uno grado del segno; benché lo movimento del fermamento lo ruoti seco da oriente ad occidente. E però secondo che passa sotto li segni, s’approssima e dilunga da noi; e così accresce e manca lo di’ e la notte, e questo si può meglio mostrare con la Spera materiale, che scrivere con la penna o dire con la lingua, e però chi lo vuol vedere, ricorra quivi. Aggiugne poi l’autore: Quando la brina; cioè la brinata, assempra; cioè t’appresenta, in su la terra; sopra la quale è caduta, L’imagine; cioè la similitudine, di sua sorella bianca; cioè della neve, la quale è detta sua sirocchia 22, perchè si genera d’una medesima materia; cioè di vapori umidi: imperò che i vapori umidi elevati su nell’aere infìno allo interstizio, lo quale è termine dell’aere oltra il quale non possono passare, secondo vari luoghi a che ascendendo 23, si convertono; e però quando si convertono in acqua, quando in grandine e quando in neve e quando in brinata; et aggiugne: Ma poco dura alla sua penna tempra; cioè poco dura la brinata, come dura poco la temperatura della penna allo scrittore, quando scrive con essa: e così è qui 24 similitudine, dicendo: Lo villanello; cioè lo povero villano, a cui la robba manca; perchè è dilungato dalla ricolta, et allora sono più care le biade che in tutto l’anno; o vogliamo intendere lo strame per pascere le pecore: imperò nel testo fa menzione di ciò, Si leva; del letto o di casa, e guarda: cioè fuor di casa uscito, pone mente, e vede la campagna; cioè la latitudine de’ campi, Biancheggiar tutta; per la brinata, ond’ei; cioè ond’elli, si batte l’anca; per lo dolore, Ritorna in casa; poi lo villanello, e qua e là si lagna; cioè si lamenta, Come il tapin; cioè lo misero, che non sa che si faccia; delle pecore che à nella stalla, Poi riede; cioè ancora ritorna a vedere, e la speranza il ringavagna; cioè lo conforta; o vogliamo dire e la speranza ringavagna: cioè ripiglia la speranza che avea perduta, Veggendo il mondo aver cangiata faccia; cioè apparenzia, In poca d’ora; cioè in piccolo spazio di tempo, perchè la brinata è strutta et ita via per lo caldo del sole, e prende suo vincastro; cioè suo bastone, E fuor; cioè della stalla, le pecorelle; sue, a pascer caccia; cioè alla pastura; e questo dice perchè usanza è de’ villani di tenere delle pecore, capre et altro bestiame.
C. XXIV— v. 16-24. In questi tre ternari lo nostro autore adatta la detta similitudine a sè, dicendo: Così mi fece sbigottir lo Mastro; cioè Virgilio fece dubitar me Dante e perdere la speranza, come la brinata lo contadino, Quand’io li vidi; io Dante, sì turbar la fronte come detto fu di sopra cap. xxiii, quando disse: Lo Duca stette un poco a testa china. — E così tosto al mal giunse lo impiastro; cioè al mio temere lo conforto, come al temere del villanello, Che come noi cioè Virgilio et io Dante, venimo al guasto ponte; cioè ch’era caduto sopra quella sesta bolgia, sopra la quale tutti erano caduti li ponti, come detto è di sopra nel canto xxi che comincia: Così di ponte in ponte ec.; et assegna la cagione, perchè così finge l’autore, Lo Duca; cioè Virgilio, a me; cioè Dante, si volse con quel piglio Dolce; cioè con quella dolce faccia e non turbata, come prima, ch’io; cioè Dante, vidi in prima a piè del monte; quando per le tre bestie impedito tornò a dietro, come appare nel primo canto di questa cantica, quando Virgilio lo soccorse e prima li apparve. Le braccia aperse; cioè Virgilio, dopo alcun consiglio; cioè dopo alcuna deliberazione, Eletto seco; dice: imperò che la discrezione è quella che discerne, e lo libero arbitrio è quello che elegge, secondo che la ragione detta, riguardando prima Ben la ruina; di quel ponte guasto, e diedemi di piglio; cioè m’abbracciò e presemi con le braccia.
C. XXIV — v. 25-33. In questi tre ternari l’autor nostro dichiara a che fine Virgilio l’abbracciò, dicendo con una similitudine: E come quei che adopera et estima; cioè stima prima e poi adopera, et usa qui l’autore una figura che si chiama isteron proteron 25, Che sempre par che inanzi si proveggia; cioè ch’elli adoperi, Così, levando me su per la cima D’un ronchione 26; cioè d’un pezzo di scoglio; et adatta la similitudine posta di sopra, avvisava un’altra scheggia; cioè un altro pezzo di scoglio; e così si può intendere quel di sopra; cioè ch’ adopera quel ch’a stimato, et operando stima quel che dee operar poi, Dicendo; Virgilio: Sopra quella; scheggia, poi t’aggrappa; Ma tenta pria se è tal ch’ella ti reggia; cioè tu, Dante, t’afferra inanzi, che tu ti li affidi. Non era via da vestito di cappa; dimostra la malagevolezza della via, dicendo che non era via da quell’ ipocriti; e per questo allegoricamente vuol dimostrare che li ostinati non si possono partire dal peccato, e litteralmente dimostra che, benché elli e Virgilio n’ uscissono, non era possibile alli ipocriti d’ uscirne, Che noi a pena; cioè Virgilio e Dante, che non eravamo ostinati in tale peccato, ei lieve; cioè Virgilio che era spirito sanza carne, et io sospinto; cioè da lui come appar di sopra; e per questo dimostra che malagevolmente la ragione e la sensualità sospinta dalla ragione può uscire di tal peccato, Potavam su montar di chiappa in chiappa; cioè di pietra in pietra: montasi suso, quando s’esce 27 del peccato e della sua considerazione con gradi di costanzia, e questo intende l’autore nelle parole dette.
