Commedia (Buti)/Inferno/Canto XII
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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto dodicesimo
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C A N T O XII.
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1Era lo loco, ove a scender la riva
Venimmo, alpestro, e per quel ch’ivi era anco
Tal, ch’ogni vista ne sarebbe schiva.
4Quale è quella ruina, che nel fianco
Di qua da Trento l’Adice percosse,
O per tremuoti, o per sostegno manco:1
7Che da cima del monte, onde si mosse,
Al piano è sì la roccia discoscesa,
Ch’alcuna via darebbe a chi su fosse;
10Cotal di quel burrato era la scesa:
E in su la punta della rotta lacca
L’infamia di Creti era discesa,
13Che fu concetta nella falsa vacca:
E quando vide noi sè stesso morse,
Sì come quei, cui l’ira dentro fiacca.
16Lo Savio mio in ver lui gridò: Forse2
Tu credi, che sia qui il Duca d'Atene,
Che su nel mondo la morte ti porse?
19Partiti, bestia, che questi non viene
Ammaestrato dalla tua sorella;
Ma vassi per veder le vostre pene.
22Quale è quel toro, che si slaccia in quella,
Che à ricevuto lo colpo mortale,3
Che gir non sa, ma qua e là saltella;
25Vid’io lo Minotauro far cotale.
E quello accorto gridò: Corri al varco;4
Mentre che infuria, è buon che tu ti cale.
28Così prendemmo via giù per lo scarco
Di quelle pietre, che spesso moviensi5
Sotto i miei piedi per lo novo carco.
31Io gìa pensando; e quei disse: Tu pensi
Forse in questa ruvina, che è guardata
Da quell’ira bestial, ch’io ora spensi.6
34Or vo’, che sappi, che l’altra fiata,
Ch’io discesi qua giù nel basso Inferno,
Questa roccia non era ancor cascata.
37Ma certo poco pria, se ben discerno,7
Che venisse Colui, che la gran preda
Levò a Dite del cerchio superno,
40Da tutte parti l’alta valle feda
Tremò sì, ch’io pensai che l’universo
Sentisse amor, per lo qual è chi creda
43Più volte il mondo in caos converso:8
Et in quel punto questa vecchia roccia,
Qui et altrove tal fece riverso.
46Ma ficca gli occhi a valle: chè s’approccia
La riviera del sangue, in lo qual bolle9
Qual che per violenzia in altrui noccia.
49Oh cieca cupidigia e ria e folle,10
Che sì ci sproni nella vita corta,
E nell'eterna poi sì mal c’immolle!
52Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
Come quella, che tutto il piano abbraccia,
Secondo ch’avea detto la mia scorta:
55E tra il piè della ripa, et essa in traccia11
Corrien Centauri armati di saette,
Come solean nel mondo andare a caccia.
58Vedendoci calar ciascun ristette,
E della schiera tre si dipartiro
Con archi et asticciuole prima elette:
61E l’un gridò di lungi: A qual martiro12
Venite voi, che scendete la costa?
Ditel costinci, se non l’arco tiro.
64Lo mio Maestro disse: La risposta
Farem noi a Chiron costà di presso:13
Mal fu la voglia tua sempre sì tosta.
67Poi mi tentò, e disse: Quelli è Nesso,
Che morì per la bella Deianira,
E fe di sè la vendetta elli stesso.
70E quel di mezzo, che al petto si mira,
È il gran Chiron, il qual nudrì Achille:
Quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.
73D’intorno al fosso vanno a mille a mille,
Saettando qual’anima sì svelle
Del sangue più, che sua colpa sortille.14
76Noi ci appressammo a quelle fiere snelle:
Chiron prese uno strale, e con la cocca
Fece la barba indietro alle mascelle.
79Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
Disse a’ compagni: Siete voi accorti,
Che quel di dietro muove ciò, che tocca?15
82Così non soglion fare i piè de’ morti.
E il mio buon Duca che già gli era al petto,
Dove le due nature son consorti,
85Rispose: Bene è vivo, e sì soletto
Mostrarli mi convien la valle buia:
Necessità m’induce, e non diletto.
88Tal si partì da cantare alleluia,
Che mi commise quest'uficio novo:
Non è ladron, nè io anima fuia.
91Ma per quella virtù, per cui io muovo
Li passi miei per sì selvaggia strada,
Danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,16
94E che ne mostri là dove si guada,
E che porti costui in su la groppa;
Che non è spirto, che per l’aere vada.
97Chiron si volse in su la destra poppa,
E disse a Nesso: Torna e sì li guida,
E fa cansar, s’altra schiera v’intoppa.17
100 Or ci movemmo con la scorta fida
Lungo la proda del bollor vermiglio,
Dove i bolliti facean alte strida.
103Io viddi gente sotto infìno al ciglio,
E il gran Centauro disse: Ei son tiranni,
Che dier nel sangue, e nell’aver di piglio.
106Quivi si piangon li spietati danni:
Quivi è Alessandro e Dionisio fero,
Che fe Sicilia aver dolorosi anni.
109E quella fronte, che à il pel così nero,
È Azzolino; e quell’altro, che è biondo,
È Opizzo da Esti, il qual per vero
112Fu spento dal figliastro su nel mondo.
Allor mi volsi al Poeta; e quei disse:
Questi ti sia or primo, et io secondo.
115Poco più oltre il Centauro s’affisse
Sopr’una gente, che infino alla gola
Parea che di quel bulicame uscisse.18
118Mostrocci un'ombra da un canto sola,
Dicendo: Colei fesse in grembo a Dio19
Lo cuor, che in su Tamisi ancor si cola.2021
121Poi vid’io gente, che di fuor dal rio
Tenea la testa, et ancor tutto il casso;
E di costoro assai riconobb'io.
124Così a più a più si facea basso
Quel sangue sì, che cocea pur li piedi;22
E quivi fu del fosso il nostro passo.
127Sì come tu da questa parte vedi
Lo bulicame, che sempre si scema,
Disse il Centauro, voglio che tu credi,23
130Che da quest’altra a più a più giù prema
Lo fondo suo, infin che si raggiugne24
Dove la tirannia convien che gema.25
133La divina Giustizia di qua pugne26
Quell’Attila, che fu flagello in terra,
E Pirro, e Sesto; et in eterno mugne26
136Le lagrime, che col bollor disserra
A Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
Che fecer alla strada tanta guerra.27
139Poi si rivolse, e ripassossi il guazzo.
- ↑ v. 6. per tremuoto
- ↑ v. 16. C. M. E il Savio mio
- ↑ v. 23. à ricevuto già il colpo
- ↑ v. 26. C. M. E quelli
- ↑ v. 29. Moviensi; moveansi. I nostri antichi, data la desinenza in e alle persone singolari del presente indicativo, assegnaronla eziandio a quelle dell’imperfetto e d’altri tempi; donde movie, udie, corrie per movia, udia, corria e simili. E.
- ↑ v. 33. C. M. bestiale, ch’io spensi.
- ↑ v. 37. C. M. s’io ben discerno,
- ↑ v. 43. C. M. nel caos
- ↑ v. 47. C. M. in la qual
- ↑ v. 49. C. M. cupidigia, ria e folle,
- ↑ v. 55. Traccia; investigazione, perquisizione. E.
- ↑ v. 61. C. M. da lungi:
- ↑ v. 65. C. M. da presso:
- ↑ v. 75. Dal sangue
- ↑ v. 81. C. M. di rietro
- ↑ v. 93. a provo; a presso. Codesto avverbio vive tuttora nel popolo genovese, e nasce dal latino ad prope, mutato in v il p come in sovra da supra. E.
- ↑ v. 99. C. M. E fa cessar,
- ↑ v. 117. C. M. Parea di quello bulicame
- ↑ v. 119. Colui fesse
- ↑ v. 120. C. M. Tamisio
- ↑ v. 120. si cola; si cole, s’onora. Gli antichi acconciarono diversi verbi a diverse coniugazioni. E.
- ↑ v. 125. copria pur li piedi;
- ↑ v. 129. tu credi. Finito in e il presente congiuntivo della prima, per uniformità di desinenza, tale fu quello delle altre coniugazioni, e si ebbe tu ami, tu credi, tu vadi, ec. E.
- ↑ v. 131. C. M. raggiunge
- ↑ v. 132. C. M. Onde la tirannia
- ↑ 26,0 26,1 v. 133-135. C. M. punge-munge.
