Commedia (Buti)/Inferno/Canto XXVI
Questo testo è stato riletto e controllato. |
(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventiseiesimo
◄ | Inferno - Canto XXV | Inferno - Canto XXVII | ► |
C A N T O XXVI.
1Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
Che per mare, e per terra batti l’ali,
E per lo Inferno il tuo nome si spande.
4Tra li ladron trovai cinque cotali
Tuoi cittadini, onde mi vien vergogna,
E tu in grande onranza non ne sali.1
7Ma se presso al mattin del ver si sogna,
Tu sentirai di qua da picciol tempo
Di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
10E se già fosse, non saria per tempo:2
Così foss’ei, da che pur esser dee,
Che più mi graverà, con più m’attempo.3
13Noi ci partimmo, e su per le scalee,
Che il buior n’avea fatto scender pria,4
Rimontò il mio Maestro, e trasse mee.5
16E proseguendo la solinga via
Tra le scheggie e tra’ rocchi dello scoglio,
Lo piè sanza la man non si spedia.
19Allor mi dolsi, et ora mi ridoglio,
Quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi,
E più lo ingegno affreno ch’io non soglio,
22Perchè non corra, che virtù noi guidi;
Sì che, se stella buona, o miglior cosa
M’à dato il ben, ch’io stesso noi m'invidi.6
25Quante il villan ch’al poggio si riposa,7
Nel tempo che colui che il mondo schiara,
La faccia sua a noi tien meno ascosa,
28Come la mosca cede alla zenzara,8
Vede lucciole giù per la vallea,
Forse colà dove vendemmia et ara;
31Di tante fiamme tutta risplendea
L’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi,
Tosto ch’io fui dove il fondo parea.
34E qual colui, che si vengiò con li orsi,
Vide il carro d’Elia al dipartire,
Quando i cavalli al Cielo erti levorsi,9
37Che noi potea sì con li occhi seguire,
Ch’ei vedesse altro che la fiamma sola,
Sì come nuvoletta in su salire;
40Tal si movea ciascuna per la gola
Del fosso, che nessuna mostra il furto,
Et ogni fiamma un peccator invola.
43Io stava sopra il ponte a veder surto
Sì che, s'io non avessi un ronchion preso,10
Caduto sarei giù sanza esser urto.11
46E il Duca, che mi vide tanto atteso,
Disse: Dentro dai fuochi son gli spirti:12
Ciascun si fascia di quel ch’egli è inceso.
49Maestro mio, risposi, per udirti
Son io più certo; ma già m’era avviso13
Che così fosse, e già voleva dirti:
52Chi è in quel fuoco, che vien sì diviso
Di sopra, che par surger della pira,
Dov’Etiocle col fratel fu miso?14
55Rispuosemi: Là dentro si martira15
Ulisse e Diomede, e così insieme
Alla vendetta vanno, come all’ira:
58E dentro dalla lor fiamma si geme
L’aguato del caval, che fe la porta
Onde uscì de’ Romani il gentil seme.16
61Piangevisi entro l’arte, per che morta
Deidamia ancor si duol d’Achille,
E del Palladio pena vi si porta.
64S’ei posson dentro da quelle faville17
Parlar, diss’io, Maestro, assai ten prego18
E ripriego che il priego vaglia mille,19
67Che non mi facci dell’attender niego,
Fin che la fiamma cornuta qua vegna:
Vedi che del disio ver lei mi piego.
70Et elli a me: La tua preghiera è degna
Di molta loda, ond’io però l’accetto;
Ma fa che la tua lingua si sostegna.
73Lascia parlare a me, ch’io ò concetto
Ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbono schivi,20
Perch’ei fur Greci, forse del tuo detto.
76Poi che la fiamma fu venuta quivi,
Dove parve al mio Duca tempo e loco,
In questa forma lui parlare audivi:21
79O voi, che siete due dentro a un fuoco,
S’io meritai di voi, mentre ch’io vissi,
S’io meritai di voi assai o poco,
82Quando nel mondo li alti versi scrissi,
Non vi movete; ma l’un di voi dica,
Dove per lui perduto a morir gissi.
85Lo maggior corno della fiamma antica
Cominciò a crollarsi mormorando,
Pur come quella, cui vento affatica.
88Indi la cima qua e là menando,
Come fosse la lingua, che parlasse,
Gittò voce di fuori, e disse: Quando
91Mi diparti’ da Circe, che sottrasse
Me più d’un anno là presso a Gaeta,
Prima che sì Enea la nominasse;
94Nè dolcezza di figlio, nè la pietà22
Del vecchio padre, nè il debito amore,
Lo qual dovea Penelope far lieta,
97Vincer poter dentro da me l’ardore,23
Ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto,
E della vita umana e del valore;
100Ma misi me per alto mare aperto24
Sol con un legno, e con quella compagna25
Piccola, dalla qual non fui deserto.
103L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,
Fin nel Marrocco, e l’isola de’ Sardi,26
E l’altre che quel mare intorno bagna.
106Io e i compagni eravam vecchi e tardi,
Quando venimmo a quella foce stretta,
Dov’Ercole segnò li suoi riguardi,
109A ciò che l’uom più oltre non si metta.
Dalla man destra mi lasciai Sibilia,
Dall’altra già m’avea lasciata Setta.
112O frati, dissi, che per cento milia
Perigli giunti siete all’Occidente,27
A questa tanto picciola vigilia
115De’ nostri sensi (ch'è del rimanente?)28
Non vogliate negar l’esperienza,
Di retro al Sol, del mondo sanza gente.
118Considerate la vostra semenza:
Fatti non fosti a viver come bruti;2930
Ma per seguir virtute e conoscenza.31
121Li miei compagni fec’io sì acuti,
Con questa orazion picciola, al cammino,
Ch’appena poscia li avrei ritenuti;
124E volta nostra poppa nel mattino,
De’ remi facemmo ale al folle volo,
Sempre acquistando dal lato mancino.
127Tutte le stelle già dell’altro polo
Vedea la notte, e il nostro tanto basso,
Che non surgea fuor del marin suolo.
130Cinque volte racceso, e tante casso
Lo lume era di sotto della luna,
Poi ch’entrati eravam nell’altro passo,32
133Quando v’apparve una montagna, bruna33
Per la distanzia, e parvemi alta tanto,
Quanto veduta non avea alcuna.
136Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto:34
Chè della nuova terra un turbo nacque,
E percosse del legno il primo canto.
139Tre volte il fe girar con tutte l’acque,
Alla quarta levar la poppa in suso,
E la prora ire in giù, com’altrui piacque,
142In fin che il mar fu sopra noi richiuso.
- ↑ v. 6. C. M. orranza
- ↑ v. 10. C. M. non seria
- ↑ v. 12. C. M. com più m’attempo. — Con per com vive tuttora nella provincia Metaurense, per la facilità dello scambio dell’m in n. Così spene, vogliano in vece di speme, vogliamo. E.
- ↑ v. 14. Che n’avien fatti i borni a scender pria,
- ↑ v. 15. Mee; me, come per eufonia pronunzia anch’oggi il popolo in Toscana. E.
- ↑ v. 24. C. M. il bene io stesso non m’invidi,
- ↑ v. 25. C. M. Quando il villan
- ↑ v. 28. C. M. cade
- ↑ v. 36. Levorsi; sincope di levorosi, si levoro. E.
- ↑ v. 44. C. M. avesse un rocchion preso,
- ↑ v. 45. Urto; sincope di urtato, come cerco, trovo, tramonto e simili in cambio di cercato, trovato, tramontato. E.
- ↑ v. 47. C. M. dal fuoco
- ↑ v. 50. C. M. Sono più certo; ma già m’era viso
- ↑ v. 54. Miso; participio regolare dal perfetto misi, fu agli antichi molto famigliare, e già si truova in Ciullo d’Alcamo « Quante sono le schiantora Che m’ài mise allo core! ». Nella bassa latinità usavasi misus in vece di missus. E.
- ↑ v. 55. C. M. Rispuose a me:
- ↑ v. 60. C. M. uscìo
- ↑ v. 64. C. M. Se posson
- ↑ v. 65. C. M. ti prego
- ↑ v. 66. C. M. E riprego che il prego
- ↑ v. 74. C. M. ched ei sarebben schivi,
- ↑ v. 78. Audivi. La terza coniugazione presso gli antichi ebbe nel perfetto indicativo la prima persona singolare in ivi alla guisa latina. Brunetto, maestro che fu di Dante, cantò « Ch'audivi dir che tene Ogni uom, ch’ai mondo vene ». E.