C. XXIV — v. 34-45. In questi quattro ternari l’autor nostro fìnge che con fatica uscissono della sesta bolgia, dicendo: E se non fosse, che di quel procinto; cioè circuito, cioè della ripa d’entro della sesta bolgia, Più che dell’altro; cioè di quel di fuori, era la costa corta; sì che la salita era minore, Non so di lui; cioè di Virgilio quel che si fosse stato, ma io sarei ben vinto; io Dante dalla malagevolezza dell’uscire. Et assegna la cagione, perchè la ripa d’entro è più bassa che quella di fuori. Ma perchè Malebolge; cioè l’ottavo cerchio, che così lo nominò l’autore di sopra cap. xviii, in ver la porta Del bassissimo pozzo; cioè del nono cerchio che tanto stringe, perchè è al centro della terra che pare un pozzo, tutta pende; inverso la porta del nono cerchio, Lo sito; cioè la locazione, di ciascuna valle; di quelle x bolgie dette di sopra, porta; questo che seguita, Che l’una costa surge; cioè quella di fuori alza, e l’altra scende; cioè quella di d’entro abbassa, Noi; cioè Virgilio et io Dante, pur venimo al fine; cioè all’ultimo, in su la punta; della ripa, Onde l’ultima pietra; ch’era la fine del ponte, si scoscende; in su l’argine. Aggiugne l’autore la sua debolezza, dicendo: La lena m’era del polmon sì munta; qui dimostra secondo la Fisica come l’uomo viene meno per la troppa fatica. Et è da notare che il polmone è uno membro interiore del corpo umano, che sempre batte e fa vento al cuore, e quando l’uomo più si fatica, più batte: imperò che il cuore à bisogno di maggiore esaltazione per la fatica che prima; e battendo molto si secca per lo continuo movimento, intanto che non può battere più et allora l’uomo spasima, perchè il cuore non à più esaltazione; et avendo l’uomo bere, non spasimerebbe, e però dice l’autore che la lena del polmone; cioè il raccoglimento del fiato, era sì venuto meno, Quand’ io; cioè Dante, fui su; in su l’argine, ch’io non potea più oltre; cioè andare, Anzi m’assisi; cioè mi posi a sedere, nella prima giunta; cioè com’ io giunsi su.
C. XXIV — v. 46-57. In questi quattro ternari finge l’autor nostro come Virgilio li fece una bella esortazione, dicendo: Omai; cioè oggimai, convien che tu così ti spoltre; cioè ti spoltronischi per sì fatto modo, Disse il Maestro; cioè Virgilio: chè seggendo in piuma; cioè per sedere ad agio in guanciale 28 o piumaccio, In fama non si vien; cioè in nominanza laudabile, nè sotto coltre; giacendo ancor non si viene in fama, nè in pregio; potrebbe ancor dire lo testo dinanzi: chè giacendo in piuma; et intende l’autore per questo, che per istare in dilicatezze non s’acquista fama, Sansa la qual; cioè fama: et è fama, secondo che si piglia in bene, chi avrà notizia con loda, chi sua vita consuma; cioè chi passa sua vita, che non acquista fama per le buone opere, Cotal vestigio in terra di sè lascia; cioè memoria: imperò che vestigio è la pedata del piè, che dimostra che quivi è stato il piè e così ne fa memoria, e però vestigio si può porre per la memoria, Qual fummo in aere; che non vi lascia alcuna memoria di sè, et in acqua la schiuma; che similmente niuna apparenzia di sè lascia, poi che è disfatta. E però; ora conchiude leva su; da sedere, vinci l’ambascia; cioè la fatica, Con l’animo che vince ogni battaglia; l’animo libero ogni cosa vince; e ponsi qui l’animo per la volontà e per la libertà dell’arbitrio, che ogni cosa, fatica e battaglia vince, e tentazione 29, quando vuole, Se col suo grave corpo non s’accascia; cioè non si pone giù, come si dice: Infelix anima trahitur per corpus ad ima. — Più lunga scala convien che si saglia; questo s’intende litteralmente della scala del purgatorio e del paradiso, come appare nel processo dell’opera; et allegoricamente intende che convenia purgarsi da questo peccato della ipocresia, nella quale mostra che fosse caduto l’autore, quando disse di sopra cap. xvi: Io avea una corda intorno cinta, con la contrizione, confessione e satisfazione; le quali cose intende per lo purgatorio: e finge che si salga: imperò che venire al peccato per opera o per considerazione è discendere, e partirsi da quello è montare, Non basta da costoro esser partito; cioè non basta, quanto alla lettera, d’essere uscito della materia della ipocresia, ch’ancora ci è a trattare altro, secondo il tuo proposito; et allegoricamente non basta essersi partito dal peccato: imperò che è necessario che li uomini si purghino da esso con quelli tre modi, che si richieggono alla purgazione, e poi è necessario che l’uomo salga alla virtù, volendo venire al desiderato fine, Se tu m’intendi; Dante, or fa sì che ti vaglia; d’avermi inteso; sforzati di procedere oltre e d’andare a purgarti.
C. XXIV— v. 58-69. In questi quattro ternari l’autor nostro fìnge che pervennono in sul ponte della settima bolge 30, dicendo: Leva’mi allor; io Dante per lo conforto di Virgilio, mostrandomi fornito Meglio di lena: che cosa sia la lena già è detto e dichiarato di sopra, ch’io non mi sentia: alcuna volta l’uomo mostra più forte che non si sente, per compiacere al suo maggiore, E dissi: io Dante a Virgilio: Va, ch’io son forte et ardito; ecco che si mostra con le parole quel che non sentia con l’opera. Et in questo si nota quanto li fosse malagevole uscire del peccato della ipocresia, nel quale fu irretito altra volta, come detto fu di sopra cap. xvi. Su per lo scoglio; cioè del ponte settimo ch’era sopra la settima bolgia, prendemmo la via; Virgilio et io Dante, ch’era ronchioso; cioè aspro et ineguale e pieno di ronchi, stretto e malagevole; per questo si nota che la fraude era più stretta e malagevole in questo peccato, che finge l’autore che si punisca qui, che in altro peccato passato, Et erto più assai che quei di pria; quanto alla lettera finge che più alto fosse assai et avesse la salita maggiore, che quelli altri passati, intendendo allegoricamente che in questa fraude era maggior grado di superbia, come apparirà di sotto. Parlando andava; io Dante, per non parer fievole; cioè debile, Et una voce uscì dell’alto fosso; cioè della settima bolgia molto profonda, mentre ch’io andava parlando, A parole formar disconvenevole; cioè non conveniente a formar parole, che si potessono intendere. Non so; io Dante, che disse; quella voce, ancor che; cioè benchè sopra al dosso Fossi dell’arco già; io Dante venuto di quel ponte, che varca quivi; Ma chi parlava ad ira parea mosso; e questo si conoscea per lo suono della voce, benchè le parole non s’intendessono. Et è qui da notare che conviene essere conveniente distanzia tra il senso e la cosa sensibile, altrimenti il sentimento non la può comprendere.