- ↑ v. 138. C. M. alle strade
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C O M M E N T O
Era lo loco ec. Questo è lo duodecimo canto nel quale l’autor finge come discesono nel vii cerchio, ove sono li violenti, partiti in tre gironi, come detto fu di sopra; e nel primo girone, ove prima discese, finge essere li violenti contra il prossimo. E dividesi questo canto principalmente in due parti, perchè prima pone la discesa nel vii cerchio e come pervennono al primo girone del detto cerchio; nella seconda pone come pervennono a Chirone e presono sicurtà 1, quivi: Noi ci appressammo ec. La prima che sarà la prima lezione si divide in cinque parti: imperò che prima descrive com’era fatta la riva ov’era la scesa del sesto cerchio nel vii, e quel che vi trovarono; nella seconda pone come Virgilio riprese lo Minotauro e quello che il Minotauro fe, quivi: Lo Savio mio ec.; nella terza, come discesono, e perchè era così fatta quella riva, quivi: Così prendemmo ec.; nella quarta, come Virgilio li mostra la pena de’ violenti, quivi: Ma ficca ec.; nella quinta pone come Virgilio li manifesta alcuni de’ Centauri, quivi: Poi mi tentò ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale. Dice adunque così:
Poi che Virgilio confortò Dante dello scendere, si mossono e vennono al luogo onde si scendea, lo quale era molto aspro et eravi
- ↑ C. M. preseno scorta, quine
Inf. T. I. | 21 |
C. XII— v. 1-15. In questi cinque ternari l’autor nostro finge com’era fatta la ripa che discesono, quando scesono del sesto cerchio nel settimo, e come vi trovarono lo Minotauro, così dicendo: Era lo loco, ove a scender la riva Venimmo; Virgilio et io Dante, alpestro; cioè aspro, e per quel ch’ ivi era anco Tal, ch’ogni vista ne sarebbe schiva; cioè di volerlo vedere. E questo dice per lo Minotauro, che finge che fosse in su la ripa, come apparirà di sotto; et esemplifica e dice ch’era tale quella ripa qual’è quella del monte Barco, dicendo così: Quale è quella ruina; del monte Barco che è tra Trento e Trivigi, che nel fianco Di qua da Trento l’Adice percosse. L’Adice è fiume che andava sotto lo monte Barco da lato a Trivigi, lo qual tanto rose la radice del monte, che il monte scoscese e percosse lo fiume, onde l’Adice si dilungò perchè il monte lo fece fare buono 3 spazio in là; o vero che il monte cadesse per tremuoti, e però dice: O per tremuoti; che il facessono cascare, o per sostegno manco; cioè che li venisse meno lo fondamento per lo roder del fiume: Che da cima del monte, onde si mosse; quella ruina, Al piano è sì la roccia; cioè la ripa o ver costa del monte, discoscesa, Ch’alcuna via darebbe a chi su fosse; cioè che vi si potrebbe andare, ove prima non si potea. Adatta la similitudine, dicendo: Cotal di quel burrato; cioè rottura, era la scesa; e manifesta quel che v’era, che il toccò di sopra, dicendo: E in su la punta della rotta lacca; cioè ripa, L’infamia di Creti era discesa; cioè lo Minotauro, per lo quale l’isola di Creti era infamata, era disceso di su del mondo, Che; cioè la quale infamia; cioè lo Minotauro, fu concetta nella falsa vacca; cioè di Pasife che si rinchiuse nella vacca del legno 4, perchè il toro si congiugnesse con lei. Onde a saper questo è da notare una fizione che il poeta Ovidio nel nono libro Metamorfoseos pone; cioè che quando Minos re di Creta andò ad Atene per far vendetta di Androgeo suo figliuolo, che fu morto per invidia da gli Ateniesi, la reina Pasife moglie del re Minos, vedendo dalla finestra del suo palagio la pastura ov’erano molte vacche e tori a pascere, s’innamorò d’uno più bianco e più bello toro di tutti li altri; per la qual cosa ella ebbe Dedalo il quale era ingegnosissimo, e manifestolli lo suo disordinato e bestiale appetito, e comandolli che trovasse modo ch’ella si congiugnesse con quel toro, e questo tenesse segreto; onde costui s’avvisò di qual vacca quel toro era più innamorato, e quella uccise occultamente e prese lo cuoio e fabbricata una vacca di legname di quella grandezza, la coperse di quel cuoio, e fecevi entrare la reina e fecela portare nella pastura; onde lo toro ebbe congiunzione con lei, et ingravidata partorì uno mostro ch’era mezzo toro, e mezzo uomo; dalla parte di sopra era toro, e da quella di sotto era uomo. E mentre che lo re Minos combattea Atene, ebbe novella di questo mostro ch’era nato e come divorava li suoi cittadini; onde mandò comandando a quello Dedalo, per cui consiglio quel mostro era nato, ch’elli facesse una prigion sì fatta che non ne potesse uscire. Et allora Dedalo cavò in una grotta d’uno monte, e fecevi molte pareti con molti usci, che tutti aprivano in dentro, e molti andirivieni e pose nell’entrata molte imagini che faceano grande paura a chi v’entrava: et era questo edificio in tondo et era sì ordinato che l’uomo v’entrava e non ne sapea uscire, e chiamossi questa pregione lo laberinto, et in questa prigione fu rinchiuso lo Minotauro e fece nel monte molti spiracoli sì, che vi si potesse vedere lume, e nel mezzo ove stava lo Minotauro ne fece uno, onde gittavano lo pasto al Minotauro. E quando Minos ebbe vinti li Ateniesi, per pena del fallo commesso li condannò che dovessero mandare ogni anno sette uomini a essere divorati dal Minotauro, e però li Ateniesi fecero una tasca ove misono le polizze di tutti i loro cittadini, e così della famiglia del suo duca come delli altri, et ogni anno ne cavavano sette; onde toccò l’andata a Teseo figliuolo d’Egeo ch’era duca delli Ateniesi, onde Egeo li fece apparecchiare lo navilio, e lui e tutta la compagnia vestìe a nero e tutti li corredi del navilio, e comandò che s’elli tornasse, li mutassi 5 in bianchi, avendo speranza che il re Minos lo dovesse campare. Poi che Teseo fu giunto in Creti fu ricevuto dal re Minos in casa sua et onorato molto. Era usanza delli altri andare tre di’ per la terra, innanzi che fossono messi al Minotauro e così fu osservato in Teseo, onde tutta la città ebbe compassione di lui: tanto era gentilesco et avvenente giovane; e così una figliuola del re Minos ch’avea nome Arianna innamorata di lui e mossa a pietà per camparlo, costrinse Dedalo che l’insegnasse in che modo si potea uccidere lo Minotauro et uscire del laberinto. E poi ch’ebbe Teseo in una camera e fecesi promettere e fermare con giuramento ch’elli la menerebbe seco e piglierebbela per moglie, et insegnerebbeli uccidere lo Minotauro, e così l’insegnò che menasse, o vero portasse seco un gomitolo 6 di refe in mano e legasse l’uno capo all’entrata e così andasse tenendo lo filo in fin che fosse al Minotauro, e poi tornasse con quel filo raccogliendolo: e diedegli tre palle di pece e cera attoscate che le gittasse in gola del Minotauro, quando aprisse la bocca, e così fece et ucciselo, e tornò sano e salvo e menonne seco Arianna et ancora l’altra sirocchia, che avea nome Fedra ch’era più bella. Et innamoratosi di lei tra via, lasciò Arianna addormentata in un’isola e prese per moglie Fedra, e non ricordatosi di mutare le vele nere, lo padre Egeo quando le vide da lungi, credendo che Teseo fosse morto, per dolore s’annegò in mare, e però giunto in Atene fu fatto duca dalli Ateniesi e succedette al padre. Questa fizione ebbe questa verità; che questa Pasife s’innamorò d’uno suo cancelliere che avea nome Toro, et in casa di Dedalo si congiunse con lui e nacquene uno figliuolo che fu chiamato Minotauro e reputavasi figliuolo dal re Minos, e che dopo il re Minos succedette nel reame questo Minotauro, al quale fu posto questo nome Tauro per la vita viziosa e bestiale ch’elli tenea: imperò ch’elli era iracundo, violento e bestiale in verso lo prossimo et in verso sè, et in verso Idio: come lo toro 7 à questa natura che combatte con li altri tori per amore tanto, che li caccia dalla pastura, e quel che è cacciato sì percuote nelli arbori et in ciò che si truova innanzi per dolore e così si tormenta, e così fece lo Minotauro che disfece li suoi sudditi trattandoli bestialmente, e finalmente sè medesimo: imperò che venendo Teseo re delli Ateniesi contra Creta per vendicarsi, prese questo Minotauro et ucciselo e menonne seco le sue sirocchie 8. Finge l’autore che questo mostro del Minotauro fosse posto per li demoni a guardia in su l’entrata del vii cerchio, ove si puniscono li violenti, perchè in costui si notano le tre spezie della violenzia procedenti o da malizia, o da bestialità: imperò che in quanto dice che è uomo s’intende la malizia; in quanto dice che è toro s’intende la bestialità, e lo toro sta di sopra perchè la bestialità soperchiò in lui; et in quanto dice l’autore l’infamia di Creti, intende per questo la violenzia inverso il prossimo; in quanto dice che si morse, intende la violenzia in sè medesimo; et in quanto dice che saltellava, intende la violenzia contra Dio: imperò che solo lo toro, secondo li autori ricalcitrava alcuna volta ai sacrifizi delli idii; e però seguita: E quando vide noi; cioè me Dante e Virgilio, sè stesso morse; cioè lo Minotauro; e qui si figura la violenzia contra sè medesimo, Sì come quei, cui l’ira dentro fiacca. Qui si dimostra che ben che la violenzia nasca da superbia, à per sua compagna l’ira sempre, come è chiaro a chi considera la violenzia; e notantemente dice fiacca: imperò che l’ira 9 sì rompe l’animo dalla sua costanzia e dal dovere.
