Chi l'ha detto?/Parte terza/84

Parte terza - § 84. Scherzi, motteggi, frasi giocose

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§ 84.

Scherzi, motteggi, frasi giocose



In questa categoria di frasi scherzevoli, motteggiatrici e giocose entrano tanto delle frasi dette originalmente per facezia quanto altre che pure dette sul serio si prestano ad essere usate soltanto in senso faceto.

Qui per esempio collocheremo la triade dei tre nomi,

2128.   Tizio, Cajo e Sempronio.

così comuni nelle esemplificazioni dell’antichità, ed ora rimasti più che altro nel parlare scherzevole, ma che hanno essi pure origini classiche. Tutti e tre questi nomi si trovano già frequentemente ripetuti come designazioni schematiche nel Digesto (il secondo è anche nome di un noto giureconsulto romano), ma l’unione dei tre nomi, Titius, Cajus et Sempronius, non mai usata nell’antichità, è, secondo crede il Gaudenzi (Storia del cognome a Bologna nel sec. XIII, in Bull. dell’Ist. stor. ital., n.° 19, pag. 39, in n.), opera del famoso giurista Irnerio, e da lui si è trapiantata nella letteratura dei glossatori, e poi nell’uso moderno. Il Gaudenzi aggiunge ch’essa si trova per la prima volta usata nel Formulario notarile Magliabechiano, d’ignoto autore ma attribuito a Irnerio, della fine del secolo XII, o del principio del XIII, pubblicato da G. B. Palmieri nella Bibliotheca iuridica medii aevi, vol. I (Scripta anecdota glossatorum; vedi a pag. 204, col. 2a).

E qui vanno pure citati, benchè appartengano a sacri testi:

2129.   Sicut erat in principio.1

[p. 756 modifica]parole che si dicono scherzosamente o per ironia, trattandosi di cose o lavori che non progrediscono, di guai che non vogliono migliorare, ecc. ecc.; e sono parole della cosiddetta dossologia breve o minore (o Gloria Patri) che per antico uso, di cui sono incerte le origini, si recita nella liturgia della messa in fine di ogni salmo, dopo l’introito (e chi non sa che «tutti i salmi finiscono in gloria»?). Il testo della dossologia, quale si usa nel rito occidentale, è: «Gloria Patri, et Filio, et Spiritui sancto; sicut erat in principio, et nunc, et semper, et in sæcula sæculorum. Amen.» E le parole Sicut erat in principio, ecc., vuolsi siano state aggiunte dal Concilio Niceno nel 325 per confutare l’errore degli Ariani, i quali sostenevano che il Figliuolo di Dio fosse cominciato nel tempo, non fosse stato ab æterno.

2130.   Ait latro ad latronem.2

Con queste parole comincia la terza antifona delle Laudi in fine dell’Ufficio del Venerdì Santo (Feria VI in Parasceve): l’uso volgare le ha usurpate in senso beffardo; non meno delle altre del Salmista:

2131.   De populo barbaro.

usate correntemente nella frase «cose de populo barbaro» di cui tutti sanno il significato e che appartengono a uno dei salmi più noti, il 113 (v. 1): «In exitu Israel de Aegypto, domus Jacob de populo barbaro» (cioè, quando Israele si partì dall’Egitto e la casa di Giacobbe si allontanò da un popolo barbaro).

Qui troverà anche luogo, per l’atto sconcio che esprime, il verso dantesco:

2132.   Le mani alzò con ambedue le fiche.

e qui ugualmente il verso del Berni:

2133.   Andava combattendo, ed era morto.

Narra messer Franc. Berni nell’Orlando Innamorato (c. LIII, ott. 60) di Orlando che accorso in aiuto di Carlomagno alle prese [p. 757 modifica] con i Saracini, fa cose meravigliose con la sua Durlindana la quale tagliava così finamente che appena si sentiva il suo ferire. Va addosso ad Alibante di Toledo e lo taglia giusto per traverso.

     Onde ora avendo a traverso tagliato
          Questo Pagan, lo fe’ sì destramente,
          Che l’un pezzo in su l’altro suggellato
          Rimase senza muoversi niente;
          E come avvien, quand’uno è riscaldato,
          Che le ferite per allor non sente:
          Così colui, del colpo non accorto,
          Andava combattendo ed era morto.