C. XXIV — v. 70-78. In questi tre ternari l’autor nostro finge come, non potendo comprendere d’in sul ponte, discese in su l’ottava ripa, dicendo, Io; cioè Dante, era volto in giù; cioè verso lo fondo della bolgia settima, ma li occhi vivi; cioè corporali: questo dice a differenzia delli occhi mentali, che veggono più di lungi et ancor nell’oscuro, Non potean ire al fondo; della bolgia, per l’oscuro; aere che v’era; e questo si dee notare che il mezzo, che è tra il viso e la cosa visibile, conviene essere luminoso, altrimenti la vista corporale non può comprendere, Perch’io; cioè Dante a Virgilio dissi: Maestro, fa che tu arrivi Dall’altro cinghio; di questa settima bolgia; cioè in su l’ottava ripa, e dismontiam lo muro; cioè questo ponte che, benchè sia d’un pozzo, sta come muro, Che come io odo quinci, e non intendo; io Dante quel ch’io odo, Così giù veggio, e niente affiguro; cioè discerno, ovver conosco. E fa qui l’autore similitudine da l’udire al vedere: imperò che l’uno e l’altro sentimento richiede distanzia proporzionata a sè, altrimenti aopera disutilmente. Altra risposta, disse; Virgilio a Dante, non ti rendo Se non lo far; questo fia la mia risposta, dice Virgilio; l’opera, et assegna la cagione: chè la domanda onesta Si dee seguir con l’opera, tacendo; e questa è nobile parola e notabile. E qui si nota che la giusta domanda si dee esaudire con l’opera da colui, a cui è domandato potendo, altrimenti è scusato. E qui finisce la prima lezione.
Noi discendemmo ec. Qui si comincia la seconda lezione nella quale l’autor tratta del peccato, che finge che si punisce nella settima bolgia; e dividesi questa lezione in sei parti: chè prima pone come discesono del ponte, e della pena che vide nella settima bolgia; nella seconda, com’era fatta una delle tre spezie delle pene che quivi si sostengono, descrive, quivi: Et ecco ad un, ec.; nella terza manifesta con esempli e conferma quel ch’à detto, quivi: Così per li gran savi ec.; nella quarta, come Virgilio parlò a uno di quelli peccatori della settima bolgia, domandando chi era, e come Dante solicita Virgilio che domanda ancor della colpa, quivi: Lo Duca il domandò ec.; nella quinta pone quel che finge che il peccatore da sè rispondesse, quivi: E il peccator, che intese, ec.; nella sesta pone come annunziò a lui malo stato della sua parte, quivi. Apri li orecchi ec. Divisa la lezione, è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poichè Dante disse a Virgilio che come d’in sul ponte non intendea; così non discernea guardando nella bolgia, che li piacesse di discendere in su la ripa ottava. Virgilio s’inviò in giù dal ponte, e Dante lo seguitò e giunsono in su l’ottava ripa, et allora Dante vide ciò che in essa era, e vide grandissima copia di serpenti e di sì diverse maniere, che ancora la memoria lo spaurisce. E dice che non si vanti più Libia con sua arena, che è una delle parti del mondo ove sono assai serpenti, come appare per Lucano, quando dice che Catone andò per le parti arenose, e nominane assai di quelle spezie di serpenti, delle quali ancor fa menzione l’autor nel testo. Nè ancora l’Etiopia e l’Asia, che è di sopra al mare rosso, mostrò giammai tante pestilenzie, nè si rie come quelle ch’erano nella settima bolgia: e dice che tra quella cruda e tristissima copia di serpenti erano 31 gente nude e spaventate sanza sperar pertugio, o vero occultamento, per appiattarsi: et aveano legate con serpi le mani di rietro, e ficcavano la coda e il capo per le reni, e d’inanzi s’aggroppavano 32. E mentre che Dante ragguardava questo, uno serpente s’avventò ad uno ch’era dalla sua banda e trafisselo in sul nodo del collo, e subitamente costui s’accese et arse e divenne cenere, e poi la cenere per sè stessa si raccolse e ritornò nella figura di prima, come dicono li savi che fa l’uccel Fenice, che dopo cinquecento anni s’accende nel suo nido fatto di nardo e di mirra e d’altre cose odorifere, e poichè è arso e fatto cenere, rinasce della cenere un altro Fenice e dice che non pasce, se non incenso et amomo. E fa un’altra similitudine che, come colui che cade e non sa come, o per malo spirito che lo spaventi, o per gotta, quando si leva si mira d’intorno tutto smarrito per la grande ambascia, che à avuto, e guardando sospira; così si rilevò quel misero peccatore. Et esclama l’autore per questo, dicendo: O potenzia di Dio, quanto se’ vera 33; cioè giusta che croscia cotali colpi per vendetta! Et allora Virgilio lo domandò chi elli era; et elli rispose ch’elli discese di Toscana in quella bolgia, ch’elli chiama fiera gola, poco tempo era, e ch’elli era Vanni Fucci di Pistoia lo quale era vivuto bestialmente, e come a bestia Pistoia gli era stata degna tana. Et allora Dante disse a Virgilio; Dilli che non mucci, domandalo per qual colpa è dannato in questo luogo, ch’io vidi già uomo di sangue e di corrucci, sicché dovrebbe essere tra’ violenti. Et allora quel peccatore che intese Dante, non s’infinse; ma dirizzò verso Dante l’animo e il volto, e vergognandosi disse: Più mi duole che tu m’ài colto in questa miseria, che quand’io fu’ tolto dell’altra vita: io non posso negar quel che tu chiedi: sappi ch’io sono messo qui, perch’io fui ladro alla sagrestia di Pistoia, e falsamente fu già apposto ad altrui; ma perchè tu non goda d’avermi qui veduto, odi quello che io t’annunzio: Pistoia prima si dimagra de’ Neri, e Fiorenzia rinnuova gente e modi, e Marte tragge vapore di Val de Magra che è involuto da turbidi nuvoli, e combatterassi 34 con violenzia impetuosa et agra sopra campo Piceno; onde subitamente si spezzerà la nebbia e gitterà la saetta sì, che ogni Bianco ne sarà ferito; e questo t’ò detto, perchè te ne dolga, perchè se’ de’ Bianchi. E qui finisce la sentenzia litterale e il canto: ora è da vedere lo testo con le allegorie e moralitadi.