C. XII — v. 16-27. In questi quattro ternari finge l’autore come Virgilio sgridò lo Minotauro, acciò che non impedisse lo loro discenso, e confortò Dante che discendisse 10, colto luogo e tempo, dicendo così: Lo Savio mio; cioè Virgilio, in ver lui; cioè verso il Minotauro, gridò: Forse Tu credi, che sia qui il Duca d’Atene; cioè Teseo, Che su nel mondo la morte ti porse? Questo è noto per quel che fu detto di sopra. Partiti, bestia; dice Virgilio al Minotauro, che questi non viene Ammaestrato dalla tua sorella; cioè da Arianna. Ancor questo è noto per quel che fu detto di sopra. Ma vassi per veder le vostre pene; cioè de’ violenti, del numero de’ quali se’ tu Minotauro; e fa una similitudine, così dicendo: Quale è quel toro, che si slaccia in quella. Che à ricevuto lo colpo mortale; che spesse volte avvenia nelli sacrifici, come dicono li autori, Che gir non sa; per lo colpo ch’à avuto, ma qua e là saltella; per la pena della morte; Vid’io; cioè Dante, lo Minotauro far cotale; cioè quale il toro detto di sopra. E quello accorto; cioè Virgilio, gridò; a me Dante: Corri al varco; cioè al passo, ove è la scesa nel vii cerchio, Mentre che infuria; cioè che contende con la sua furia, è buon che tu ti cale; cioè tu Dante, giù per questa ripa. E qui è notabile che la ragione significata per Virgilio ammaestra la sensualità significata per Dante, che l’uomo si dee togliere dinanzi al furioso, e non dee stare a contendere con lui.
C. XII— v. 28-45. In questi sei ternari finge l’autore come discesono per quel dirupato, e come Virgilio li rende ragione di quella ruina, dicendo: Così; cioè come detto è di sopra, prendemmo via; Virgilio et io Dante, giù per lo scarco; cioè per quello scaricamento Di quelle pietre; che si scaricavano e rovinarono giuso e rimasonne smosse assai per lo luogo, che spesso moviensi Sotto i miei piedi; cioè di me Dante, per lo novo carco: imperò ch’io era col corpo, e quindi non soleano passare se non anime. E questa fizione fa l’autore, per fare verisimile lo suo poema in questa fizione; et allegoricamente, per mostrare che non si può scendere nel peccato della violenzia, se non per ruina e per durezza di mente significata per le pietre. Io; cioè Dante, gìa pensando; e quei; cioè Virgilio, disse: Tu pensi Forse in questa ruvina; cioè in questa rottura, che è guardata Da quell’ira bestial; cioè del Minotauro, lo qual significa la violenzia 11 accompagnata con ira: imperò che la violenzia nasce dell’ira o cade in ira, innanzi che si vegga il fatto, ch’io ora spensi; cioè la quale io Virgilio annullai; e notantemente dice, io spensi; perchè la ragione spegne et annulla l’ira bestial col suo senno, sì che non noccia alla sensualità, et ancora che non la corrompa. Or vo’, che sappi; tu Dante, che l’altra fiata, Ch’io; Virgilio, discesi qua giù nel basso Inferno; questo dice a differenzia del limbo, ove elli stava che è alto a rispetto delli altri cerchi; e dice Virgilio che altra volta scese nell’inferno, come detto fu di sopra, e quella ripa non era conscesa ancora 12, e però dice: Questa roccia; cioè ripa, non era ancor cascata; com’è ora. Ma certo poco pria, se ben discerno. Finge Dante che Virgilio dica che quella ripa rovinasse, quando nell’ora sesta del venerdi’ santo che Cristo sostenne passione e morte, la terra tremò, e così rovinasse quivi et in altra parte dell’inferno, come si dirà di sotto; e questo finge l’autore per mostrare questa allegoria, che nella morte di Cristo fu rotta e vinta tutta la violenzia del demonio. Che venisse Colui; cioè Cristo, che la gran preda; de’ santi Padri, Levò a Dite; cioè a Plutone; cioè a Lucifero, del cerchio superno: cioè del limbo, Da tutte parti l’alta valle feda; cioè la profonda e brutta valle infernale, Tremò sì, ch’io; Virgilio, pensai che l’universo; cioè il mondo tutto, Sentisse amor; cioè concordia, per lo qual; amor, è chi; cioè alcuno che creda Più volte il mondo in caos converso; cioè tornato in confusione, come fu quando fu fatta la pregiacente 13 materia, innanzi che si riducesse in forma. Questo, che crede così, è qualunque tiene l’opinione d’Empodocles che dicea che, quando li elementi e li movimenti de’ cieli aveano concordia, tornava lo mondo in caos; e quando quella concordia era passata, ritornava nella sua forma, e dicea che questo era avvenuto più volte et ancor dovea avvenire. Et in quel punto; cioè nell’ora sesta del venerdi’ quando Cristo sostenne 14, che fu tremuoto, questa vecchia roccia; cioè questa vecchia ripa, Qui et altrove tal fece riverso; cioè tal rompimento, come si dirà di sotto, da alcuno de’ ponti15 di male bolge.