- ↑ v. 94. C. M. del figlio,
- ↑ v. 97. C. M. poten
- ↑ v. 100. C. M. per l’alto mare
- ↑ v. 101. Compagna; propiamente in antico valeva adunanza di soldati, che imponevano taglie e balzelli. E.
- ↑ v. 104. C. M. Fin al Marocco
- ↑ v. 113. C. M. Perigli siete giunti
- ↑ v. 115. C. M. (che è di rimanente?)
- ↑ v. 119. C. M. Fatti non siete
- ↑ v. 119. Fosti; voce regolare e primitiva, cavata dal fuistis de’ Latini. Oggi segue l’opposito, perchè termina in i la seconda singolare, ed in e la plurale. E.
- ↑ v. 420. Conoscenza; appo i Classici de’ primi secoli di nostra letteratura significava sapienza, senno. E.
- ↑ v. 132. nell’alto passo,
- ↑ v. 133. C. M. n’apparve
- ↑ v. 136. Tornò in pianto; costruzione intellettiva, derivataci dai Greci. Qui il soggetto del verbo vuolsi dedurre dal contesto; l’allegrezza tornò in pianto. E.
___________
C O M M E N T O
Godi, Fiorenza, ec. In questo xxvi canto tratta l’autore dell’ottava bolgia, nella quale finge ebe sieno puniti li frudulenti 1; e dividesi questo canto in due parti principali, perchè prima pone come
passarono all’ottava bolgia, e quel che quivi trovarono; nella seconda
parte pone la preghiera di Dante a Virgilio, che volle avere notizia
d’alcuni spiriti di quella bolgia, et incomincia quivi: S’ei posson dentro ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide tutta in otto parti, perchè prima, dipartendosi dalla sua materia, pone una 2 detestatoria esclamazione, o vero reprensione, alla sua città di Fiorenza, nella quale profetezza 3, o vero annunzia, di spaventare la sua città di male che li dee avvenire; nella seconda pone lo suo dipartimento della settima bolgia, e l’avvenimento all’ottava, quivi: Noi ci partimmo, ec.; nella terza pone come ebbe pentimento d’avere esteso lo ingegno al male più, che non dovea, quivi: Allor mi dolsi, ec.; nella quarta pone una similitudine, quivi: Quante il villan ec.; nella quinta pone un’altra similitudine, quivi: E qual colui, ec.; nella sesta pone come stava assiso a guardare ciò che vedea nell’ottava bolgia, e come Virgilio sanza domanda lo dichiara, quivi: Io stava ec.; nella settima Dante domanda d’alcuna 4 anima che vede divisa, quivi: Maestro mio, ec.; nell’ottava risponde Virgilio, quivi: Rispuosemi: ec. Divisa la lezione, è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poiché l’autore à dimostrato nel canto precedente come trovò nella settima bolgia cinque cittadini fiorentini, schernendo la sua città, dice incominciandosi così: Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, che batti l’alie per mare e per terra, et ancora per l’inferno si stende il tuo nome; ecco la prova 5: Tra li ladroni trovai cinque cotali tuoi cittadini, ond’io me ne vergogno e tu ancora non ne acquisti onore; ma se li sogni che vengono presso al mattino sono veri, tu sentirai innanzi a picciol tempo di quel che Prato ti minaccia, non ch’altri; e se ora fosse, non sarebbe troppo tosto: così foss’elli ora, poi che pur deve essere, che più mi graverà quanto più s’indugia. E poi ch’à detto questa profezia, dice che si partirono della settima bolgia, e dice che rimontarono in su la proda della settima bolgia ond’erano scesi; e dice, ch’andando per quella via solinga tra le scheggie e tra i ronchi dello scoglio, non potea andare coi piè che non s’appoggiassono con le mani. E vedendo l’ottava bolgia e quello ch’era in essa, si dolse allora, et ancora quando questo scrisse, ricordandosi di quel ch’avea veduto, e raffrenava lo ingegno suo sì, che non trascorresse per sua prestezza sanza la virtù: imperò che elli stessi sel potea togliere, e così ciascuno si può torre lo bene dell’ingegno che gli è dato da costellazione o da altra cosa megliore; cioè Idio, quando discorrea sanza lo guidamento della virtù. E ciò dice per quelli di che tratterà di sotto, che furono ingegnosissimi uomini et aoperaronlo in male, come apparirà quando si sporrà la lettera puntualmente: et aggiugne poi una similitudine che, come il villano che sta la state in sul poggio e vede la sera, quando lo sole è tramonto 6 e le zenzare sono uscite fuori e tutta la valle è piena di lucciole sopra li suoi colti e vigneti; così vide elli tutta l’ottava bolgia, quando fu in sul mezzo del ponte che valicava, piena di fiamme: et aggiugne un’altra similitudine che, come Eliseo profeta che fe vendetta con li orsi, vide il carro d’Elia, quando fu ratto al cielo da’ cavalli, che subito si levarono in suso in verso il cielo, che non potea vedere se non la fiamma andare in su, come nuvoletta; così parea vedere a lui per quel fosso andare le fiamme, ch’aveano ciascuna uno peccatore e non si vedea se non la fiamma; onde dice che stava sopra il ponte sì fermo, che se non si fosse attenuto ad uno ronchione, elli sarebbe caduto sanz’essere sospinto. E dice che allora Virgilio che il vide stare sì attento, lo dichiarò e disse: Dentro da codeste fiamme sono spiriti fasciati da esse; et allora Dante risponde che ben li pare così, e domanda Virgilio chi era dentro a una fiamma che vedea venire, la quale avea due punte, come quella che arse due fratelli tebani; cioè Etiocle e Polinice. Allora Virgilio li rispose che in quella fiamma erano Ulisse e Diomedi greci, i quali andavano insieme alla pena come andarono al peccato; e racconta come quivi portano pena dello inganno del cavallo, col quale presono e disfeciono Troia, della quale uscirono i Romani, come appare per l’istorie, e lo inganno che feciono a conoscere Achille, ch’era appiattato tra le figliuole del re Licomede, re di Schiro; e lo inganno che feciono alla rocca del re Priamo, quando tolsono il Palladio. E qui finisce la prima lezione del canto: ora è da vedere il testo con l’esposizioni.