C. XXIV — v. 79-96. In questi sei ternari l’autor nostro finge che, secondo ch’avea domandato a Virgilio, discesono del ponte settimo e vennono in su la ripa ottava, per vedere quel ch’era nella bolgia settima, onde dice: Noi; cioè Virgilio et io Dante, discendemmo il ponte; cioè settimo in sul quale eravamo, dalla testa, Dove s’aggiugne con l’ottava ripa; questo dice, per mostrare che uscirono della ripa di là, E poi mi fu la bolgia manifesta; cioè settima a me Dante: E vidivi entro; in quella settima bolgia, terribile stipa; cioè congregazione e stivamento, Di serpenti, di sì diversa mena; cioè di sì diversa spezie, Che la memoria il sangue ancor mi scipa; cioè la ricordanza di quelli serpenti ancora mi divide il sangue da’ luoghi suoi, e fallo tornare al cuore come fa la paura, come mostrato è di sopra in alcuno luogo. Questi serpenti, che l’autore fìnge qui, sono li demoni ch’ànno a tentare del peccato che qui si punisce, et ancora li uomini che di ciò ànno tentato, come apparirà di sotto: imperò che spesse volte li uomini sono strumento del demonio. Più non si vanti Libia con sua rena; afferma l’autore con tre similitudini quello, ch’à detto della copia e della diversità de’ serpenti, dicendo che più ve n’era che nel deserto di Libia e nell’Etiopia e nell’Asia; e però dice che Più non si vanti Libia con sua arena; cioè col suo diserto arenoso: Libia è una parte dell’Africa, La quale Africa è una delle tre parti del mondo, et è la Libia vicina alla torrida zona, che è inabitabile in alcuna parte per lo troppo caldo; e però è troppo arenoso, o vero tutta 35: è ivi uno diserto arenoso ove è grande copia di serpenti di diverse spezie, come dice Lucano quando descrive la via che fece Catone col suo esercito, delle quali alcune ne nomina l’autore nostro nel testo, dicendo: Chè, se chelidri; questa è una specie di serpenti, che stanno in terra et in acqua e fa fumare la via onde passa, e sempre va diritto, che se torcesse creperebbe, iaculi; questa è un’altra spezie che si lancia, e trafora quel che percuote, come una lancia o una saetta, e faree; questa è una spezie che va ritta, e solamente strascina la coda per terra, Produce; cioè Libia detta di sopra, e chencri; questa è una specie di serpenti, che sempre va torcendosi e non va mai dritto, con anfisibena; questa è una spezie di serpenti che à due capi, uno d’inanzi, e l’altro di rietro ove dovrebbe essere la coda; e di questi e d’altri fa menzione Lucano nel nono libro, Nè tante pestilenzie, nè sì ree Mostrò; Libia, come quelle dell’inferno, già mai con tutta l’Etiopia; Etiopia è ancora una parte d’Africa, ove sono li uomini neri per lo caldo del sole, et è in due luoghi in verso levante et in verso ponente, perchè in mezzo di queste due Etiopie è lo diserto di Libia ove sono li serpenti: sono ancora nell’Etiopia serpenti assai e di diverse maniere, Nè con ciò che di sopra al mar rosso ee; cioè nella sommità dell’Asia, ove dice Solino che è grande copia d’oro e di gemme preziose, che è guardata da’ dragoni e da’ serpenti di diverse spezie: lo mar rosso divide, andando per mezzo, l’India e l’Arabia, et è rosso quel mare per lo terreno e non per l’acqua, et è un braccio di mare che esce del mare oceano dalla parte d’oriente, et entra nella terra e dividela infino all’Egitto. Tra questa cruda e tristissima copia; di serpenti che detta è, Correvan genti nude e spaventate; da questi serpenti, Sanza sperar pertugio; cioè di trovare buco, ove si potessino appiattare, o elitropia; questa è una pietra, che secondo che dice il Lapidario, vale contro a’ veleni, sicché questi 36 miseri peccatori non sperano rimedio alle morsure e punture dei serpenti. Qui comincia l’autore a trattare del peccato ch’elli finge, che si punisca in questa settima bolgia, e della pena che per convenienzia adatta al detto peccato; e però innanzi che andiamo più oltre, è da sapere che l’autore finge che in questa settima bolgia si punisca lo peccato del furto; e perchè, secondo lo comune parlare non si diversifica furo e ladro, però di sopra lo chiamò ladroneccio, benché il Grammatico e molti altri ne fanno differenzia, dicendo che ladro è quello che toglie con violenzia, e questo parrebbe da essere punito nel settimo cerchio de’ violenti, se si commettesse con violenzia solo. Ma con lo inganno prima lo ladro viene alla violenzia et alla forza: imperò che sta appiattato nel bosco, e quando vede lo mercatante, esce in su la strada a fare la forza, e però non lo pone l’autore nel settimo cerchio; ma ponlo nell’ottavo insieme col furo: et è furo colui che toglie con inganno tanto; e costui è da essere punito nell’ottavo cerchio della settima bolgia di quello, del quale ora si tratta, ove si puniscono li fraudulenti del furto e del ladroneccio; e però è da vedere che cosa è ladroneccio, o vero furto, e come è peccato, e quali sono le sue spezie, o vero figliuole, e le sue compagne, e li rimedi contra tal peccato, e che pene moralmente l’autor v’adatta, a ciò che allegoricamente s’intenda de’ mondani. E prima, furto, o vero ladroneccio, è uso e traffico della cosa altrui contra la volontà del proprio signore, sì che quando l’uomo usa la cosa del suo prossimo contra la volontà sua, è furto e similmente ladroneccio; ma questo uso si può venire in tre modi; cioè con la forza tanto, et allora si chiama ruberia, e di questo non si tratta qui; e puoccisi venire con l’inganno, et allora si chiama furto; e puoccisi venire con l’inganno e con la forza insieme, et allora si chiama ladroneccio: e questi due modi comprende la detta diffinizione, e di questi si tratta qui. Furono alquanti che diceano lo furto e lo ladroneccio non esser peccato, perchè le cose del mondo furono fatte da Dio ad uso comune dell’uomo, adunque è licito di pigliarne; ma costoro s’ingannano: imperò che, benché Idio le facesse dal principio comuni, poi che l’uomo peccò 37, volle ch’elli se l’acquistasse con fatica licita et onesta sì, che non s’offenda Idio, nè lo prossimo. E perchè lo furo non l’acquista con fatica licita et onesta, pecca contro a Dio e contro il prossimo; contra Dio, in quanto fa contra la giustizia, che la giustizia vuole che ciascuno abbia quel ch’è suo: però che s’io ò acquistato con fatica licita et onesta l’uso d’una cosa, se tu me la togli, fai contra giustizia, perchè levi a me quel che è mio, e dai a te quello che non è tuo; e fai contra il prossimo, perchè fai contra la carità, che mi lievi quel ch’è mio contra la mia volontà, e fai scandalo e turbazione a me, E così appare che è peccato mortale. E distingue l’autore tre spezie di furi, o vero ladroni: l’una è di coloro che non sono abituati ad esser furi; ma alcuna volta furano, trovando la contezza 38 del furare: altri sono abituati ad essere furi, e sempre pensano di furare; ma in ciò usano alcuna discrezione non furando ogni cosa, nè in ogni luogo, nè a ogni persona: altri sono che sono abituati ad essere furi, e sempre pensano di furare e non ci usano alcuna discrizione; ma ad ognuno, et ogni cosa e a ogni tempo furerebbono: e queste tre spezie intende di trattare lo nostro autore; ma in questo canto tratta pur della prima, e nel seguente tratterà dell’altre due. E pone in prima per congruenzia del peccato alcune pene generali; cioè che sono nudi, che corrono, che sono