C. XII — v. 46-66. In questi sette ternari finge l’autor nostro come Virgilio li dimostra le pene del primo girone del vii cerchio, e come li Centauri vollono impedire lo suo discenso, e come Virgilio rimediò, dicendo: Ma ficca gli occhi; tuoi, Dante, a valle; cioè giù alla valle: che s’approccia; cioè che s’approssima, La riviera; cioè la ripa: ripa è lo piano allato al fiume 16 et argine, del sangue, in lo qual bolle Qual che per violenzia in altrui noccia. Finge Dante che questa fosse una fossa di sangue bogliente, nella quale si punissono li violenti contra lo prossimo e le sue cose, che è lo primo grado della violenzia, meno grave che gli altri. E questo finge per conveniente pena alli violenti nel primo grado: imperò che come sono stati ardenti nelli suoi desideri, e per quelli mossi a ira ànno offeso il prossimo; così è degna cosa che di là sieno arsi nel sangue bogliente: e come sono stati spargitori di sangue; così sieno puniti in sangue per fare verisimile lo suo poema. E per allegoria di quelli del mondo intende: imperò che sempre bollono nel sangue: imperò che sempre ardono ne’ suoi desideri et accendonsi per ira a spargere il sangue umano; e per ciò pone l’autore una esclamazione contro alla cupidità e contra l’ira, dicendo: Oh cieca cupidigia. Ben dice cieca, però che rende l’uomo cieco: però che la cupidità accieca la ragione, e ria e folle; cioè rea e stolta, perchè fa l’uomo reo e stolto. Et altro testo dice: et ira folle; questo dice a differenzia dell’ira per zelo, la quale è buona e savia, l’altra è ria e stolta, Che sì ci sproni; cioè molesti, nella vita corta; cioè nella vita mondana che è brieve, anzi brevissima a rispetto dell’altra, che è eterna, E nell’eterna; cioè vita, poi sì mal c’immolle; cioè ci bagni! Imperò che dopo questa vita, eternalmente lo peccato della violenzia è punito poi nell’altra vita, secondo la fizione dell’autore, nella fossa del sangue bogliente. E per non avere ardire di questo peccato altro 17, vederemo qui che è violenzia, e quante sono le sue spezie e quante le sue compagne e figliuole e li rimedi a sì fatto peccato. E prima, violenzia è forza fatta et usata a danno e male altrui, e nasce questa da cupidità, e cupidità nasce da superbia; e però finge l’autore che sia punito dentro dalla città Dite. E sono tre specie di violenzia, come è mostrato di sopra; cioè violenzia contra il prossimo, contra a sè medesimo, e contra Dio: violenzia contra il prossimo è in due modi, o contra la persona del prossimo o contra le sue cose; contra la persona, o con battiture, o con ferite, o con morte; contra le sue cose, o con disfacimento, o con mordio 18, o con ruberia. E però le compagne della violenzia nel prossimo e sue cose sono ria 19 battaglia, flagellazione, spargimento di sangue, rapina, incendio e ruina; e sue figliuole sono villania, dolore, povertà, morte; li rimedi di questo vizio, quanto all’agente, sono mansuetudine, pace, remissione, considerazione di sè medesimo; e quanto al paziente, sono cautela, forza e fuga, e tutte queste cose tocca l’autore nel testo, come appare ne’ suoi luoghi. Io vidi; cioè Dante, un’ampia fossa in arco torta; questo dice perchè era tonda secondo lo primo giron del vii cerchio, e però dice: Come quella, che tutto il piano abbraccia; in circuito, Secondo ch’avea detto la mia scorta; cioè Virgilio. E questa pena è conveniente a sì fatto peccato: imperò che degna cosa è che coloro che sono spargitori di sangue, bollano nel sangue. Et allegoricamente s’intende di quelli del mondo che continuamente bollono nel sangue per accendimento d’ira, e così vanno accompagnati da Bellona, che significa spargimento di sangue, che fingono i poeti che vada per la battaglia con forze sanguinose, battendo li combattitori. E tra il piè della ripa; che erano scesi, et essa; cioè fossa del sangue, in traccia; cioè in brigata, Corrien Centauri armati di saette; questi Centauri, secondo che fingono i poeti, furono figliuoli di Issione re de’ Lapiti di Tessaglia di Grecia. Questo Issione desiderò d’avere congiunzione con Giunone moglie di Giove, e richiesela di ciò: ond’ella schernendolo fece venire una immagine di nebbia in sua figura con la quale Issione si congiunse, e quindi nacquono li Centauri, i quali si diceano essere mezzi uomini e mezzi cavalli, i quali furono ferocissimi e violenti, sicchè essendo alle nozze di Peritoo compagno di Teseo, poichè furono bene pasciuti et inebriati, vollono fare violenzia alla sposa; ma Ercole e Teseo li cacciarono battendoli in sino allo spargimento del sangue. Questa fizione i poeti posono, intendendo questa verità, che Issione lo quale non era di stirpe reale volle avere congiunzione con Giunone, la quale è idia de’ reami; cioè volle acquistarsi regno; onde ella s’apparecchiò la nebbia in sua figura, cioè li beni fortuiti ovvero mondani, che sono come nebbia che appaiono e non sono quel che dimostrano, e di questo nacquono i Centauri: imperò che Ission avendo de’ beni mondani assai, ordinò d’avere cento uomini a suo soldo e poseli a cavallo: perchè 20 furono i primi che in Grecia cavalcassono 21, pareano a coloro che prima li vidono cavalcare, dando bere a loro cavalli a uno fiume sì che i cavalli stavano col capo e collo chinati a bere, che fossono mezzi uomini e mezzi cavalli, e perchè erano cento et erano velocissimi come il vento che si chiamava aura, erano chiamati Centauri, e con questi acquistò Ission lo regno. E il nostro autore finge questi Centauri essere a guardia delle fosse, ove beono 22 li violenti, per convenienzia: imperò che come sono stati strumento nel mondo col quale i tiranni ànno fatto violenzia ai suoi sudditi; così sieno di là loro a tormento; cioè la memoria loro: e perchè in questa vita si dilettarono di loro, abbiano nell’altra di loro tormento: e come in questa vita erano a guardarli da tormento; così nell’altra sieno a guardarli da riposo: e com’erano a fare in questa vita li altri uomini loro suggetti; così sieno nell’altra a fare loro suggetti a’ dimoni. E moralmente intende di quelli del mondo, intorno a’quali accesi d’ira e bollenti nel sangue stanno li soldati i quali non li lasciano uscire della fossa del sangue; cioè del reo pensiere di spargere il sangue delli uomini; e dice armati di saette: però che questi Centauri fìngono i poeti che fossono arcieri, perchè erano più atti a nuocere da lunga, et assalivano e scacciavano la gente, e però aggiugne: Come solean nel mondo andare a caccia; in brigata; così andavano intorno a quella fossa. Vedendoci calar; cioè me Dante e Virgilio giù dalla ripa, ciascun; di quelli Centauri, ristette; cioè stette fermo, E della schiera; de’ Centauri, tre si dipartiro. Nomina qui l’autore tre Centauri come capitani delli altri, per mostrare le tre spezie della violenzia; cioè per Nesso quella che si fa nel prossimo e sue cose; per Chiron quella che si fa in sè medesimo; e per Folo quella che si fa contra Dio: o forse perchè tre se ne trovavano più nominati appo li autori, però finge che fossono tre; cioè Chiron, Nesso e Folo. Con archi et asticciuole; cioè saette, prima elette cioè scielte, come è usanza de’ balestrieri et arcieri di scegliere le saette più atte a saettare: E l’un; di quelli Centauri; cioè Nesso, come apparirà di sotto, gridò di lungi; a Dante et a Virgilio: A qual martiro; di questi tre gironi, Venite voi, che scendete la costa? Ditel costinci, se non l’arco tiro; per saettarvi; e finge l’autore che questo facesse più tosto Nesso che gli altri, perch’egli è de’ violenti contra il prossimo. Lo mio Maestro; cioè Virgilio, disse; rispondendo alla domanda del Centauro: La risposta Farem noi a Chiron; ch’era loro caporale, costà di presso; e questo è notabile perchè quando l’uomo s’abbatte a così fatta gente non dè 23 far con loro molte parole; ma co’ capitani ch’ànno più discrezione; e così detta la ragione, e perciò fìnge che Virgilio rispondesse: Mal fu la voglia tua sempre sì tosta. Qui li rimprovera Virgilio che caro li costò essere così volentiroso 24; cioè quando volle corrompere Deianira moglie d’Ercole, come si dirà di sotto.