C. XXVI — v. 1-12. In questi quattro ternari l’autor nostro, facendo digressione dalla materia sua, usa in verso la sua città uno colore retorico, che si chiama in lingua greca apostrofa, et in lingua latina si chiama esclamazione; e fassi quando li autori ànno parlato in terza persona, e poi divertono lo parlare in seconda persona, o a persona assente, o a luogo, come fa ora l’autor nostro, ch’avendo parlato di cinque cittadini fiorentini che à finto che siano nella settima bolgia, perchè commisono furto e ladroneccio, volge lo parlare suo alla sua città, usando colore sopraddetto in materia derisoria: imperò che s’usa in quattro modi, com’appare nella Poetria novella. E fa l’autore due cose, perchè prima pone la detta riprensione 7; nella seconda, per ritrarli dal male, aggiugne uno tristo annunzio d’aversitade, et è la seconda parte, quivi: Ma se presso ec. Riprende prima, e però egli schernendo la sua città, dice: Godi, Fiorenza; et è qui ancora una figura che si chiama ironia, quando le parole s’intendono per lo contrario ch’elle sonano, come qui che dice: Godi; quasi dica: Duolti e piagni, Firenze: questa ironia è necessaria, quando si fa l’apostrofa in materia derisoria, et usansi le sentenzie che sono mal dette et aggiugnesi a quelle la sentenzia vituperosa, come fa ora l’autore, dicendo: poi che se’ sì grande; erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, et erano in mare et in terra, di che forse li Fiorentini se ne gloriavano 8; della quale glorificazione facendosene beffe l’autore dice: Poi che tu se’ sì grande, tu Fiorenza, Che per mare, e per terra batti l’ali; come schernendo, dica: Poi che tu voli per mare e per terra, E per lo Inferno il tuo nome si spande; ecco la sentenzia vituperosa che manifesta l’ironia quasi dica: Tanto se’ grande, che non ti basta lo mare e la terra; ma ancora l’inferno è pieno di te. Tra li ladron; ora aggiugne la pruova di quel ch’à detto ora, la quale è vituperosa; e però si dimostra che più tosto dee piagnere e dolersi, che godere. Dice: Tra li ladroni: imperò che di sopra à trattato nella settima bolgia de’ furi e ladroni, nella quale à finto che trovò cinque 9 ladroni di Firenze; cioè messer Cianfa de’ Donati, Agnello de’ Brunelleschi, Buoso degli Abbati, Puccio Sciancato, e Francesco Cavalcanti; e però dice: trovai cinque cotali Tuoi cittadini; chenti sono nominati di sopra, onde mi vien vergogna; quasi dica: Io me ne vergogno, E tu; cioè Fiorenza, in grande onranza; cioè in grande onore et onoranza, non ne sali; cioè non ne sormonti e monti per questo; ma più tosto in vituperio quanto alla verità. Fatta questa esclamazione, aggiugne uno tristo annunzio, o vero profezia, narrandola sotto spezie di sogno, per ritrarre la sua città da’ vizi, predicendo che l’ira di Dio permetterà che sia punita, dicendo: Ma se presso al mattin del ver si sogna; questo dice, perchè comunemente si dice che i sogni fatti press’al mattino sono più veri che li altri; e perchè questo era suo parlare finge che li sia manifesto per modo di sogno, che forse elli congetturava per li segni ch’egli vedea, Tu; cioè Firenze, sentirai di qua da picciol tempo; cioè inanzi a picciol tempo; e però dimostra che tosto sarà, Di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna; cioè di quel che Prato, che è uno castello presso a Firenze a X miglia, sotto la signoria de’ Fiorentini: agogna; s’intende qui minaccia: per ciò che il cane, quando è bene crucciato, abbaiando agogna; e piglia argomento delle cose minori, quasi dica: Se Prato, ch’è così piccolo per rispetto della tua grandezza, ti minaccia, che ti faranno l’altre grandi città che ti sono d’intorno? Quasi dica: Vie più di lui. E se già fosse, non saria per tempo; quasi dica: Se ora fosse, non sarebbe innanzi tempo, come dicesse: Tu l’ài già bene meritato: Così foss’ei, da che pur esser dee; cioè or foss’elli ora, al presente, da poi che dee essere, Che più mi graverà; cioè a me Dante l’avvenimento di questo, che minaccia Prato e l’altre terre maggiori, con più m’attempo; cioè quanto più indugerà a essere, tanto mi fia più grave: imperò ch’io vorrei che già fosse perchè ò desiderio non di vedere male alla mia città; ma a quelli cittadini che la reggono che mi sono avversi, acciò ch’io vegga fare vendetta delle lor ree operazioni, e questo sarebbe zelo di giustizia. Altra sentenzia ci può essere migliore; cioè che l’autore dica questo sogno in gastigamento de’suoi fiorentini, quasi dica: Io ò avuto revelazione in sogno di quel che ti minaccia Prato e altre terre più potenti che Prato, che tosto lo debbi sentire: vorrei che si cessasse; ma se cessare non può, vorrei che fosse tosto: imperò che quanto più invecchierò, tanto più me ne dorrà; e questo per due respetti. Lo primo, perchè tutta via starò in questo dolore infin che la cosa sia avvenuta, e poi che la cosa fie avvenuta, si smaltirà lo dolore; l’altro respetto può essere, perchè avrò in processo di tempo meno turbato l’animo in verso i Fiorentini che ora, perchè l’odio si dimentica dalli animi buoni per processo di tempo; e così più mi dorrà allora dell’avversità, che non farebbe ora che l’odio è acerbo. E sopra questa parte è da notare che, secondo Macrobio Super Somnio Scipionis, cinque sono le spezie de’ sogni; cioè sogno, visione, oraculo, insogno e fantasia 10. Sogno, benché sia general nome di tutti, si pone per una spezie; cioè quando l’uomo sogna quello che poi addiviene; ma non lo vede chiaro; ma sotto figure e velamenti: e questa spezie à sotto di sè cinque altre spezie; cioè propio, straniero, comune e publico e generale; è sogno quello dell’autore in quella spezie che si chiama publico: oraculo è quando nel sonno o Idio, o Santi, o persona d’autorità, o padre, o madre, apertamente dice quel che dee venire e che non; o quel che si dee fare e che non: visione è quando l’uomo nel sonno vede chiaramente e manifestamente quello, che poi il di’ li addiviene: insogno è quando l’uomo per le cure che à nell’animo sopra ciò sogna, che à nell’animo: fantasma, o vero viso, è quando l’uomo nè bene dorme, nè bene vegghia, e parli veder figure contra natura; e queste due ultime spezie niente significano. È anco da notare che presso sul mattino sono le tre spezie di prima, e però sono vere che sempre significano qualche cosa: imperò che in quel tempo non può essere insonnio, nè fantasma, che non ànno a significare. Oltre a questo si dee notare che, benché l’autore finga sogno, elli vuole intendere, che se presso al venire delli effetti, l’uomo può congetturare per li segni che vede inanzi, elli già vedea che in corto tempo Firenze dovea avere novità, per quel che Prato s’apparecchiava di fare con l’altre terre di Toscana. E qui finisce la disgressione che à fatto l’autore, per riprendere la sua città.
C. XXVI— v. 13-18. In questi due ternari finge l’autor che si partì della settima bolgia, e montò in sul ponte dell’ottava, e mostra la malagevolezza che fu a ritornare in sul ponte, dicendo: Noi ci partimmo; cioè io Dante e Virgilio, della settima bolgia, e su per le scalee; cioè per la digradazione delli scogli fatti come scale, benchè malagevoli e faticose, come si mostra di sotto, per le quali erano discesi dal ponte; e però dice: Che il buior n’avea fatto scender pria; quasi dica: Le quali scalee noi eravamo scesi: però che per lo buiore d’in sul ponte non potea discernere quel ch’era nella settima bolgia: imperò che qui era oscurità grande, come richiede chi fura o fa ladroneccio, come esposto fu di sopra, Rimontò il mio Maestro; cioè Virgilio, e trasse mee; cioè Dante. E questa fizione si conviene secondo la lettera, considerando quel che detto fu di sopra; ma allegoricamente intende di quelli del mondo che, poi che la ragione è discesa a guidare la sensualità a considerare le pene de’ furi e ladri che d’appresso si convengono vedere, perchè in occulto si fanno, ella si ritorna 11 in alto a considerare li altri peccati e vizi più gravi: imperò che da luogo alto convien che si vegga la viltà del peccato, che si commette per sottigliezza d’ingegno, altrimenti si potrebbe immergere in esso: imperò che se l’intelletto non stesse in alto, non potrebbe comprendere la bassezza del peccato: imperò che il peccato l’accecherebbe sì, che s’imbrutterebbe in esso. E proseguendo la solinga via; cioè io Dante e Virgilio; e dice solinga: però che nell’inferno è solitudine: imperò che quivi non sono corpi, et èvi silenzio; et a dimostrare che ciascuno sta nel suo luogo ove è punito, e non si va discorrendo, e però dice così. Ma allegoricamente intende che nel mondo pochi sono che vadano considerando la viltà de’ peccati sì, che tal via è solinga. Tra le scheggie e tra’ rocchi dello scoglio; cioè della pietra che passa l’ottava bolgia in modo di ponte; e così dimostra la malagevolezza che è a partirsi dal peccato: che sia scheggia e rocco fu posto 12 di sopra; parte sono di pietre grandi di monti, fatte alte a modo di rocchetti, e parte per lungo a modo di scheggia di legna. Lo piè sanza la man non si spedia; manifesta la malagevolezza del luogo, dicendo che sì erano aspre quelle pietre, che il piè non si spacciava, se la mano non s’afferrava o appoggiava; e per questo vuole allegoricamente significare che dal furto e ladroneggio non si spaccia l’affetto, che è significato da’ piedi, sanza la mano; cioè sanza l’opera, che è significata per la mano.
C. XXVI — v. 19-24. In questi due ternari l’autor nostro pone uno bello notabile, dicendo che, quando vide quel ch’era nell’ottava bolgia, elli si dolse, et ora si riduole quando si ricorda di quel che vide, dicendo: Allor mi dolsi; io Dante quando vidi l’ottava bolgia, et ora mi ridoglio; che sono nel mondo, Quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi; cioè quand’io Dante mi ricordo di quel che vidi nell’ottava bolgia; cioè la pena de’ fraudulenti, che aveano operato loro ingegno al male, E più lo ingegno affreno ch’io non soglio; cioè tempero et affreno lo mio ingegno, che non scorra alle sottigliezze delli inganni, Perchè non corra, che virtù nol guidi; cioè perchè non adoperi la sua sottigliezza, se non nelli atti virtuosi; Sì che, se stella buona; questo dice per satisfare a coloro che dicono che lo ingegno nostro adopera, secondo che è illustrato di sopra dalle influenzie delle stelle, o miglior cosa; e questo dice, seguendo coloro che dicono che è dato da Dio immediatamente, M’à dato il ben; cioè la bontà e la sottigliezza dello ingegno, ch’io stesso nol m’invidi; cioè per invidia non mel guasti, adoperandolo al male et a’ vizi; e parla qui transuntivamente che, come lo invidioso converte il bene altrui in male, s’elli può; così fa colui che converte lo ingegno buono e sottile ad aoperare il male. Et è qui da notare che l’autore dimostra qui lo ingegno umano esser dato da Dio sanza mezzo all’uomo, quando l’anima si congiugne col corpo, di grazia speziale, o per mezzo delle costellazioni che ànno ad aoperare nelle cose di qua giù, secondo che Idio à operato 13 et imposto loro: e questo ingegno è quello che i Poeti chiamano genio, che fìngono che è uno idio singulare a ciascuno uomo, col quale nasce e muore; et è mutabile, secondo che dice Orazio, e così veggiamo di fatto che alcuna volta sta l’uomo con uno ingegno grosso un pezzo, e poi s’assottiglia; e così ancora nell’altre cose, come può essere manifesto a chi considera le parole dell’autore predette 14.