spaventati, che ànno legate le mani con serpi di dietro e che non sperano appiattamento, e che le serpi ficcano per le reni loro la coda e il capo, e d inanzi erano aggroppate. E queste pene moralmente si convengono alli furi: imperò che coloro che ànno, per vestirsi, tolto l’altrui, degna cosa è che sieno spogliati e nudi: e come sono stati flussibili e trascorsi a fare lo male; così corrano sanza riposo: che sieno spaventati è conveniente cosa, che sempre lo furo sta spaventato: che le mani sieno legate con le serpi di dietro si conviene: però che nel mondo non ànno voluto operare le loro mani all’opere licite; ma sì alle inlicite e disoneste: e però che ànno operati l’inganni del furto, però si conviene che sieno legate con serpi, che significano fraude: imperò che il serpente si dice essere animale fraudolentissimo: che non truovino appiattamento si conviene: imperò che da Dio non si può il furo appiattare, benché si sia appiattato nel mondo: e che non truovi rimedio al veleno conviensi, poi che non à voluto nel mondo porre rimedio alla fraude sua, benché nel mondo abbi cercato appiattamento: che le serpi li ficchino la coda e il capo per le reni e stieno aggroppate dinanzi si conviene: imperò che la fraude è stata fermata dinanzi nel cuore, quando s’è deliberato l’arbitrio di furare. E notantemente dice lo capo e la coda, perchè lo furo nel principio, mezzo e fine sempre è involto nello inganno del prossimo; et allegoricamente, o vero moralmente, queste condizioni si truovano per pena conveniente a tal peccato ne’ furi che sono nel mondo: imperò che sono nudi di virtù e di fama, e corrono nelli atti del furto, et ancor corrono quanto all’ultima dannazione: e sono spaventati, come si vede chiaramente che sempre lo furo sta in paura d’essere scoperto: cercano sempre li furi appiattamenti e rimedi, ad occultare la loro fraude che non appaia, e quando non l’ànno, ànno gravissima pena, e quanto a Dio non lo sperano aver mai: le mani che significano l’opere sempre stanno legati con serpi, perchè tutte sono piene d’inganni, e sono di rietro perchè ogni opera viziosa va a dietro e non innanzi: sono legati (*) [v. con serpi che passano loro le reni col capo e con la coda, e sta l’uno con l’altro aggroppato, perchè l’opera fraudulenta del furo à capo e coda; cioè principio e fine, da la volontà che si pone nel cuore, involta e non separata: imperò che il furo indistintamente nel principio, mezzo e fine usa inganno implicito, l’uno con l’altro; e però à detto quel che detto è di sopra nel testo. E seguita: Con serpi le man dietro avien legate; quelli miseri peccatori ch’erano nella settima bolgia, Quelle; cioè serpi, con ch’erano legate le mani di rietro, ficcavan per le ren; che significano la concupiscenzia: però che lo fine della fraude del furo è adempiere le sue concupiscenzie, la coda; che significa lo fine, E il capo; che significa il principio: però che il principio e il fine s’accorda insieme, intendendo a quel che detto è, et eran dinanzi aggroppate; questo significa che il fine, et il principio nel libero arbitrio del cuore si legano insieme, e consente a volontà per adempiere le sue concupiscenzie. Seguita ora a vedere quello ch’ aviano lasciato; cioè le compagne e le figliuole di questo peccato, e li suoi rimedi. E prima le compagne del furto sono cinque; cioè fraude che sempre va seco, anzi lo guida; la paura che viene dalla coscienzia, che sa che fa male; la viltà dell’animo, che non li dice l’animo d’altrimenti vivere; pigrezza di non volere lavorare; e la simulazione che sempre mostra una cosa per un’altra. E le sue figliuole sono sei; cioè infamia: imperò che questo peccato fa molto l’uomo infame; dissoluzione: imperò che fa l’uomo dissoluto, quando viene la roba di rimbalzo che non vi si dura fatica, l’uomo la spende nella golosità e diletti carnali; odio: imperò che il furo è odiato da ogni uomo; scacciamento: però che ognuno lo scaccia; et all’ultimo la morte vituperosa, se è giunto nel peccato; e la morte eterna, se si muore sanza finale penitenzia. Li rimedi contra sì fatto vizio sono tre; cioè esercitamento della persona ad onesto esercizio, sicché abbia le sue necessità; temperamento delle concupiscenzie; pensamento della infamia e della pena, e conversazione coi buoni.
C. XXIV — v. 97-105. In questi tre ternari l’autor nostro tratta della prima spezie de’ furi, che non ànno proposito di furare e non sono abituati ad essere furi; ma quando sono in luogo dove possono furare, vedendosi tempo e luogo, furano: imperò che si dice: Saepe occasio furem facit; e quando ànno fatto 39 e’ non vorrebbono averlo fatto; ma per vergogna, o altra cagione, non si sanno recare a restituirlo, e però finge l’autore che sieno dannati e per congruenzia finge che abbino nell’inferno questa pena; che uno serpenti 40 trasfori loro la gola; e che subitamente incenda et arda e diventi cenere, e poi la cenere si raccolga per sè stessa e ritorni nella figura di prima, e questa pena si conviene a coloro che sono stati furi per sì fatto modo nel mondo: imperò che come la fraude del furto à occupato lo loro appetito; così lo serpente ferisce la gola: e come è arso per avarizia; così arda quivi: e come à abbandonata la ragione quando à furato, però diventi cenere: e perchè à conosciuto che à fatto male, e non à però satisfatto al peccato, finge che ritorni a simili pene, perchè le pene de’ dannati deono essere infinite. Et allegoricamente intese di così fatti che sono nel mondo, volendo mostrare le lor condizioni; cioè che sono uomini in quanto non sono abituati a furare, nè ànno proposito, nè volontà di furare; e poiché uno serpente li trafigge in sul collo à a dimostrare, che quando si truovano tra li tesori, subitamente la fraude del furto significata per lo serpente entra nell’appetito significato per la gola; ma finge l’autore che ferisca di rietro, perchè tale suggestione diabolica latentemente entra: e che arda subitamente s’intende per l’ardore della cupidità che incende l’anima: e che diventi cenere, s’intende che in quanto commette il furto, si parta dalla ragione: e che ritorni uomo significa che si riconosce aver mal fatto; ma pur non si ammenda del peccato; e però dice lo testo: Et ecco ad un, ch’era da nostra proda; cioè ch’era dalla ripa di là, ov’erano Virgilio e Dante: chi fosse si dirà di sotto, S’avventò un serpente, che il trafisse; cioè lo furò 41 in fin dinanzi, Là dove il collo alle spalle s’annoda; cioè in sul ceppicon 42 del collo: sempre per lo serpente s’intende la fraude, e per lo collo la gola che è dinanzi, come è sposto. Ne O sì tosto mai, nè I si scrisse; dimostra la subita mutazione, facendo comperazione dicendo che per li scrittori mai non si scrisse nè o, nè i, che sono due lettere che si scrivono più tosto, che tutte l’altre in una tratta, sì tosto, Com’ei s’accese et arse, e cener tutto Convenne che cascando divenisse; quel peccator trafitto dal serpente: E poi che fu a terra sì destrutto; quel peccatore; e questo significa lo cadimento nel peccato ove si perde la ragione, e per consequente l’umanità, La polver si raccolse per sè stessa: però che sè medesimo riconosce, E in quel medesmo ritornò di butto; cioè tosto ritornò quello che prima era; cioè uomo ragionevole, e conoscendo lo suo peccato et errore.