C. XII — v. 67-75. In questi tre ternari l’autor nostro finge come Virgilio li manifesta chi sono quelli tre Centauri, che vennoro 25 contra loro, e che l’uno li sgridò e vollegli saettare, dicendo così: Poi mi tentò; Virgilio, e disse: Quelli è Nesso; che ci minaccia, Che morì per la bella Deianira; che fu moglie d’Ercole, E fe di sè la vendetta elli stesso. E per questo è da sapere secondo che dice Ovidio, libro quarto 26 Metamorfoseos, che quando Ercole tornava con la moglie sua Deianira figliuola del re Oeneo di Calidonia, per la quale avea combattuto con Acheloo, pervenne a uno fiume che si chiamava Ebeno 27 o vero Eveno, e poi fu chiamato Acheloo, vinto da Ercole si mutò in quel fiume. Et essendo il fiume grande per le nevi che erano strutte, Deianira non lo potea passare; onde Ercole aspettava che il fiume mancasse; in quel mezzo venne Nesso Centauro e profersesi ad Ercole di passare Deianira in sulla groppa, et elli potea passare notando: Ercole accettò e gittò di là dal fiume l’arco e la mazza e missesi nel fiume e passò di là, e quando fu di là sentì gridare Deianira perchè Nesso le volea far forza; e perch’era molto bella se n’andava con essa. Onde Ercole avvedendosene prese l’arco e le sue saette avvelenate nel sangue dell’Idra e saettò Nesso e ferillo. Allora Nesso vedendosi morto, pensò di fare sua vendetta e disse a Deianira: Piglia il tuo velo et involgilo nel mio sangue e fanne una camicia; e se mai senti che Ercole s’innamori d’altra donna, fa che si vesta questa camicia e tornerà allo amor tuo. Ella credendolo, così fece. Poi venne per caso 28 ch’Ercole s’innamorò di Iole, onde ella li mandò per Lica quella camicia fatta di quel velo che l’avea serbata ad Ercole, e comandò a Lica che facesse che se la mettesse in dosso e così fece. E questa camicia avvelenata per lo sangue di Nesso, come fu alle carni d’Ercole, lo cominciò tutto a squarciare 29 et appiccarsi alle carni e facealo consumare; onde Ercole saputa la cagione, uccise Lica e nella selva Oete fece accendere la pira delle sue esequie e gittovvisi dentro e così morì e fu traslatato in cielo, come dicono i Poeti; e però dice l’autore che fe di sè la vendetta elli stesso; e questa favola induce l’autore perchè Nesso fu de’ violenti nelle cose del prossimo, che volle torre la moglie ad Ercole. Et è qui moralità che l’uomo forte non può esser vinto da men forte di lui, se non con inganno. E quel di mezzo, che al petto si mira; cioè di quelli tre Centauri, È il gran Chiron, il qual nudrì Achille. Questo Chiron fu uno de’ Centauri, e fu figliuolo di Saturno e di Filires, e però chiama costui grande; e secondo che pone Ovidio nel iv libro De Fastis, e Stazio nel primo dell’Achilleide fu maestro della medicina e della lira, et in ciò fu maestro d’Achille. Et ancora secondo che pone Ovidio, libro ottavo 30 Metamorfoseos, fu balio e maestro d’Esculapio e insegnolli la medicina, e dice Ovidio De Fastis nel sopra detto luogo, che venendo Ercole a albergo con Chirone trafficando le saette d’Èrcole, ne li cadde una in sul piè e feceli piaga incurabile e non potendo morire, desiderandolo, secondo la fizione poetica, fu traslatato in cielo e fatto segno del zodiaco che si chiama Sagittario: e per questa cagione ancor si potrebbe dire che l’autore lo chiama grande; e per tanto l’autore induce Chirone, che fu de’ violenti contra sè medesimo, perchè si ferì elli stesso e fecesi la piaga incurabile. Quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira. Di questo fa menzione Ovidio Metamorfoseos, e Lucano, e dice Lucano che Folo fu ricevitore ad albergo d’Ercole quando passò per Tessaglia e fu molto irascibile e dispregiatore e bestemmiatore bestemmiatore 31 delli idii; e però dice l’autore: che fu sì pien d’ira; et inducelo qui perchè è de’ violenti contra li idii. D’intorno al fosso; del quale fu detto di sopra, vanno a mille a mille; questi Centauri de’ quali già è detto. E qui si può movere un dubbio; cioè se li Centauri furono cento 32, come dice l’autore, che vanno a mille a mille? A che si può rispondere che prima furono cento e poi moltiplicarono e furono infiniti, sì che ben può dire che vadano a mille a mille; e se altri dubitasse perchè l’autor finge che questi sieno nell’inferno a tormentare, puossi rispondere, che secondo lo testo l’autor finge questo, come Poeta secondo l’opinione di coloro che tengono che tutte le cose del mondo ànno sua ombra che le rappresenta nell’inferno; et à seguitato la poesia di Virgilio quanto a luogo generale, ponendo tutti li mostri della natura nell’inferno; ma non quanto al luogo speciale: imperò che Virgilio pone Plutone nella città Dite, e l’autore l’à posto nel canto vii, nel iv cerchio delli avari e prodigi: Virgilio à posto Flegias nel baratro dell’inferno; e l’autore nella palude Stige delli accidiosi et irosi per guidatore della navicella e così delli altri, et è stato renduto ragione di ciò: così ora qui à finto esser li Centauri per la cagion detta di sopra; cioè perchè furono violenti. Ma perchè li pone per tormentatori si può dire, che come nel mondo furono tormentatori de’ violenti; così finga qui per intendere allegoricamente di quelli del mondo: imperò che li soldati sono tormentatori de’ signori che li tengono per far violenzia ad altrui: e per convenienzia li pone qui a tormentare li dannati, perchè significano la coscienzia del peccato della violenzia che sempre rimorde l’anime dannate, benchè quella rimorsione sia sanza pro, come detto è di sopra; e però finge essere in grande numero, perchè in grande numero sono i dannati, e ciascuno à sua rimorsione. Saettando qual’anima si svelle; ecco che per lo saettare intende lo punger della coscienzia, Del sangue; cioè del sangue bogliente in che sono cotti, sì che com’ànno sparto sangue; così sono puniti in sangue, e massimamente costoro che sono stati violenti contra al prossimo, più, che sua colpa sortille; cioè li à dato in parte: imperò che, come si dirà di sotto, quale sta nel sangue poco e quale assai, secondo ch’è stato più e meno violento; e qui finisce la prima lezione.
Noi ci appressammo ec. Qui è la seconda lezione del canto xii nella quale si contiene come pervennono 33 a Chirone e presono scorta da lui et andarono a suo cammino; e dividesi questa lezione in cinque parti: imperò che prima pone come s’appressarono 34 a Chirone e quel che Chirone disse, e Virgilio rispose; nella seconda, come Virgilio li domanda scorta, e come Chiron gliel dà, quivi: Ma per quella virtù ec.; nella terza, come vanno con la guida intorno alla fossa, e come il Centauro manifesta chi sono li bolliti nella fossa, quivi: Or ci movemmo ec.; nella quarta, come vide un’altra gente, di che molti ne conobbe et ancor lo Centauro li manifesta alquanti 35, quivi: Io viddi gente ec.; nella quinta pone come Nesso li manifesta le condizioni della fossa da quella parte che non avea veduto, e come passato Dante si ritornò, quivi; Sì come tu ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale la qual in somma è questa.
Poi che Virgilio ebbe manifestato chi erano li tre Centauri e quel che aveano a fare, dice l’autore che s’appressarono a loro e Chiron tirò l’arco, postovi su la saetta per saettar Dante, e disse a’ compagni che Dante era vivo. Allora Virgilio rispose manifestando la cagione perchè così andava; cioè per grazia divina: nè questi, nè io è degno di questa pena; ma io ti priego per la virtù di Dio che tu ci dia uno di tuoi che ci guidi 36, e mostraci lo guado e porti costui in su la groppa, che non potrebbe altrimenti passare la fossa. Allora Chiron comandò a Nesso che tornasse a dietro e guidasseli e facesse cessare s’altra brigata scontrasse: allora si mossono con la scorta lungo la fossa del sangue bolliente, ove li miseri peccatori metteano alte strida, et allora vide gente nel sangue in sino al ciglio e Nesso lo dichiarò, ch’erano li gran tiranni che sparsono il sangue del prossimo e rubarono il suo avere e nominane alquanti, come si dirà nel testo. Et andati un poco più oltre, lo Centauro si fermò sopra un’altra gente, ch’erano 37 nel sangue in fino alla gola e nomina ancora alcuno: e poi dice che vide gente che v’era quale in fino al pettignone, e quale meno digradando tutta via infino a’ piedi e riconobbene uno, et ancora lo Centauro gliel nominò et andarono tant’oltre che quella fossa cocea pur li piedi, e qui lo Centauro manifesta a Dante la condizione di quella fossa: e come si pose Dante in su la groppa e passollo di là e poi si ritornò a’ compagni. Finita la sentenzia litterale, ora è da vedere il testo con le allegorie, o vero moralità.
li quali lascio per brevità, Che mi commise quest’uficio novo; questo dice per tanto: imperò che mai non fu alcuno che spaurisse da’ vizi sè et altrui, descrivendo l’inferno a questo modo se non Dante. Et assegna la ragione perchè non dee saettare nè lui, nè Dante dicendo: Non è ladron; cioè Dante, nè io; cioè Virgilio, anima fuia. Questo si pone inpropriamente per lo ladrone: imperò che li Centauri aveano a saettare li ladroni del primo girone: chè li furi si puniscono nell’ottavo cerchio, perchè furto si commette per fraude, o vero con fraude, come apparirà di sotto: e di sopra ancor si pose ladroneccio per furto nel canto passato, sicchè l’uno alcuna volta si piglia per l’altro, perchè si convengono in uno; cioè in prendere l’altrui, lo ladrone per forza, e lo furo per froda.