C. XXVI — v. 25-33. In questi tre ternari l’autor nostro, fingendo lo suo poema, pone una similitudine, dicendo che come la state da sera si veggono da colui che è in sul poggio la valle piena di lucciole 15: così elli d’in sul ponte dell’ottava bolgia vedea tutta la bolgia piena di fiamme, che volavano oltre per la bolgia, e però dice: Quante il villan; cioè lo contadino, ch’al poggio si riposa; cioè nel monte ove elli abita la sera, quando è tornato stanco dal lavorio, Nel tempo che colui che il mondo schiara; cioè nella state, nella quale il sole che illumina il mondo, La faccia sua a noi tien meno ascosa: imperò che d’istate sta più nel nostro emisperio, che di verno; e così meno tempo ci s’appiatta, o vuogli, si nasconde meno a noi, che i di’ sono grandi e le notti piccole, Come la mosca cede alla zenzara; cioè come le mosche danno luogo alle zenzare 16; cioè come è sera che le mosche, che sono state et ite volando il di’, s’appiattano la sera, e le zenzare escono fuori, Vede lucciole giù per la Vallea; cioè le vede giù per la valle: le lucciole sono piccoli animali, come le mosche, ch’ànno il ventre lucido che pare che sia fuoco, e chiudono et aprono questo fulgore, secondo che si chiudono et aprono con l’alie, quando volano, Forse colà dove vendemmia et ara; cioè per avventura nelli suoi campi e ne’suoi vigneti, ch’elli lavora; Di tante fiamme tutta risplendea L’ottava bolgia; ora adatta la similitudine, dimostrando la grande quantità dell’anime che quivi erano, dicendo che l’ottava bolgia risplendea di tante anime, quante vede lo villano lucciole nella sua valle; ma non è la similitudine nel modo: imperò che quelle non chiudevano, come le lucciole, e poi ancora erano maggiori, si com’io m’accorsi; cioè io Dante, Tosto ch’io fui dove il fondo parea; cioè com’io fui montato in sul mezzo del ponte, onde si vedea lo fondo dell’ottava bolgia: e qui non è altra esposizione che litterale.
C. XXVI — v. 34-42. In questi tre ternari l’autor nostro aggiugne un’altra similitudine più vera, quanto al modo, dicendo che, come Eliseo profeta, che fu discepolo d’Elia, andò con Elia al luogo dove Idio li avea comandato, che il volea far togliere di questa vita e porlo nel paradiso delitiarum, vide uno carro di fuoco apparecchiato, in sul quale montò Elia e lasciò lo spirito suo di profezia ad Eliseo, sicché Eliseo n’ebbe poi due, Eliseo non potò tanto guardare 17 poi che’ cavalli cominciarono a levarsi alti in verso il cielo, che elli potesse vedere d’Elia nulla se non lo fuoco; e così elli vedea le fiamme andare per l’ottava bolgia e nessuna mostrava il peccatore che v’era dentro; onde dice: E qual colui; cioè Eliseo, che si vengiò; cioè vendicò de’ fanciulli che faceano beffe di lui, con li orsi; cioè con quelli feroci animali che li vendicarono, o vero divorarono; questo dice per tanto: imperò che tornato Eliseo dal luogo, ond’era Elia assunto nel paradiso delitiarum, piangea Elia suo maestro; onde li fanciulli faceano beffe di lui, dicendo: Vedi questo che è vecchio e piange lo maestro suo; onde Eliseo pregò Idio che mandasse sopra di loro orsi che li divorassino, e così addivenne, Vide il carro d’Elia al dipartire; tutto fuoco, Quando i cavalli; che menavano questo carro, al Cielo erti levorsi; cioè alti in verso lo Cielo, Che nol potea; cioè Eliseo, sì con li occhi seguire; quel corpo 18 ardente ov’era Elia, Ch’ei vedesse altro che la fiamma sola, Sì come nuvoletta in su salire; cioè verso il Cielo; Tal si movea ciascuna; cioè fiamma, quivi adatta sua similitudine, per la gola Del fosso; cioè per la lunghezza dell’ottava bolgia ch’era a modo d’uno fosso, che nessuna 19 mostra il furto, Et ogni fiamma un peccator invola; cioè et ogni fiamma avea dentro da sè uno peccatore appiattato, che non si dimostrava. E per questo si manifesta la pena che sosteneano quelli dell’ottava bolgia, e però qui vederemo qual peccato si punisce qui e le sue spezie, compagne e figliuole, e le pene che si convengono a tale peccato, e li rimedi che sono contra tale peccato. E prima è da sapere che in questa ottava bolgia si punisce, secondo che finge l’autore, l’ottava spezie della fraude che si chiama fraudulento consiglio: et è fraudulento consiglio quello che viene a danno del prossimo con apparenzia di bene, acciò che non se ne possa guardare, e non s’intende che vegna contra colui al quale à data la fede, che allora sarebbe tradimento, del quale si tratterà nel nono et ultimo cerchio dell’inferno. E le spezie sue sono tre: imperò che il frodolente consiglio o elli si dà a parole, come fece il conte Guido al papa Bonifazio; o elli si dà con atti, come fece Tarquino al messo che gli avea mandato il figliuolo, che abbattea li papaveri più alti con la verga che tenea in mano nell’orto nella presenzia del messo; o elli si dà con iscrittura, come se ne può avere molti esempri. Le sue compagne sono simulazione, bugia, falsità, occultazione e rebellione da virtù: le sue figliuole sono danno dell’avere del prossimo, ruina della sua persona, destruzione di città, guerre, battaglie, divisione d’amici o di fratelli o di compagnie: li rimedi da fuggire sì fatto consiglio sono la carità del prossimo, raffrenamento dello ingegno, come toccò l’autore di sopra, respetto del fine: le pene che si convengono a sì fatto peccato sono discorrimento, fiamme di fuoco, appiattamento nelle fiamme; e queste pene convenientemente, secondo la lettera, finge l’autore essere all’infernali: imperò che degna cosa è che chi è stato turbatore della pace e riposo altrui, non abbia riposo e che sempre discorra; e chi è stato privato della carità del prossimo et à avuto lo ingegno ardente a nuocere, sostenga incendio ed arsione; e chi à operato tale inganno in occulto, sia occulto nel fuoco. Et allegoricamente si truovano queste cose in quelli del mondo, che sempre lo ingegno sta occupato nelli inganni e rei pensieri, e sempre ardono li loro animi di mal desiderio, che lo inganno vegna fatto, e mai non si posano 20 perchè sempre pensano tale inganno.
C. XXVI — v. 43-48. In questi due ternari finge l’autore come elli stava attento in sul ponte a vedere quelle fiamme ch’à detto di sopra, e come Virgilio li manifesta quello che e’ vide; unde dice così: Io; cioè Dante, stava sopra il ponte; che era sopra l’ottava bolgia, a veder; cioè quello ch’era nell’ottava bolgia, surto; cioè fermo, come si dice surta l’àncora, quando è fermata, Sì; cioè per sì fatto modo che, s’io non avessi un ronchion preso; di quegli scogli del ponte, in sul quale io mi fermava, Caduto sarei giù; della bolgia, sanza esser urto; cioè sanza esser sospinto. Et è qui notabile che l’uomo non può durare a star ritto, che non si muova qualche parte del corpo o piè o mano o capo o qualche membro, altrimenti cadrebbe giù, se già non s’appoggiasse; e la cagione è: imperò che l’anima si ritira dall’attività, ch’ella à col corpo, tutta a sè et abbandona21 lo corpo, viene meno come quando l’uomo dorme o quando muore. Seguita come Virgilio, avvedendosi del suo stare atteso, lo dichiara dicendo: E il Duca; cioè Virgilio, che mi vide tanto atteso; cioè me Dante, Disse; a me: Dentro dai fuochi son gli spirti: de’ peccatori ch’ànno dato fraudulento consiglio, Ciascun; spirito, si fascia di quel ch’egli è inceso; cioè della fiamma che l’incende, sì come stato è nel mondo acceso a consigliare con inganno a fare perire il prossimo.