C. XXIV — v. 106-120. In questi cinque ternari l’autor nostro conferma quel che fu detto di sopra per una similitudine dell’uccel Fenice, che vive cinquecent’anni e pascesi in sua vita d’incenso e d’amomo, et al suo fine si fa nido di nardo e di mirra e d’altre cose odorifere, e per lo suo caldo incende lo nido et arde, e torna in cenere, e di quel cenere per lo caldo del sole ne rinasce un altro nuovo Fenice; e però dice: Così per li gran savi; cioè per li filosofi naturali ch’ànno scritto della natura delli animali, si confessa; cioè si manifesta, Che la Fenice muore; cioè quello animale, o vero uccello, del quale fu detto di sopra, lo quale vive solo, e vive 500 anni, e poi rinasce; del cenere suo, Quando al cinquecentesimo anno appressa; questo dice, perchè presso a 500 anni fa la detta innovazione di sè, come detto è di sopra. Erba, nè biado in sua vita non pasce; questo uccello Fenice, come pascono molti altri uccelli, nè ancora vive di preda come li uccelli feridori; Ma sol d’incenso lagrime et amomo; ecco l’esca di che vive, E nardo e mirra son l’ultime fasce; cioè lo nido in che muore et onde rinasce. Et aggiugne un’altra similitudine, dicendo che quel peccatore ritornato stava stupefatto, come fa colui che è caduto per la gotta, o vero per altra infermità: quando si rileva, e però dice: E quale è quei che cade; in terra, e non sa como; elli cade perch’esce di sè; et aggiugne le cagioni: Per forza di demon ch’a terra il tira; ecco l’una cagione, come quelli facea morire e poi risuscitare Simon Mago, O d’altra opilazion; cioè ragunamento d’omori che entrano eliino, o li loro grossi vapori, nelli meati che sono dal cuore al cerebro e, chiusi quelli meati, cade l’uomo e diventa insensibile, che lega l’uomo; cioè li umani sentimenti, Quando si leva, quel caduto, che intorno si mira; ragguardando ov’elli sia, Tutto smarrito della grande angoscia Ch’elli à sofferta; in quel cadimento et in quella insensibilità, e guardando sospira; per esaltazione del cuore; Tale era il peccator; del quale fu detto di sopra, levato poscia; che il serpente l’avea trafitto et arso, e tornato in cenere. Et aggiugne una esclamazione, parlando della severità della potenzia di Dio, dicendo: O potenzia di Dio quanto è severa; cioè questa 43 severità è giustizia pura sanza misericordia. Potrebbe dire il testo: quanto se’ vera; cioè se’ diritta e giusta e vera; e parla qui l’autore in terzia persona, e parla qui l’autore, secondo la sentenzia di santo Agostino che dice: Si omnes homines simul consideremus, quorum alii misericordia salvi fiunt, alii veritate, damnantur universœ vicœ Domini; idest misericordia et veritas suo fine distinctœ sunt. Si autem solos sanctos intueamur, non discernuntur hœ viœ ec. — Che cotai colpi; come questo che è detto del peccatore; e ponsi qui lo colpo per la pena, che riceve il peccatore per lo suo peccato, per vendetta; cioè per debito di giustizia, croscia; cioè danna 44 i peccatori nel mondo, secondo che sposto fu di sopra allegoricamente; e nell’altro, secondo la fizione litterale!
C. XXIV — v. 121-129. In questi tre ternari l’autor nostro finge come Virgilio domanda quello così trasmutato chi elli era e com’elli rispose dicendo: Lo Duca; cioè Virgilio, il domandò poi; quello ritornato, chi egli era; Perch’el; cioè egli, rispuose; a Virgilio: Io piovi; cioè caddi, di Toscana, Poco tempo è; non è molto tempo che era morto, in questa gola fiera; cioè in questa fiera bolgia, che come gola inghiottisce qualunque ci cade; e manifesta le sue condizioni; cioè Vita bestial mi piacque, e non umana; ecco che manifesta che visse bestialmente, e non umanamente, Sì come a mul ch’io fui; ecco che manifesta che non nacque di legittimo matrimonio, e biasima qui tale nazione, perchè comunemente sono rei, benché già sieno e sono stati di virtuosissimi uomini delli così nati: son Vanni Fucci Bestia; ecco che si nomina per lo nome, in quanto dice Vanni; e per lo soprannome, in quanto dice Fucci; e per lo nomignuolo, in quanto dice bestia, e Pistoia mi fu degna tana 45; cioè abitazione: l’abitazione della bestia si chiama tana; ma dice degna, in vituperio della città, che sì fatta città ben si convenia a sì fatto cittadino. Questo Vanni fu figliuolo di messer Fuccio de’ Lazari da Pistoia e non fu legittimo, et era chiamato Bestia per nomignuolo, perch’era molto dileggiato e vivea bestialmente, e più volte per omicidi fu sbandito di Pistoia; e perchè lo casato suo era grandissimo nella città, per la parte più e più volte fu ribandito 46; et ancora, benché fosse sbandito, vi si stava non curandosi d’officiali che vi fossono, e questo addiviene nelle città che vivono a parte; e però ben disse di sopra che tale città era degna di tale cittadino. Et io; cioè Dante, al Duca; cioè a Virgilio dissi: Dilli; tu, Virgilio, a Vanni, che non mucci; cioè che non si parta, E domanda; tu, Virgilio, qual colpa qua già il pinse; finge Dante ch’elli si maravigli che Vanni Fucci sia in questo luogo dell’inferno, che quanto alla fama era tenuta 47 omicida, sicché a lui si convenia lo cerchio de’ violenti, e non de’ fraudulenti; e però aggiugne: Ch’io il vidi; cioè io Dante, uom già di sangue e di corrucci; cioè perchè uomo di brighe e d’omicidi vivette a tempo di Dante; e però dice che lo vidde.