C. XII — v. 91-99. In questi tre ternari l’autor nostro fìnge che Virgilio domandasse a Chiron guida che li scorgesse, e passasse Dante di là dalla fossa, e che Chiron mandasse Nesso a ciò; e però dice: Ma per quella virtù; cioè per la virtù divina scongiura Virgilio Chirone, e non nomina Dio perchè l’infernali non sono degni d’udire il nome di Dio, per cui; cioè per la qual virtù, io; cioè Virgilio, muovo Li passi miei per sì selvaggia strada; come è questa dell’inferno, che significa la considerazione de’ vizi e delle lor pene, come detto è di sopra, Danne un de’ tuoi; cioè Centauri, a cui noi siamo a provo; cioè a probazione; cioè che ci abbia cari sì, che ci faccia buona compagnia: o vero alla guida del quale noi siamo a provare et avere esperienzia di quel ch’è in questa fossa, E che ne mostri là dove si guada; questa fossa del sangue, E che porti costui; cioè Dante, in su la groppa; sua, ov’elli è cavallo: assegna la ragione perchè dice di Dante, e non di sè, dicendo Che, Dante, non è spirto, che per l’aere vada; come posso andare io che sono spirito. Et è qui da notare che l’autore finge questo per fare verisimile lo suo poema, et oltracciò per dare allegoria che la fossa del sangue, che significa la violenzia de’ tiranni, non si può passare se non con forza o con fuga che è significata per lo Centauro, non basta la ragione a passar tal violenzia; e però ove basta la ragione fìnge che Virgilio lo passi, et ove non basta fìnge altra cosa, come appare nelli luoghi passati di sopra: ad Acheron lo passò l’angelo, perchè non bastava la ragione: alla palude Stige lo passò Flegias in sulla navicella, perchè qui ove è ira non guida la ragione; può bene la sensualità passare l’ira per sè medesimo, quando non vi sta o quando fosse ira per zelo, come fu mostrato nel suo luogo di sopra. Chiron si volse in su la destra poppa; cioè poppola; cioè in sul lato ritto, E disse a Nesso: Torna; a dietro, e sì li guida; al passo della fossa e di là, E fa cansar, s’altra schiera; di Centauri, v’intoppa; cioè vi si scontra sì, che costoro non abbino impedimento. C. XII - v. 100-114. In questi cinque ternari finge l’autor nostro come andarono col Centauro intorno alla fossa, e come lo Centauro detto Nesso manifesta chi sono i bolliti nella fossa, dicendo così: Or ci movemmo; Virgilio et io Dante, con la scorta fida; cioè con Nesso; e parla quivi per lo contrario, che non fu fido a Deianira, Lungo la proda del bollor vermiglio; cioè lungo la proda della fossa del sangue bogliente, Dove i bollili facean alte strida; cioè gridavano coloro, ch’erano bolliti nel sangue; e questa è conveniente pena che l’uomo sia tormentato in quello che s’è dilettato. Io viddi; cioè io Dante, gente sotto infino al ciglio; nel sangue bogliente. Questo è conveniente che li occhi, che sanza orrore sono potuti 42 stare a vedere lo spargimento del sangue umano come li tiranni, bollano nel sangue; e così tutti li altri sentimenti, che bene è gran bestialità che l’uomo si diletti dello spargimento del sangue umano, come le fiere. E il gran Centauro; cioè Nesso, disse: Ei son tiranni; costoro che sono così sotto, Che dier nel sangue, e nell’aver di piglio; cioè ànno fatto violenzia altrui, spargendo 43 lo sangue umano e rubando l’avere altrui. Quivi; in quella fossa, si piangon li spietati danni; che ànno dati li tiranni ad altrui: chè sono stati sanza pietà, anzi sono stati crudeli. Quivi è Alessandro. Qui si dubita di quale Alessandro l’autore intendesse, o d’Alessandro Magno o d’Alessandro Fereo 44 di Sicilia: imperò che Alessandro Magno re di Macedonia la quale è in Grecia, e confina con Tessaglia che si comprende sotto Macedonia, fu figliuolo del re Filippo, e tanto fu superbo ch’ebbe intenzione di soggiogarsi tutte le nazioni e popoli, e per questo fu violentissimo combattendo con Dario re dei Persi e Medi, poichè uscì di terra Cetim e fece con lui innumerabili battaglie e così per l’altre parti del mondo. E dice di lui la Bibbia nel libro primo de’ Maccabei ch’elli ebbe tutte le città et uccise li re della terra, e passò infino alle fini della terra e prese le spoglie della moltitudine della gente, e tacette la terra nel cospetto suo e congregò virtuoso esercito e forte, e troppo fu esaltato et elevato lo cuor suo, et acquistò le regioni delle genti e li tiranni, e feceli tributari: molti altri et infiniti spargimenti di sangue e crudelissime cose fece, delle quali ne pone una Seneca; che lo suo maestro Lisimaco diede a devorare a’ leoni; e questo pone ancora Valerio nel libro ix De ira et odio: e cap. De superbia, pone che in tanta superbia venne che negava d’essere figliuolo del re Filippo, et appellavasi figliuolo di Giove Ammone. E per non parere di Macedonia 45 e per parere Idio, velava lo capo suo d’ornamenti convenienti alli idii, e tanto ebbe l’animo pieno di superbia che recitando 46 ad Anassarco suo compagno la sentenzia di Democrito suo maestro ch’erano mondi innumerabìli, disse: Oimè misero! che ancor non ò acquistato pur uno. Onde soggiugne Valerio: Stretta possessione fu quella ad uno uomo che bastò all’abitazione di tutti li idii. Alla fine questo Alessandro fu avvelenato, e perchè niuno rimanesse pari di lui, divise quello che avea acquistato a’ suoi cavalieri, acciò che chi n’avesse una parte e chi un' altra. In tanto fu spargitore di sangue umano che Paulo Orosio lib. 2 47 cap. 12 dice di lui: In tanta malorum moltitudine difficillima dictis fides tribus proeliis, totidemque annis quindecies centena millia peditum, equitumque consumpta. Et Alessandro fereo fu d'una città di Sicilia che si chiamava Fere, e però fu detto fereo, e fu crudelissimo tiranno e spargitor di sangue; e però dice Valerio di lui nell’ultimo libro cap. De exquisita custodia, ch’elli vivea in sì gran sospetto della sua vita, che mai non andava a dormire, ch' elli non facesse cercare lo letto da’ suoi famigliari, e finalmente per lo meretricio della moglie morì, e di costui dicono molti che Dante intese e che il testo dica: e Dionisio fero, Che fe Sicilia aver dolorosi anni. e Dionisio fero, questo Dionisio fu re di Siracusa di Sicilia e fu crudelissimo tanto, che innanzi che fosse fatto re fu mostrato ad una femina in visione, secondo che pone Valerio cap. De somniis libro primo. Dice Valerio che una nobile donna siracusana ch’avea nome Imera, parendoli nel sonno essere menata in cielo, essendoli mostrate le sedie delli idii, vide un uomo di colore rosso letigginoso 48 legato con catene di ferro alla sedia di Giove sotto li piedi suoi; e domandato colui che la guidava chi era colui ch’ era sì legato, udì che dovea essere crudele re di Sicilia e di Italia, e che poi che fosse sciolto delle catene, dovea essere destruttore di molte città. La qual visione quella Imera l’ altro di’ publicò, et avvenendo poi che Dionisio fu fatto signore, et Imera andando a vedere con la turba il nuovo signore, grido ch’elli era colui ch’ella aveva veduto nel sogno; per la qual cosa Dionisio la fece uccidere. Questo Dionisio tanto crudelmente tenne la sua signoria, che essendo chiamati prima li re tiranni, da lui si cominciò chiamare li crudeli e rei re tiranni. Questo Dionisio ebbe a vile non solamente li uomini; ma li dii, secondo che pone Valerio, libro primo capitolo De neglecta religione dicendo che a Locri spogliò lo tempio di Proserpina di tutti adornamenti e poi navicando et avendo bellissimo tempo cianciandosi 49 del suo sacrilegio, disse a quelli ch’erano con lui: Vedete quanta buona navigagione si dà dalli idii alli sacrilegi? Sacrilego è qualunque toglie le cose date a Dio. Recita ancora Valerio che a Giove Olimpio, cavatosi 50 il mantello dell’oro che li avea fatto lo tiranno Iero e messoli uno di lana, disse che il mantello dell’oro era disutile ad ogni tempo: chè la state era troppo grave e lo verno era troppo freddo, e quello della lana era atto ad ogni tempo. Ancor dice che ad Esculapio in Epidauro fece levare la barba dell’oro, dicendo che non era cosa convenevole che il padre d’Esculapio, Apollo, stesse sanza barba; et Esculapio con la barba. Ancora narra Valerio che a tutti li dii che trovava tenere con le mani o con le braccia ornamenti offerti per divozione o per voto si 51 toglieva dicendo, che