C. XXVI — v. 49-54. In questi due ternari risponde l’autore a Virgilio che ben li parea così, e finge l’autore com’elli domandò Virgilio chi era dentro a una fiamma, ch’era divisa di sopra, come quella di quelli due fratelli tebani, dicendo: Io; cioè Dante, risposi; alle parole dette di sopra da Virgilio: Maestro mio, per udirti; cioè per udir te, Son io più certo; che prima; ma già m’era avviso; cioè mi parea, Che così fosse; come tu ài detto, e già voleva dirti; e soggiugne la domanda sua, dicendo: Chi è in quel fuoco, che vien sì diviso Di sopra; e questo dimostra ch’elli vedesse venire una fiamma, ch’avea due punte, che par surger; cioè levarsi, della pira; cioè della catasta, delle legne22 che fu fatta da Antigone sirocchia e da Argìa moglie di Polinice, per ardere lo corpo di Polinice; e per caso, portato lo corpo di Polinice da loro al fuoco ove s’ardea lo corpo d’Etiocle, la fiamma si divise come si dirà ora. Recita Stazio nel libro che fece di Tebe come Etiocle e Polinice furono fratelli e figliuoli del re Edipo di Tebe, li quali, poi che il padre s’accecò, avendo la signoria partironla in questo modo, che ciascuno dovesse tenere lo regno un anno, e l’altro andasse a procacciare sua ventura; e così toccò lo primo anno ad Etiocle, e Polinice andò errando per la Grezia, e finalmente pervenne al re Adrastro23, re d’Argo lo quale li diede la figliuola chiamata Argìa per moglie. Et in questo mezzo, passato l’anno, e volendo ritornare Polinice per lo regno, Etiocle glie ne negò, onde Polinice si mosse con grande esercito di sette re di Grezia, et andonne a Tebe et assediolla, e finalmente dopo molte battaglie vennono a singular battaglia Etiocle e Polinice, e per avvicendevoli ferite caddono amendu’ morti, sì che poi la notte, andando Argìa moglie di Polinice a ritrovar lo corpo suo per arderlo, come era usanza, ritrovossi con Antigone sirocchia del detto Polinice, e lavato lo corpo e portatolo a uno fuoco ove s’ardea lo corpo d’Etiocle, non sappiendo però che fosse Etiocle, gli aggiunsono insieme, et incontanente la fiamma di sopra si dividè in due; e per questo s’avvidono che quello era lo corpo di Etiocle. E pertanto fa l’autore questa similitudine, dicendo che così parea fatta la fiamma ch’elli vide, e però dice: Dov’Etiocle col fratel; cioè con Polinice, fu miso; cioè messo da Antigone e da Argìa?
C. XXVI — v. 55-63. In questi tre ternari l’autor nostro pone la risposta, che finge che facesse Virgilio alla sua domanda, così dicendo: Rispuosemi; cioè Virgilio a me Dante: Là dentro; cioè in quella fiamma, si martira Ulisse e Diomede; questi furono due baroni di Grezia, i quali furono insieme con li altri re e signori di Grezia alla destruzione di Troia, e furono maliziosi uomini e grandissimi compagni; e però i Greci commetteano a questi due ogni grande fatto che richiedesse grande ingegno, e sempre a questi fatti andavano insieme, et ogni fraudulento consiglio venia dal loro; e però finge l’autore che fossono tormentati insieme in un fuoco, e però dice: e così insieme Alla vendetta; cioè alla pena, alla quale sono giudicati nello inferno, vanno; cioè Ulisse e Diomede, come all’ira; cioè come andarono, quando erano nel mondo, all’ira; cioè al peccato. E convenientemente lo peccato si chiama ira: imperò che all’uomo fu dato da Dio la concupiscibilità, perchè desiderasse il bene; e la irascibilità, perchè schifasse lo male; e la ragione, perchè conoscesse lo bene dal male. Addiviene che la ragione pratica s’inganna spesse volte, e giudica esser bene quel che non è, e male quel che non è; e però addiviene che questi uomini maliziosi, che sono tenuti savi secondo il mondo, danno frodolenti consigli, parendo loro spegnere un grande male e fare uno grande bene; la quale cosa fia per contrario, e però ira li muove ad ingannare con loro ingegno li altri uomini. E pertanto ogni peccato mentale si può chiamare ira; li corporali e carnali, no; e perciò notantemente disse di sopra, che senza ira non entrerebbono nella città Dite, perchè quivi si puniscono li peccati mentali; e chiamali mentali: imperò che, benchè in alcuni s’aoperi lo corpo, lo suo movimento viene dalla malizia della mente. Seguita E dentro dalla lor fiamma si geme; cioè dal lor fuoco si porta pena; cioè per loro, L’aguato del caval, che fe la porta Onde uscì de’ Romani il gentil seme; qui dice come Ulisse e Diomede portano insieme pena del mal consiglio che dierono a’ Greci, che prendessono Troia col consiglio del cavallo, o vero d’inganno; lo quale cavallo finsono fatto in onore di Pallade dea della sapienzia, perchè l’aveano offesa pigliando lo suo Palladio, come si dirà di sotto; lo quale cavallo empierono dentro d’uomini armati, e fu sì grande che convenne che si rompessono le mura di Troia, per metterlo dentro: la storia è tanta 24 manifesta che però la lascio. Aggiugne che n’uscirono per quella porta, onde entrò il cavallo, quelli Troiani che vennono in Italia poi con Enea, de’ quali discesono Romolo e Remolo 25, li quali edificarono Roma. Piangevisi entro; cioè in quella fiamma, l’arte; cioè la fraude che usarono a conoscere Achille, quando era appiattato in abito feminile tra le figliuole di Licomede, re di Schiro, con le quali stando, s’innamorò con la maggiore ch’ebbe nome Deidamia, et ingravidolla e nacquene Pirro innanzi che si partisse da lei. E costretto da costoro con inganni e con fraudilenti consigli, ingannato lasciò Deidamia col figliuolo et andò all’assedio 26 di Troia, ove elli innamorato di Polissena figliuola del re Priamo fu morto, sì che mai non ritornò a Deidamia. Il modo come lo riconobbono, dice Stazio nell’Achilleide, e di sopra è posto nel quinto canto, e similmente come fu morto, e però si ritruovi qui da chi lo vuole sapere. Dice: per che morta Deidamia; cioè per la quale arte Deidamia morta, ancor si duol d’Achille; questo dice, perchè in vita si dolse d’esser lasciata da Achille, e così se ne duole ora che è morta; e questa è sentenzia di Virgilio nel sesto, ove dice: Curae non ipsa in morte relinquunt, e però finge che questo dica Virgilio. E del Palladio pena vi si porta; cioè dentro a quella fiamma: lo Palladio fu una statua di Pallade, ch’era la dea della sapienzia; la quale statua era nella rocca di Troia nel tempio di Pallade: però che tutte le rocche si consecravano a Pallade, et era scritto di sotto a questa statua: Beata civitas, in qua est imago haec, quia non poterit capi, nec igne cremori, donec ibi fuerit; cioè beata quella città, nella quale è questa imagine: però che quella città non potea essere presa, nè arsa per fuoco, mentre che quella statua stava quivi salva. Onde Ulisse, avendo spiato questo e Diomede, andarono furtivamente una notte nella detta rocca, et uccisono le guardie, e portarono via il Palladio; la quale cosa la dea Pallade ebbe forte a male et in desdegno, secondo che pone Virgilio, nella sua Eneida, ove dice: Fatale aggressi sacrato avellere tempio Palladium, cœsis summœ custodibus arcis; e per questo finge l’autore ancora che questo fosse detto da Virgilio. E perchè tutte le sopraddette cose furono fatte da loro con frodolente consiglio in grande danno d’altrui, sì come appare del cavallo che fu destruzione della città, e l’abbandonamento di Deidamia che fue moglie d’Achille, e seguitonne la morte di Achille, e del Palladio che fu ancora cagione della destruzione di Troia e della morte delle guardie, però finge che ne patiscano pena dentro da quelle fiamme; e perchè furono compagni a far quelli mali, però finge che sieno puniti insieme. E qui finisce la prima lezione.