C. XXIV — v. 130-141. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come il peccator manifesta la sua colpa, et apparecchiasi a predire quello che dee avvenire della parte di Dante, per darli dolore. E quanto alla prima parte è da sapere che questo Vanni Fucci fu uomo scelleratissimo, et essendo una sera a una cena nella quale erano anche de’suoi pari, et ancor com’addiviene v’erano de’ buoni uomini di Pistoia, che non erano di sua condizione, intorno di 18 uomini, tra’ quali era uno notaio che si chiamava ser Vanni 48 e stava presso al Vescovado, onde costoro quando ebbono cenato, dissono: Vogliamo andarci trastullando un poco di notte; et accordati presono liuti et altri stormenti 49, et andarono cantando e sonando per la terra. Et ultimamente vennono a casa del detto notaio, e quivi sonarono e cantarono un pezzo per amore della donna sua, ch’era bellissima; ma in quel mezzo si partì Vanni Fucci con alcuni suoi compagni, et andaronsi trastullando in verso la chiesa maggiore; e trovando la porta aperta, entrarono dentro; et andando in verso la sacrestia, trovando anche la porta aperta, lasciata disavvedutamente aperta, entrarono dentro e venne loro in pensieri subitamente di prendere de’ belli fornimenti di quella sacrestia, che n’era molto ben fornita più che tutte l’altre, essendovi fra l’altre cose l’altare fornito tutto d’ariento. E prese di queste cose quante ne poterono portare, se ne vennono alli compagni che ancor sonavano e cantavano, e mostrarono quello che aveano furato; di che molti di loro stavano tutti smarriti, dicendo: Che avete fatto voi? Non potrete mai vendere queste cose, che non si sappia. Rispose allora il detto Vanni: Ben troveremo modo di cavarle fuori e venderemole: che fate? Pigliatele ora e portatele in qualche luogo in fino che pensiamo altro; e deliberarono di portarle a casa del detto ser Vanni notaio, perch’era più presso. La mattina quando li canonaci s’avvidono del furto, si lamentarono a’ signori, e i signori commisono al podestà la investigazione del detto furto, dandoli piena balia. Allora lo podestà, fatto sbandire che chi sapesse di questo furto, lo palesasse sotto grave pena, non trovandone nulla incominciò ad investigare delle persone di mala fama, e poneali al tormento: e non confessando di questo, che non v’erano colpevoli; ma d’altri malifici, ne fece giustiziar molti sì, che durò bene sei mesi, che ogni settimana ne facea giustiziare alquanti. Et in fine avendosi posto in cuore pur di ritrovare questo furto, venne alli orecchi del detto podestà che Rappino figliuolo di messer Francesco de’ Foresi era giovane di mala condizione, e ch’era colpevole in questo fatto, onde lo fece prendere e tormentarlo; e non confessando niente di questo furto, siccome colui che in ciò non avè50 colpa, il podestà fece uno comandamento a questo giovane, che se in fra tre di’ non confessasse di questo furto e manifestasse chi era colpevole, lo farebbe appiccare per la gola, onde di questo era grande dire per la terra. Et il padre et i parenti del giovane s’andavano raccomandando a’ cittadini, e non potendosi rimuovere lo podestà di questo, si diliberarono i parenti di mettersi a pericolo et ardere il palagio del podestà. Innanzi a quel di’ venuta questa novella alli orecchi di Vanni Fucci, ch’era nel contado di Fiorenza a monte Carelli: era molto amico di questo Rappino et increscendoli che dovesse morire non avendoci colpa, segretamente fece dire a messer Francesco ch’egli andasse a parlare con lui, ch’elli farebbe campare il figliuolo. E però andatovi prestamente, disse che dicesse al podestà, se volea trovare lo furto facesse trovare 51 ser Nanni predetto, notaio. Allora messer Francesco subito n’andò, e fu al podestà e disseli il fatto. Il podestà mandò cercando questo ser Nanni, e fu trovato alla chiesa de’ frati predicatori a uno sermone che si facea lo primo lunedi’ di quaresima; et essendone menato questo ser Nanni, tutta la città mormorava del podestà, et ancora tutti quelli del sermone, dicendo che non facea bene ad infamare li buoni uomini. Questo ser Nanni, come fu dinanzi al podestà, confessò ogni cosa sanza alcuno tormento, e manifestò tutti i compagni, e disse che più e più volte solo et accompagnato vollono portare le dette cose fuori di Pistoia, et ogni volta che appressavano alla porta, parea loro vedere l’officiale del podestà, che cercasse qualunque uscia fuori; e questo li facea tornare a dietro sì, che mai non poterono trarre nulla fuori della città. Allora lo podestà, trovato lo furto e li malefattori, mandò cercando per loro e non ne potè giugnere alcuno, perchè tutti fuggirono, quando vidono preso ser Nanni; onde fatto restituire lo furto alla sacrestia, di lui fu fatto quello che giustizia richiedea; e però dice: E il peccator; cioè Vanni Fucci, che intese; ciò ch’io Dante dicea, non s’infinse; per non esser conosciuto; Ma drizzò verso me; Dante, l’animo e il volto; suo, E di trista vergogna si dipinse: imperò che diventò rosso; la qual cosa li diede tristizia. Poi disse; a me Dante: Più mi duol, che tu m’ài colto Nella miseria dove tu mi vedi, Che quando fui dell’altra vita tolto. Qui si può intendere che morisse di morte violenta, in quanto dice tolto; et ancor si potrebbe intendere di naturale: imperò che, quando piace a Dio, l’anima è tolta 52 dal corpo; ma propiamente non si dee dire tolto, se non quando è morte violenta: imperò che, quando è morte naturale, se n’esce per legge di natura, e rade volte addiviene che ne campino li suoi pari. Io non posso negar quel che tu chiedi; dice Vanni Fucci a Dante; cioè ch’io non ti dica la colpa, che qua giù mi mena: imperò che tacendo, la verità si dimostra per sè medesimo, e lo luogo n’è dimostratore. In giù son messo tanto; cioè tra li furi e non nel settimo tra li violenti, perch’io fui; cioè io Vanni Fucci, Ladro alla sacrestia de’ belli arredi; cioè de’ bellissimi adornamenti, che sono a Pistoia alla chiesa maggiore, E falsamente già fu apposto altrui; cioè al detto Rappino, narrato di sopra. Ma perchè di tal vista tu non godi; cioè tu, Dante, d’avermi veduto in questo luogo, che sono contrario alla parte tua, Se mai sarai di fuor de’ luoghi bui; cioè di questo inferno: imperò che sapea bene che nell’inferno non potea godere; et aggiugne uno annunzio che dee dispiacere a Dante.