stolta cosa era non pigliare le cose buone dalli idii, quando le porgono, de’ quali tutto di’ noi li domandiamo: e diceva ch’elli non toglieva; ma pigliava quello che li dii li porgevano. Ma poi li dii feciono vendetta di tante derisioni non nella persona sua; ma nel figliuolo, et in lui ancora per tanto, che stato in signoria 38 anni, fu cacciato, et andatosene in Grecia a Corinto tenne scuola di fanciulli per campare sua vita; onde dice Valerio nel detto capitolo: Lento enim gradu ad vindictam divina procedit ira, tarditatemque supplicii gravitate compensat. La vita sua fu tutta piena di mali, che non si potrebbono dire tante uccisioni e destruzioni di genti e di cittadi che fece e per tanto avea sospetto ognuno; onde per sospetto avea uno fosso intorno al luogo ove dormia e con ponte levatoio si serrava d’entro, e di fuori faceva stare fanti armati a guardia; e le donne, chè n’avea due, facea cercare che non avessono ferro quando andavano a dormire con lui: e faceasi radere alle figliuole per paura de’ barbieri; e quando furono grandi per sospetto di loro non si lasciò più radere con ferro; ma con carboni accesi si facea stremare 52 li peli. Due beni si truova apo 53 li autori che fece nella sua vita; lo primo fu che a una vecchia, che quandunque lo vedea pregava Idio apertamente che li desse vita, et addomandatola perchè ella pregava per lui, disse che avea veduto innanzi a lui parecchi signori che l’uno era stato peggior che l’altro, e però pregava Idio che conservasse lui, acciò che non seguisse dopo lui uno peggiore di lui, com’elli era seguito piggiore del suo antecessore: e perchè non disse alcuna cosa a questa vecchia; ma sostenne questa cortese riprensione, fu reputato uno de’ beni che fece in sua vita. Pensa dunque, lettore, chente 54 fu la sua vita. L’altro fu che perdonò a Damone e Pitia amici veri, perchè vide la loro perfetta amicizia e domandò d’essere loro terzo amico: imperò che avendo condannato l’uno a morte, et elli domandò termine tanto, che potesse andare a casa sua a disporre i fatti suoi, lasciando per stadico l’altro. Avuta la licenzia da Dionisio per provare questa fede d’amicizia, tornò appunto all’ora del termine; onde Dionisio maravigliandosi di questa fede, perdonò all’uno per debito et all’altro per grazia, e domandò essere lo terzo amico. Et intendendo che l’autor parli d’Alessandro fereo, vuol dire il testo: Che fer Sicilia 55 aver dolorosi anni; cioè Alessandro fereo e Dionisio siracusano, sotto la signoria de’ quali Sicilia fu molto oppressata d’avversitadi e sì per la crudele tirannia e sì per le guerre; et intendendo d’Alessandro Magno, dè dire: Che fe Sicilia aver dolorosi anni; et allor s’intenderà pur di Dionisio. E quella fronte, che à il pel così nero, È Azzolino. Mostra Nesso a Dante Azzolino di Romagna e descrivelo per li neri capelli che ebbe, e però parla della fronte denotando per la parte lo tutto; il qual Azzolino fu genero dello imperadore Federigo e fu aspro tiranno e signoreggiò la Marca trevigiana e signoreggiò Padova, Verona e Vicenza e Trivigi, e fece molte crudeltà, tra l’altre fece ardere insieme 1656 uomini di Padova. e quell’altro, che è biondo; dopo Azzolino dimostra Nesso a Dante Opizzo d’Esti, descrivendolo per segni che fu biondo, e però dice: È Opizzo da Esti. Questo Opizzo fu marchese di Ferrara e possedette Modona e Reggio, e poi che fu in signoria perseguitò la parte contraria a lui et uccisene molti et in ultimo fu ucciso dal figliuolo; e perchè pare una abominazione lo chiama figliastro, e molti dicono che fu pur figliastro, e questo fece per avere la signoria, e però dice, il qual; Opizzo, per vero Fu spento dal figliastro su nel mondo; quanto alla vita corporale. Allor mi volsi al Poeta; cioè a Virgilio io Dante: però che Dante era innanzi a lui, e quasi vergognandosi d’andare, dice che si volse a lui per vedere quel che dicesse, et aggiugne: e quei; cioè Virgilio, disse: Questi; cioè Nesso, ti sia or primo, et io secondo; e questo era ragionevole, considerando che Nesso era la guida, e la cagione fu assegnata di sopra; appresso perchè nominava persone non note appo li poeti, sicchè dirittamente fìnge che li mostri Nesso e nominigli.
C. XII— v. 115-126. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come Nesso, andando più oltre mostrò gente ch’era nel sangue infino alla gola, e come vidono gente 57 ch’erano fuor del sangue infino alle gambe et infino a’ piedi e che molti ne conobbe, e qui Nesso fermò lo passo, dicendo: Poco più oltre; cioè che il luogo detto di sopra, il Centauro; cioè Nesso, s’affisse; cioè si fermò, Sopr’una gente, che infino alla gola Parea che di quel bulicame uscisse. Chiama bulicame quella fossa del sangue bolliente per similitudine del bulicame di Viterbo, che è sì caldo che quindi ond’esce si cocerebbono l’uova; e dimostra che costoro erano più fuori della fossa che li altri, per ch’erano stati meno spargitori 58 di sangue, e però finge che vi fossono in sino alla gola, e dalla gola in su ne fosson fuori. Mostrocci un’ombra; cioè Nesso a me Dante e a Virgilio, da un canto sola; mostra che questa fosse sola, perchè non v’era chi avesse fatto simile peccato, e questo fu messer Guido conte di Monforte, il quale nella chiesa di San Salvestro di Viterbo uccise messer Arrigo della casa del re d’Inghilterra, quando si levava il Corpo di Cristo: et in segno di viduità le porti della detta Chiesa non s’aprono, se non a sportello. E questo fu quando dopo la morte di Curradino li elettori dell’imperadore della Magna 59 elessono lo re di Spagna per imperadore; et elli eletto mandò Arrigo suo nipote della casa del re Adoardo d’Inghilterra a Viterbo, ov’era il Papa e la Chiesa per fare confermare l’elezione, e cavalcando una mattina questo Arrigo per Viterbo dalla chiesa di Santo Silvestro udì sonare per levare il Signore e scese da cavallo et entrò nella chiesa, et allora ch’elli stava ad adorare il Corpo di Cristo, il detto conte a petizione del re Carlo ch’era stato duca d’Angiò il quale lo inimicava, l’uccise 60. Onde li suoi presono il cuor suo et imbalsamaronlo e portaronlo in Inghilterra a una città che si chiama Londra, et in Grammatica Lugdunum, ove corre uno fiume che appo loro si chiama Tamis per mezzo la città, bene che l’autore dica Tamisio. Et in su quel fiume è uno ponte et in sul ponte dall’un capo fu fatto un arco ove è lo sepolcro del cuore del detto messere Arrigo in questa forma; che di sopra è posta una imagine di marmo con uno bossolo in mano, nel quale è il cuore del detto messer Arrigo con un coltello fìttovi dentro, e nella imagine è scritta questa sentenzia: Cor gladio fossum do, cuius consanguineus sum, la qual tiene dall’altra mano, et in sì fatto luogo lo fece fare lo detto re Adoardo d’Inghilterra, perchè fosse noto ad ognuno la morte del detto messer Arrigo, perchè avesse a inanimare ciascuno a vendetta della morte sua, e però dice: Dicendo; cioè Nesso, Colei 61 fesse in grembo a Dio; cioè nella chiesa, la quale è grembo di Dio, Lo cuor, che in su Tamisi; cioè in su quel fiume, ancor si cola; cioè s’onora: imperò che tutti l’Inghilesi che vi passano fanno onore a quella statua, et è vocabolo grammaticale e viene da colo, colis. — Poi vid’io gente; cioè io Dante, che di fuor dal rio; cioè da quella fossa, Tenea la testa, et ancor tutto il casso; cioè lo imbusto: è chiamato casso, perchè quella parte è vota nel corpo umano e contiene li membri vitali sì, che significa ch’erano nella fossa infino al pettignone, E di costoro assai riconobb’io; cioè Dante; ma non li nomina però. Così a più a più; cioè quanto più s’andava in là, più si trovava mancare l’altezza del sangue nella fossa, e meno vi stavano fitti li peccatori, e però dice: si facea basso Quel sangue bolliente della fossa, sì, che cocea pur li piedi; de’ peccatori, perch’erano stati meno spargitori di sangue, o forse ch’erano stati con l’affezione micidiali: imperochè i piedi significano l’affezione, e per tanto s’intende che qual v’era infino al ginocchio 62 e qual più e qual meno, secondo che s’andava innanzi che mancava, e secondo che si guardava a dietro ove crescea; E quivi; cioè in quella bassezza, fu del fosso il nostro passo; cioè di Virgilio e di me Dante.
C. XII — v. 127-139. In questi quattro ternari e un verso l’autor nostro finge che Nesso li manifesti, passando la fossa, le condizioni della fossa da quella parte, onde non avean veduto, e come Nesso, portato Dante, si ritornò dall’altro lato, dicendo così: Sì come tu; Dante, da questa parte; onde sian 63 venuti; cioè da sinistra, vedi Lo bulicame; chiama quella fossa bulicame per similitudine del bulicame di Viterbo, che è sì caldo ond’esce, che è bogliente, che sempre si scema; come Dante avea veduto, e come già è detto, Disse il Centauro; cioè Nesso, voglio che tu credi; cioè tu Dante, Che da quest’altra; cioè da mano ritta onde non ài veduto, a più a più; cioè quanto più si viene in verso lei, giù prema Lo fondo suo; che tutta via cresce, infin che si raggiugne; sempre crescendo, Dove la tirannia convien che gema; cioè li tiranni convengono essere tormentati, e così piangono per le pene d’essere cotti in quel sangue, essenti sotto il bollore infino al ciglio degli occhi, e questi sono più sotto che tutti li altri: imperò che da loro innanzi viene digradando sì, che tutta via vengono meno sotto, secondo che meno ànno avuto di colpa. La divina Giustizia; la quale punisce secondo i demeriti, di qua pugne; cioè da man ritta, Quell’Attila, che fu flagello in terra. Questo Attila fu d’Ungheria et ebbe gran seguito et andò per lo mondo flagellando ciascuno, e però fu chiamato Attila flagellum Dei, e destrusse Padova, Aquilea e Fiorenza, et all’ultimo andato in Romagna, entrò in Arimino sconosciuto per vedere le condizioni della terra, et andato ad una loggia fu conosciuto da uno cittadino, lo quale prese uno tavoliere 64 e diedeli in sul capo et ucciselo; e così pose Idio fine alla sua mala intenzione. E Pirro; perchè furono due Pirri, l’uno re delli Epiroti e l’altro figliuolo d’Achille, e ciascuno fu spargitore di sangue, come appare per le storie; lo primo guerreggiò guerreggiò con li Romani; lo secondo fu molto prima; cioè al tempo della rovina di Troia, et uccise molti troiani e sacrificò Polissena figliuola del re Priamo al sepolcro del suo padre Achille; di quale l’autor s’intendesse è incerto. e Sesto; perchè furno 65 ancora due Sesti; cioè Sesto figliuolo del re Tarquino, il quale come narra Tito Livio, libro primo della prima decade, infìgnendosi 66 inimico del padre fu ricevuto dalli Gabini inimici del re Tarquino, e dopo molta virtù simulata, fatto signore trovava cagione sopra ciascuno valente cittadino sì, che tutti li uccise o li mandò in esilio o fuggirono da sè, datane loro cagione; e poi non essendo chi difendesse la terra, la diede al padre; costui fu ancora cagione della morte di Lucrezia; l’altro Sesto fu figliuolo di Pompeio, il quale dopo la morte del padre diventò corsale in Cicilia et andò rubando ognuno et uccidendo; e non è certo di quale intendesse l’autore, potendosi dire dell’uno e dell’altro. et in eterno mugne; cioè prieme la divina Giustizia in questa fossa, Le lagrime, che col bollor disserra; cioè apre. E notantemente dice così l’autore, per mostrare la crudeltà delli infrascritti che furono crudelissimi sì, che mai per compassione non piansono, sì che giusta cosa è che ora sieno costretti a piagnere per le loro pene. Questi due Rinieri furono ladroni e rubatori di strade, e perchè furono molto spargitori di sangue, et ancora perchè rubare è violenzia, però ne fa menzione qui. L’uno fu fiorentino, e l’altro da Corneto, e però dice A Rinier da Corneto. Corneto è uno castello che è in quel di Roma. a Rinier pazzo; questo fu fiorentino e per le pazzie che faceva fu chiamato pazzo, ch’era temerario, Che fecer alla strada tanta guerra; cioè di rubare e spargere sangue, come è detto di sopra, dei detti due Rinieri. Poi si rivolse; cioè Nesso, poi che m’ebbe portato di là in sulla groppa, e ripassossi il guazzo; cioè quella fossa ch’era qui bassa, come è detto di sopra. E qui finisce lo duodecimo canto.
Note
- ↑ C. M. li piedi, e Dante per lo muovere pensò: e perchè
- ↑ C. M. di questa ripa? O tel
- ↑ C. M. lo fiume l’Adice nel lato, e fecelo fare uno buono spazio. - Il nostro Codice a - si dilungò - à la variante - s’allargò.
- ↑ I nostri antichi, a mostrare la cagione materiale, adoperavano frequentemente il segnacaso articolato. Dante stesso, Par. C. xvi v. 110 disse: le palle dell’oro. E.
- ↑ C. M. li mutasse bianchi,
- ↑ C. M. uno ghiomo di filo in mano
- ↑ C. M. come è il toro: lo toro à questa
- ↑ C. M. le suoe suori.
- ↑ C. M. che per l’ira si rompe
- ↑ C. M. discendesse, - e il nostro Codice - discendisse - che potrà essere una delle consuete riduzioni di verbi presso i nostri antichi. E.
- ↑ C. M. la violenzia procedente da malizia e da bestialità accompagnata
- ↑ C. M. era anco scoscesa, e però
- ↑ C. M. la piacente materia,
- ↑ C. M. sostenne passione, che
- ↑ C. M. in alcuno dei punti
- ↑ C. M. al fiume, tra il fiume e l’argine,
- ↑ C. M. per non avere ad ardire altrove di questo peccato vederemo - Ardire vale ridire. In parecchie provincie d’Italia la particella reduplicativa è tuttora ar in luogo di ri o re. E.
- ↑ C. M. o con incendio, o con rubbaria.
- ↑ C. M. ira, battaglia,
- ↑ C. M. E perchè funno li primi
- ↑ L’imperfetto del congiuntivo nella terza persona plurale ora si adopera nella sola terminazione in ero, cavalcassero; ma anticamente ne aveva diverse, cavalcassano, cavalcasseno, cavalcassino e cavalcassono. Cavalcassano si ode tra la plebe toscana, e cavalcassono venne per la uniforme piegatura che volea stabilirsi nei princìpi della lingua. E.
- ↑ C. M. dove bollono li violenti,
- ↑ C. M. non si dè imparolare con loro; ma coi capitani
- ↑ C. M. volontaroso;
- ↑ C. M. venneno loro incontra, e che
- ↑ C. M. nel libro nono
- ↑ C. M. Eeno o vero Eneno
- ↑ C. M. Et avvenendo possa caso ch’Ercule
- ↑ C. M. a stracciare et appiccarsi
- ↑ C. M. libro secondo
- ↑ C. M. biastimatore delli dii;
- ↑ L’etimologia dei Centauri data dal nostro Commentatore non si accorda con gli antichi Mitologi. Dicono essi che i figliuoli d’Issione, montati a cavallo ed armati di pungoli, ebbero liberata la Tessaglia dai tori selvatici che la infestavano. Allora il nome si comporrebbe di κεντέω; pungere, ταυρως; toro. E.
- ↑ C. M. pervenneno ad Chirone e preseno
- ↑ C. M. s’approssimonno ad Chirone
- ↑ C. M. ne manifestò alquanti e manifestati lo passò su, quine:
- ↑ C. M. de’ tuoi che ci guidi, e mostrici
- ↑ C. M. che era
- ↑ C. M. leggieri,
- ↑ C. M. umana et equina, che,
- ↑ C. M. mi vedi, Mostrarli mi convien la valle buia; dell’inferno, per necessità, quanto a Dante,
- ↑ C. M. d’avere a diletto.
- ↑ C. M. ànno potuto
- ↑ C. M. spregiando
- ↑ C. M. Fero
- ↑ C. M. di Macedonia dispregiava li vestimenti e li costumi di Macedonia e per parere Dio,
- ↑ C. M. recitando Anassarco
- ↑ C. M. libro terzio
- ↑ C. M. lentigioso
- ↑ C. M. cianzandosi
- ↑ C. M. toltoli
- ↑ C. M. se li tollieva
- ↑ C. M. strinare
- ↑ Apo, meglio si accosta all’apud latina, donde proviene. E.
- ↑ C. M. quale fu
- ↑ C. M. Che fen Cicilia
- ↑ C. M. quaranta omini
- ↑ C. M. vide genti
- ↑ Altrimenti - persecutori del sangue
- ↑ C. M. d’Alemagna
- ↑ C. M. lo quale minacciava, uccise.
- ↑ C. M. Colei; cioè lo ditto conte, fesse
- ↑ C. M. infine alli occhi e qual più
- ↑ C. M. siamo venuti;
- ↑ C. M. uno cavalieri e dielli in sul capo
- ↑ Furno, sincope di furono, la quale non fu rada appo gli antichi, nè è scaduta presso il popolo. E.
- ↑ C. M. simulandosi