S’ei posson dentro ec. Questa seconda lezione contiene lo priego dell’autore, che volle aspettare la fiamma detta di sopra, per avere certezza della loro morte; e come ne fu certificato. E dividesi questa lezione in sei parti, perchè prima pone come priega Virgilio dell’aspettare; nella seconda, come Virgilio esaudisce lo priego suo e dilibera di domandare quelle anime, quivi: La tua preghiera ec.; nella terza si pone la domanda che fece Virgilio, quivi: O voi, che siete ec.; nella quarta pone la risposta che diede una di quelle due anime, quivi: Lo maggior corno ec.; nella quinta pone come quell’anima nel suo parlare continuando, dimostra uno conforto che diede a suo’ compagni, quivi: O frati, dissi, ec.; nella sesta pone come, seguitati lo suo conforto, tutti perirono, quivi: Li miei compagni ec. Divisa la lezione, è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poi che Virgilio manifestò a Dante che in quella fiamma era Ulisse e Diomede, e per che peccato erano dannati a quella pena, finge l’autore ch’elli pregasse Virgilio che, se potevano parlare dentro quella fiamma, ch’elli li concedesse d’aspettarli. Et allora Virgilio li rispuose che il suo priego era laudabile e che l’accettava, et ammonillo che stesse cheto e lasciasse parlare a lui, ch’elli s’avea conceputo quel che Dante volea sapere, e coloro erano Greci, sì che forse non avrebbono voluto rispondere a Dante. E poi che la fiamma che fu approssimata, dice che Virgilio parlò in questa forma, quando li parve tempo e luogo: O voi, che siete due dentro da codesto fuoco, state fermi, se io ò meritato punto da voi per lo mio scrivere di voi nel mio poema; ma l’uno di voi parli ove andò a morire, quando si perdette in mare. Allora dice che quel corno, ch’era maggiore di quella fiamma biforcuta, si cominciò a scrollare27 et a mormorare, come veggiamo fare spesse volte il fuoco per vento ch’esce della casa28 arsa; e movendo la cima della fiamma qua e là come fosse la lingua, cominciò a parlare e disse: Quando mi partii da Circe, maga e incantatrice che mi tenne più d’un anno in una isola presso a Gaeta, la quale fu chiamata Gaeta primamente da Enea, non mi potè vincere l’amore, la dolcezza del figliuolo e la pietà del padre mio vecchio, nè il debito amore della mia moglie Penelope, ch’io non mi volessi certificare del mondo e della vita umana; ma misimi per alto mare con uno legno e con quella compagnia piccola che m’era rimasa, la quale mai non m’abbandonò, e cercai tutto lo ponente infino al Marrocco; e già eravamo vecchi, quando venimmo alle colonne d’Ercole, poste da lui per segno che l’uomo non dee andare29 più oltre e passammo oltre tra Setta e Sibilia, e confortati ch’io ebbi li compagni, pigliamo voga in verso lo cadimento del sole, et in verso mano manca sempre acquistando; e già eravamo iti cinque mesi tanto oltre, che vedevamo le stelle dell’altro emisperio, et apparveci uno nero da lungi che ci parea una montagna più alta, che mai n’avessi veduta veruna, di che pigliammo allegrezza; ma tosto ci tornò in pianto: imperò che da quella terra venne una parimula30 et uno turbinio di vento che percosse tanto forte lo legno nostro, che lo fece girare tre volte, e la quarta volta la prora andò giù e la poppa in insù, e il mare si richiuse sopra noi. E qui finge l’autore che finisce Ulisse lo suo parlare, et elli finisce lo suo canto. Ora veduta la sentenzia litterale, è da vedere lo testo con le esposizioni.
C. XXVI — v. 64-69. In questi due ternari l’autor nostro finge che pregasse Virgilio che li concedesse di aspettar quella fiamma, perchè avea desiderio di parlargli; onde dice: S’ei posson Parlar; quelli che ài contato; cioè Ulisse e Diomede, dentro da quelle faville; nelle quali sono, diss’io; cioè Dante, Maestro, assai ten prego; cioè te Virgilio: imperò la ragione significata per Virgilio è maestra alla sensualità significata per Dante, E ripriego; cioè un’altra volta priego, che il priego vaglia mille; cioè prieghi, Che non mi facci dell’attender niego; cioè dell’aspettare, Fin che la fiamma cornuta; cioè quella ov’era Ulisse e Diomede, ch’avea due punte a modo di corna, qua vegna: imperò che le fiamme andavano in verso il ponte ov’elli erano: Vedi che del disio; cioè per lo desiderio ch’io ò di parlargli, ver lei mi piego; cioè per la grande affezione che n’avea, finge che si piegasse in verso la fiamma; e qui non è altra esposizione.
C. XXVI — v. 70-78. In questi tre ternari l’autor nostro finge la risposta che fece Virgilio al suo priego, accettandolo e commendandolo; e poi induce lui a parlare, quivi: Poi che la fiamma ec. Dice così: Et elli; cioè Virgilio rispose, a me; cioè Dante: La tua preghiera è degna Di molta loda; ecco come commenda lo priego di Dante, e come l’accetta, ond’io; cioè Virgilio, però l’accetto; Ma fa; tu, Dante, che la tua lingua si sostegna: del parlare: cioè fa che sia31 cheto. Lascia parlare a me; cioè Virgilio, ch’io ò concetto; cioè ò nell’animo, Ciò che tu vuoi; cioè vuogli tu, Dante; e questo finge, perchè la ragione non è divisa dalla volontà: imperò che una medesima anima è quella che vuole e che ragiona, ch’ei sarebbono schivi; cioè Ulisse e Diomede schiferebbono cioè, Perch’ei fur Greci; assegna la cagione, forse del tuo detto; cioè del tuo parlare. E questo finge l’autore, per far verisimile lo suo poema, che a quelle persone che non sono state di suo tempo, sempre finge che per altrui che per lui si parli, sì come appare di sopra nel processo. Poi che la fiamma fu venuta quivi; ora induce a parlar Virgilio, dicendo che, poi che quella fiamma fu venuta a quel luogo dove erano Virgilio et elli, Dove parve al mio Duca; cioè poi che parve a Virgilio, tempo e loco; tempo e luogo si vuole sempre aspettare a parlare, et è questo notabile, In questa forma lui parlare audivi; cioè Virgilio io Dante, come si dirà di sotto.
C. XXVI — v. 79-84. In questi due ternari l’autor finge la domanda che fece Virgilio a quelli due, ch’erano nella fiamma cornuta, secondo il suo volere, dicendo: O voi, che siete due dentro a un fuoco; cioè, o Ulisse e Diomede, i quali siete dentro due a cotesto foco; e non li nomina qui, perchè furono nominati di sopra, S’io meritai di voi; io Virgilio, mentre ch’io vissi; cioè mentre ch’io fu’ in vita, e replica lo suo dire per uno colore retorico che si chiama conduplicazione, dicendo: S’io meritai di voi assai o poco; cioè s’io vi feci servigio, Quando; vissi: per lo servigio si merita servigio; e per lo piacere, piacere, Quando nel mondo; manifesta ora il tempo e lo luogo, dicendo: Quando nel mondo; e questo è il luogo, li alti versi scrissi; qui manifesta lo tempo; cioè quando scrisse la sua Tragedia, ove trattò d’Enea, facendo menzione d’Ulisse e di Diomede, contandoli nel suo poema, come appare a chi l’à letto, Non vi movete; ecco la sua domanda prima; ma l’un di voi dica; cioè Ulisse, e di costui s’intende per quello che di lui seguita, et ora specifica singularmente quel che vuole sapere, Dove per lui perduto a morir gissi; per questo che soggiugne s’intende d’Ulisse e non di Diomede: però che manifesto è che Diomede non tornò alla sua città che si chiama Argos, che era in Calidonia; anzi si pose in Calavra e compose quivi cittadi, secondo che dice Virgilio. Ma, secondo lo Troiano, tornò, poi che fu stato in esilio uno tempo, ad Argo nel regno d’Egea sua donna: imperò che Ulisse andò errando per mare grande tempo, secondo che fingono li autori; e finalmente tornò a casa sua, e fu morto da Telegono32 suo figliuolo, e di Circe maga. Ma l’autor nostro finge che mai non tornasse a casa; ma come desideroso di cercare del mondo, e divenire esperto, perisse nel mare oceano, come apparirà di sotto: e per verificare la sua fizione non lo nomina; ma vuole che per la circunscrizione sia manifesto: e non è manifesto onde l’autore traesse questa fizione, se non che la fece da sè.