C. XXIV— v. 142-151. In questi tre ternari e un verso l’autor nostro finge che Vanni Fucci li annunzi che li Neri di Fiorenza, ch’erano cacciati da Fiorenza e venuti a Pistoia, perchè i Bianchi signoreggiavano in Firenze, della qual parte era Dante, ritorneranno in Fiorenza e cacceranno li Bianchi, e però dice: Apri li orecchi; tu, Dante, al mio annunzio; cioè a quello ch’io ti predico, et odi; quello ch’io ti dirò: Pistoia pria de’ Negri si dimagra: però che si partiranno quindi; Poi Fiorenza rinnuova genti e modi: però che saranno cacciati li Bianchi, e ritorneranno li Neri. E parlando sotto allegoria, dice: Tragge Marte; cioè li Fiorentini, alli quali signoreggia Marte, come detto fu di sopra; e questo dice per li Bianchi ch’erano allora in Fiorenza, vapor; cioè accendimento di battaglia, di Val di Magra; cioè di Lunigiana, ove sono li marchesi Malespini 53: imperò che i Bianchi, vedendo che li Neri coi Pistolesi si faceano forti, presono per capitano messer Maruello marchese delli Malespini 53; e perchè tali marchesi ànno loro tenute al lato ad un fiume, che si chiama la Magra che è fine della Toscana et è di là da Serezana, però dice: di Val di Magra, Che di torbidi nuvoli è involuto. Seguitando allegoria dice ch’a questo accendimento di battaglia saranno molte involuzioni di diverse parti et ancora di diversi effetti, che avverranno nella battaglia sì, che accenderanno più li animi, E con tempesta impetuosa et agra; cioè con questo grande accendimento d’ira, che dà grandi tempestadi e forti, Sopra campo Picen fia combattuto. Questo campo è nella Marca, o ancor è in quello di Pistoia, del quale fa menzione Sallustio, quando tratta della congiura e battaglia di Catellina: Ond’ei repente; cioè subitamente, spezzerà la nebbia; cioè l’oscurità dell’avvenimento e riuscita della battaglia, che è cosa oscura et incerta ad ogni uomo infino che non viene il fine, Sì ch’ogni Bianco ne sarà feruto; e per questo manifesta che i Bianchi denno essere sconfitti in quella battaglia, E detto l’ò; io Vanni Fucci a te Dante, perchè doler ti debbia; questo mostra che li dica per lo peggio che può, come suo nimico. E qui finisce il xxiv canto: seguita il vigesimo quinto.
Note
- ↑ C. M. della sesta bolgia e pervenneno in sul ponte della settima; nella seconda,
- ↑ C. M. una bella risponsione con esortazione fatta a lui
- ↑ C. M. è così tosto giunse allo
- ↑ C. M. d’un rocchione,
- ↑ C. M. ben giunto;
- ↑ C. M. Ingiumai convien
- ↑ Vince; oggi vinci. Per serbare una desinenza uniforme, le persone singolari dell’imperativo furono dagli antichi terminate in e come quelle dei tempi dell’indicativo. Il re Enzo disse «Esci di pena, e del corpo ti parte »; e il b. Iacopone « Accorri, donna, e vide Che la gente l’allide » E.
- ↑ C. M. et erto più assai
- ↑ C. M. si dee seguire
- ↑ C. M. di quattro, secondo che l’anno è diviso in quattro tempi; cioè primavera,
- ↑ C. M. di grandezza insieme al solstizio
- ↑ C. M. dall’ equinozio
- ↑ C. M. li di’, imperocchè infin che il sole
- ↑ C. M. perchè è appo
- ↑ C. M. le notti e mancano li di’; e quine in verso dove va, cresceno li di’ e mancano le notti, però
- ↑ C. M. d’un perno, in sul
- ↑ C. M. in sei spazi eguali
- ↑ C. M. sotto sè fa la terra
- ↑ C. M. del mezzo di’; e questa
- ↑ C. M. segni à trenta gradi, et ogni di’; cioè in ventiquattro ore.
- ↑ C. M. per ritto lo mezzo
- ↑ C. M. sua suore,
- ↑ C. M. ascendeno,
- ↑ C. M. è qui significazione, quando si fa per similitudine, descritto lo tempo, però segue la similitudine sua, dicendo:
- ↑ C. M. isderon proteron,
- ↑ C. M. roccione;
- ↑ C. M. quando scese del peccato
- ↑ C. M. in coscino o piumaccio,
- ↑ C. M. tentazione vince quando
- ↑ C. M. bolgia,
- ↑ C. M. di serpenti correvano genti
- ↑ C. M. s’agroppavano.
- ↑ C. M. quanto è severa; cioè
- ↑ C. M. combatrasi con tempesta et agra
- ↑ C. M. però è tutta arenosa: et è ivi
- ↑ C. M. sicché li miseri
- ↑ La sola religione rivelata può mandare in dileguo tutta la mostruosità de’ princìpi di socialismo e comunismo, a cui riesce molto acconcio anche il ragionamento del nostro Commentatore. E.
- ↑ C. M. l’acconcezza del furare:
- ↑ C. M. ànno fatto lo furto, cognosceno che anno mal fatto, e non vorrebbeno
- ↑ C. M. serpenti trafori
- ↑ C. M. lo forò
- ↑ C. M. in sul coppizol del collo:
- ↑ C. M. cioè giusta severità è giusta pura
- ↑ C. M. dà ai peccatori
- ↑ C. M. tana; ecco che si nomina per la città: Pistoia è una città di Toscana; e perch’elli à chiamato sè bestia, però dice che Pistoia li fu degna tana; cioè abitazione:
- ↑ Ribandire; revocare dal bando. E.
- ↑ C. M. era tenuto
- ↑ C. M. ser Nanni
- ↑ C. M. strumenti,
- ↑ C. M. non aveo colpa — Il nostro Codice riporta — avè — che è regolare desinenza dall’infinito avere, alla quale l’uso vuole surrogata l’irregolare ebbe. E.
- ↑ C. M. facesse pilliare per Nanni,
- ↑ C. M. l’animo è tolto
- ↑ 53,0 53,1 C. M. Malaspina: