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c a n t o   xii. 319

76Noi ci appressammo a quelle fiere snelle:
      Chiron prese uno strale, e con la cocca
      Fece la barba indietro alle mascelle.
79Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
      Disse a’ compagni: Siete voi accorti,
      Che quel di dietro muove ciò, che tocca?1
82Così non soglion fare i piè de’ morti.
      E il mio buon Duca che già gli era al petto,
      Dove le due nature son consorti,
85Rispose: Bene è vivo, e sì soletto
      Mostrarli mi convien la valle buia:
      Necessità m’induce, e non diletto.
88Tal si partì da cantare alleluia,
      Che mi commise quest'uficio novo:
      Non è ladron, nè io anima fuia.
91Ma per quella virtù, per cui io muovo
      Li passi miei per sì selvaggia strada,
      Danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo,2
94E che ne mostri là dove si guada,
      E che porti costui in su la groppa;
      Che non è spirto, che per l’aere vada.
97Chiron si volse in su la destra poppa,
      E disse a Nesso: Torna e sì li guida,
      E fa cansar, s’altra schiera v’intoppa.3
100 Or ci movemmo con la scorta fida
      Lungo la proda del bollor vermiglio,
      Dove i bolliti facean alte strida.


  1. v. 81. C. M. di rietro
  2. v. 93. a provo; a presso. Codesto avverbio vive tuttora nel popolo genovese, e nasce dal latino ad prope, mutato in v il p come in sovra da supra. E.
  3. v. 99. C. M. E fa cessar,