C. XXVI — v. 85-111. In questi nove ternari l’autor nostro finge la risposta che fece Ulisse alla domanda di Virgilio, dicendo così: Lo maggior corno; come detto fu di sopra, l’autore à finto che in una fiamma, la quale avea due punte divise, fossono Ulisse e Diomede, e che l’una punta fosse Ulisse e l’altra Diomede: ora finge che quella d’Ulisse fosse maggiore che quella di Diomede, perchè fu più fraudulento di lui; e però dice: Lo maggior corno della fiamma antica; dice, perchè gran tempo erano stati in quella fiamma; cioè bene m m.33 anni e più, Cominciò a crollarsi mormorando; come spesso veggiamo fare al nostro fuoco, che sogliono dire li semplici che significa che altri parli di coloro che sono intorno a tal fuoco; ma l’autor nostro dichiara la cagion, dicendo: Pur come quella; cioè fiamma, cui vento affatica; ponendo similitudine del nostro fuoco, quando è mosso da ventosità che esca della casa34 arsa; e questa è la cagione, che la fiamma mormora e crollasi qua e là per lo vento ch’esce della cosa arsa. Indi; cioè poscia, menando qua e là la cima; cioè la sommità della fiamma, Come fosse la lingua che parlasse; fa qui similitudine che così sè35 menava la punta della fiamma, come si mena la lingua quando parla, Gittò voce di fuori, cioè da sè quella fiamma, e disse: Quando Mi diparti’ da Circe; cioè da quella donna che segnoreggiava Eolia, che è una isola presso alla Cicilia; e qui è da sapere che questa Circe era una donna, maga et incantatrice che con suoi beveraggi mutava li uomini in varie bestie; e per questo era detta idia: et era molto bella, e però era detta figliuola del sole; e quando Ulisse andò vagando per mare, pervenne a questa isola e discese in essa; onde li suoi compagni, abbeverati co’ beveraggi di Circe, furono mutati in varie bestie. Ulisse, innanzi che andasse per l’isola, entrò nel tempio di Mercurio ch’era nelle piagge, e qui adorò, e quivi fu ammonito dallo idio che si guardasse dai beveraggi di Circe; e per tanto, andando poi al palagio di Circe, si guardò da’ suoi beveraggi, onde Circe conosciuta la sua bellezza et astuzia, si innamorò di lui e tennelo più d’un anno, ond’ella concepette di lui e partorì uno figliuolo ch’ebbe nome Telogono36 dal quale fu morto Ulisse poi, come detto fu di sopra; e poi vedendo pur la volontà d’Ulisse che si volea partire, li restituì tutti i suoi compagni; e però dice l'autore: che sottrasse Me più d’un anno; con sue lusinghe; cioè me Ulisse, là presso a Gaeta. Gaeta è una città posta alla marina in Campagna, e presso a Napoli, e fu chiamata Gaeta da Enea troiano, lo quale arrivato quivi, secondo che dice Virgilio, seppellì qui la sua nutrice ch’avea nome Gaeta; e così nominò la detta città e così fu chiamata poi; e presso a Gaeta è posta la detta insula di Circe che si chiamava Eolia. Prima che sì Enea la nominasse; dichiara che l’avvenimento d’Ulisse a Eolia fusse innanzi ch’Enea venisse a Gaeta, e ch’elli ponesse nome a quella città Gaeta. Nè dolcezza di figlio; cioè di Telemaco, lo quale era figliuolo d’Ulisse e di Penelope sua donna, nè la pietà Del vecchio padre; cioè di Laerte ch'era padre d’Ulisse, ch'era rimaso in Itaca, ch'era una provincia verso Tracia, della quale era signore, nè il debito amore; cioè matrimoniale, Lo qual dovea Penelope far lieta; cioè la donna di me Ulisse, ch’avea nome Penelope. Et è notabile che l’amore filiale chiama dolce, quello del padre chiama pietoso, quello della moglie chiama debito: liete vivono le donne, quando vivono con li loro mariti, Vincer poter; cioè tutti questi tre amori che sono detti di sopra, dentro da me; cioè nel mio cuore, l’ardore; cioè lo fervente amore, Ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto; manifesta qui la colpa sua: imperò che questo amore non era da virtù; ma da superbia: imperò che questa esperienzia cercava per sapere più che tutti li altri, e per potere meglio ingannare altrui e soprastare alli altri, E della vita umana e del valore; non solamente cercò esperienzia del mondo; ma della vita umana; cioè felice et infelice, e del valore; cioè de’ vizi e delle virtù delli uomini; Ma misi me per alto mare aperto; cioè per lo nostro mare Mediterraneo, Sol con un legno, e con quella compagna Piccola; per questo dimostra che lo legno fosse piccolo, poi che la compagnia era piccola, dalla qual non fui deserto; cioè non fui abbandonato: però che tuttavia mi seguitarono. L’un lito, e l’altro vidi infin la Spagna; per questo mostra che cercasse la riviera d’Africa e d’ Europa infino alla Spagna, che è in occidente; et è la Spagna dal lato di Europa, Fin nel Marrocco; per questo s’intende che cercasse la riviera d’Africa: imperò che lo re Marrocco è nell’occidente dalla parte d’Africa, e l’isola de’ Sardi; cioè la Sardigna, E l’altre che quel mare intorno bagna; cioè e l’altre isole che sono nel mare Mediterraneo; e per questo dà ad intendere che cercasse ancora tutte l’isole. Io e i compagni eravam vecchi e tardi; dimostra ch’erano invecchiati, pur cercando lo mare Mediterraneo, Quando venimmo a quella foce stretta; che si chiama lo stretto di Sibilia, onde lo mare Oceano entra nella terra e fassi lo mare Mediterraneo, tra di quello e di fiumi che corrono in esso: Sibilia è una città che anticamente fu chiamata Hispalis, et à uno fiume che si chiama Sibilia, e di quindi fu poi la città chiamata Sibilia, Dov’Ercole segnò li suoi riguardi: imperò che Ercole andò acquistando e combattendo in fino a quel luogo; e quivi, in su due isole che vi sono, pose le sue colonne in segno che nessuno passi più oltre, scrittovi in esse che in fino quivi passò Ercole, e sono chiamate quelle isole dalli autori Gades: cioè i termini, perchè quivi furono segnati i termini della terra: altri non fanno menzione dell’isole; ma de’ monti tra’ quali entra il mare Oceano, e in su questi dicono essere le colonne, e chiamano quello che è dal lato d’Europa, Calpe; e quello che è dal lato d’Africa, Abila, o vero Abinna; lo nostro autore dice Setta: imperò che Setta è una città posta presso a quel monte; Abila, come Sibilia, è presso a Calpe; onde seguita: A ciò che l’uom più oltre non si metta; ecco perchè Ercole vi segnò. Dalla man destra mi lasciai Sibilia, che è in Europa, presso a quel monte che si chiama Abinna, Dall’altra già m’avea lasciata Setta; cioè dalla man sinistra, dalla parte d’Africa, v’è appresso al monte Carpe 37 una città, che si chiama Setta; e per quel che dice significa che Setta sia più in fra la terra che Sibilia: e non finisce però qui la sua risposta Ulisse; ma volli dividere questo per la bella piccola esortazione che soggiugne.
C. XXVI — v. 112-120. In questi tre ternari pone l’autore l’esordio 38 che finge che Ulisse facesse a suo’ compagni, quando si dispose di cercare lo mare Oceano, perchè lo seguitassono; e dice continuando lo suo parlare Ulisse: O frati, dissi; cioè Ulisse ai miei compagni, che per cento milia Perigli giunti siete all’Occidente: rinvigorisce chi à vinti li pericoli, quando se ne ricorda, o songli ricordati, A questa tanto picciola vigilia De’ nostri sensi; cioè a questo sì poco di vita: imperò che quando viviamo 39, vegghiano i nostri sentimenti, (ch’è del rimanente; cioè che ci resta, che siamo già vecchi, come detto fu di sopra?) Non vogliate negar l’esperienza; cioè non vogliate negar d’essere esperti, o vero diventare esperti, Di retro al Sol, del mondo sanza gente; cioè nel mondo che è nell’altro emisperio, ove è solamente acqua, e non v’è alcuna gente, come comunemente si crede; e dice di retro al Sol, perchè andare oltra è, o era, andare di retro al sole; e se fossono potuti andare, sarebbono tornati all’oriente. Considerate la vostra semenza; cioè considerate onde siete nati, che sete nati da Dio: Fatti non fosti a viver come bruti; cioè come animali sanza ragione; Ma per seguir virtute e conoscenza. Et è qui notabile che l’uomo è fatto per affaticarsi alle virtù, e per diventare savio et esperto e buono; e non a mangiare et a bere, come le bestie che seguitano l’appetito naturale.
C. XXVI — v. 121— 142. In questi sette ternari et uno verso finisce l’autore questo canto; e finge che Ulisse, compiendo la sua narrazione, manifesta 40 come essi perirono, dicendo così: Li miei compagni fec’io sì acuti; cioè si volenterosi io Ulisse, Con questa orazion picciola; la quale è detta di sopra, al cammino; ch’io volea fare, Ch’appena poscia li avrei ritenuti; s’io non avessi voluto andare; E volta nostra poppa nel mattino; cioè volta la parte di retro del legno inverso l’oriente, e la prora in verso l’occidente, De’ remi facemmo ale al folle volo; cioè cominciammo a andare co’remi; e dice folle volo: imperò che stoltizia è a voler fare quello, che è negato dalla natura, Sempre acquistando dal lato mancino; cioè sempre tenendo in verso la parte del mezzo di’, ben ch’andassono in verso l’occaso. Tutte le stelle già dell’altro polo Vedea la notte: li poli sono li capi del perno in su che 41 figura lo cielo, e l’uno è sopra di noi e chiamasi artico, o vero settentrionale, lo quale li volgari chiamano tramontana; l’altro opposito a quello è di sotto in verso il mezzo di’ e chiamasi antartico; cioè contrario al nostro, lo quale noi non veggiamo, e questa è l’altra tramontana; onde vuole significare che già erano iti tanto innanzi, che vedeano le stelle che sono nell’altro polo, che non le possiamo vedere noi, e il nostro; cioè polo, tanto basso; cioè quello, che a noi è alto, era 42 allora basso: imperò che, se stando in questo emisperio, ci accostassimo a uno canto della terra sì, che potessimo vedere dell’altro emisperio, parrebbono quelle stelle esser di sotto a noi, le quali noi vedessimo di là; e così a chi fosse di là, parrebbono le nostre di sotto a lui; e questo è, perchè il cielo è tondo e circunda tutta la terra, igualmente distante da quella da ogni parte, o vero lato; e per tanto dovunque egli è, à parte del cielo sopra il capo, e l’opposita parte li viene sotto li piedi, e le parti dal lato li vengono d’intorno; e però dice: Che non surgea fuor del marin suolo; cioè che non vedeano le nostre stelle che sono nel nostro polo artico, se non tanto quanto faceano la volta verso la marina, et allora nasceano quando cominciavano a dare la volta di verso marina; et allora tramontavano quando aveano compiuto di girare la parte di verso la marina, le quali a noi mai non tramontano, nè nascono: però che tutta la notte le veggiamo dare gran giro del cielo, e lo di’ ritornano al punto onde cominciano a volger la sera. Onde se le potessimo vedere il di’ come la notte, che lo splendere del sole non ce le appiattasse, tutta via le 43 vedremo; e del marin suolo, s’intende della solidità della terra che cuopre il mare o vogliamo intendere solo, cioè equalità e pianura, sicché s’intende fuor della marina pianura. Cinque volte racceso, e tante casso Lo lume era di sotto della luna; cioè cinque mesi erano già passati, intendendo per ogni lunari uno mese, quasi dica: Cinque noveluni erano passati; et intorno al parlare dell’autore è da notare che la luna non à lume da sè, ma è illuminata dal sole, e che la luna è uno corpo sperico; cioè d’ogni parte tondo, del quale l’una parte, o vuogli l’una metà, è lucida e recettiva di splendore, e l’altra parte è oscura: la parte lucida sempre tiene verso lo sole nella quale lo sole percuote co’suoi raggi e falla risplendere, come fa nello specchio; et alcuna volta la luna è per diritta linea sotto lo sole, et allora si dice innovare; cioè che rinuova, e niente ne veggiamo perchè in verso noi è la parte oscura, e la parte luminosa è volta in su inverso lo sole; e poi, come si comincia a dilungare dal sole, incomincia apparire a noi la parte luminosa a poco a poco, l’una volta più che l’altra, come più si dilunga l’uno di’ che l’altro dal sole, in fino a tanto ch’ella è più distante che possa essere, et allora veggiamo tutta e dicesi essere quindecima 44; e poi si comincia ad approssimare a poco a poco verso lo sole, sì che l’uno di’ ne veggiamo meno che l’altro, infino a tanto che ritorna alla linea che viene diritta sotto lo sole; et allora si dice innovare; e così, quanto al vero, la luna mai non s’accende e non si spegne, che sempre è illuminata dal sole, se non quando la terra s’oppone in mezzo; et allora non à lume la luna e sta tanto oscura, quanto pena a passare quel punto; e questo può addivenire ogni sei mesi e non mai, se non quando la luna è quintadecima; cioè quando è nella maggiore distanzia dal sole; e però l’autore parla secondo che a noi appare, che ci pare che la luna a poco a poco cresca et a poco a poco manchi, benché non sia così, come detto è di sopra; ma nota che dice di sotto, per correggere lo suo detto, dicendo che lo raccendere e lo spegnere è quanto a noi che siamo sotto la luna, e non quanto in sè medesima, si che s’intende di sotto da sè, Poi ch’entrati eravam nell’altro passo; cioè poi che noi eravamo entrati nel passo dell’altro emisperio, Quando v’apparve una montagna, bruna Per la distanzia; rende la cagione perchè li parve bruna; cioè per la distanzia; la distanzia fa parere li monti neri, e parvemi alta tanto, Quanto veduta non avea alcuna; cioè più alta che alcun’altra, ch’io n’avessi mai veduta. Noi ci allegrammo; cioè io e’ compagni, e tosto tornò in pianto; quella allegrezza: Chè della nuova terra un turbo nacque; cioè da quella montagna venne uno impeto di vento, o vero parimula, secondo li volgari, E percosse del legno il primo canto; cioè del legno nel quale erano. Tre volte il fe girar; cioè lo legno, con tutte l'acque; cioè con l'acque d’intorno che giravano, Alla quarta; cioè volta, levar la poppa; cioè l’ultima parte del legno, in suso; cioè verso lo cielo, E la prora ire in giù; cioè la parte dinanzi, in verso lo fondo del mare, com'altrui piacque; cioè come piacque a Dio; ma, perchè nol conobbe, non lo nomina, In fin che il mar fu sopra noi richiuso; e così appare che il legno e li uomini fossono sommersi nel mare. E qui finisce il xxvi canto, e comincia il xxvii canto.
___________
Note
- ↑ C. M. fraudulenti;
- ↑ C. M. una derisoria esclamazione,
- ↑ C. M. profetizza,
- ↑ C. M. d’alcuna fiamma che
- ↑ C. M. ecco la prima:
- ↑ C. M. tramontato
- ↑ C. M, la ditta representazione;
- ↑ C. M. vanagloriavano;
- ↑ C. M. cinque cavalieri di Firenze;
- ↑ C. M. e fantasma.
- ↑ C. M. si stanno, ella si trova molto a considerare
- ↑ C. M. sposto
- ↑ C. M. à ordinato
- ↑ C. M. de l’ autore preditto.
- ↑ C. M. lucciule:
- ↑ C. M. alle senzale;
- ↑ C. M. ragguardare
- ↑ C. M. carro
- ↑ C. M. che nessuna; fiamma, mostra il furto; cioè lo spirito che avea dentro da sè. Et ogni fiamma
- ↑ C. M. riposano
- ↑ C. M. abbandona lo corpo, unde viene meno lo corpo, come
- ↑ C. M. dalla catasta, o vero pila, di legne che si fece da Antigone suore e da Argia
- ↑ C. M. Adrasto,
- ↑ Ne’ Classici nostri si truova sovente l’avverbio di quantità cambiato in articolo correlativo, e così odesi continuamente nella bocca del popolo toscano il quale dice: Questa è una figliuola tanta buona, che tutti le voglion bene. E.
- ↑ C. M. Remo,
- ↑ C. M. alla battaglia di
- ↑ C. M. a sgrollare et a
- ↑ C. M. cosa arsa;
- ↑ C. M. in segno che nessuno passi più
- ↑ C. M. primula di vento
- ↑ C. M. fa che tu stii cheto.
- ↑ C. M. da Telegno
- ↑ C. M. bene da du’ milia anni
- ↑ C. M. cosa arsa;
- ↑ sè menava. - Non è raro presso gli antichi il trovare il pronome reciproco ne’ verbi intransitivi riflessi, in luogo della particella pronominale od affisso. E.
- ↑ C. M. Telegono
- ↑ C. M. Calpe
- ↑ Altrim. l’esortazione-, ed esortazione à pure il Cod. M.
- ↑ C. M. viviamo, invecchiano li nostri sentimenti,
- ↑ C. M. lo suo naufragio, dicendo
- ↑ C. M. in su che gira lo cielo,
- ↑ C. M. alto, a loro è basso: imperò
- ↑ C. M. le vedremmo;
- ↑ C. M. quintadecima;