E seguita così a tirar colpi alla ventura, persuaso di aver sane tutte le sue membra, finchè, avendone tirato uno a due mani un po’ sgarbatamente, la parte superiore del busto perdè l’equilibrio e cadde in avanti. Il Berni con questa facezia imitò in parte e in parte esagerò una vecchia storiella, che non si trova nel Boiardo, di cui il Berni rifece il poema, ma che s’incontra nel Ciriffo Calvaneo di Luca Pulci, nel c. V, ov’è narrata la morte di Sinettorre (ediz. di Firenze 1572, a pag. 44).

2134.   Est est est.

Nota è la leggenda che spiega questo motto sibillino. Un vescovo tedesco, di cui alcuni aggiungono il nome, Giovanni Fugger, viaggiava in Italia; ed essendo molto ghiotto del buon vino, aveva incaricato un suo domestico di precederlo, e di assaggiare il vino per tutte le osterie dalle quali passava, segnando sulla porta di quelle ove trovava vino buono, est, cioè est bonum, è buono, o semplicemente , poichè nell’uso medievale est valeva per l’affermativa. Giunto a Montefiascone, e assaggiato lo squisito moscato di colà, trovatolo superiore a tutti i vini precedentemente gustati scrisse tre volte est. Il vescovo arrivò, e tanto ne bevve, che morì: e sulla sua tomba nella chiesa di S. Flaviano, il fedel servitore fece apporre la iscrizione:

Est. est. est
Propter nimium est
Joannes de Fugger
dominus meus
mortuus est.

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Anche il vino, causa della morte del buon prelato, si chiama tuttora col triplice Est. Questa è la versione più diffusa della leggenda, ma altre pure ne esistono. La più antica, senza particolari di persone, è conservata nello Schrader, Monum. Italiæ (Helmaestad., 1592), pag. 100; il De Angelis nel Commentario storico-critico della città e cattedrale di Montefiascone (M. F., 1841) dice che il vescovo fu certo Deuc; L. Pieri Buti nella Storia della città di Montefiascone (M. F., 1870), a pag. 64, dà invece altri particolari, affatto diversi, cioè che la persona in questione era un barone tedesco, Giovanni Defuk, venuto in Italia con Enrico V sul cominciare dell’anno 1111, che la sua morte fu nel 1113, e che egli morendo lasciò alla città il suo patrimonio perchè fosse impiegato in opere di beneficenza, con l’obbligo di versare ogni anno sulla tomba di lui un barile del buon moscato, che lo condussse alla tomba. La variante cui mi sono attenuto, sta nel Giornale dì erudizione di Firenze (serie in-8°), 15 gennaio 1886. Vedi anche l’opuscolo del Maineri, Est! Est! Est! o il Vescovo beone (Roma, 1888), l’Archivio per lo studio delle tradiz. popol., vol. VIII, 1889, pag. 299-300; e Giac. Morgante, Un tedesco in Italia (Roma, tip. F. Fiordelisi, 1917).

Ecco altri saggi di poeti italiani di diversi tempi, che sentono del faceto:

2135.   Sudate, o fochi, a preparar metalli.

è il principio di un noto sonetto di Claudio Achillini in lode di Luigi XIII dopo la presa della Roccella e la conquista di Casale. Lo si ricorda oggi di frequente in beffa del secentismo barocco non meno che il famoso:

2136.   Bagnar coi Soli e rasciugar coi fiumi.

concettino finale di un sonetto su S. Maria Maddalena, che non è del Marini nè dell’Achillini nè del Preti come si dice comunemente, ma di un oscuro marinista, Giuseppe Artale (n. Mazzarino presso Catania, 1628; m. 1679):

     L’occhio e la chioma in amorosa arsura
          Se ’l bagna e ’l terge, avvien ch’amante allumi
          Stupefatto il fattor di sua fattura;
     Chè il crin s’è un Tago e son due Soli i lumi,
          Prodigio tal non rimirò natura:
          Bagnar coi Soli e rasciugar coi fiumi.

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Il sonetto fu pubblicato nella P. I. dell’Enciclopedia poetica dell’Artale (di cui la prima ediz. è del 1658, ma la ediz. migliore è quella di Napoli, Bulifon, 1679: ved. a pag. 7); ed è anche riprodotto nella raccolta di Lirici marinisti, a cura di Benedetto Croce (Bari, Laterza, 1910), a pag. 453.

2137.   Il can danzando con tre cagnolini,
     Il gatto allegro con cinque gattini.

Grande celebrità ebbero verso la fine del secolo XVIII e nella prima metà dello scorso centennio, certe pie Canzonette marinaresche sopra le principali festività della Madonna, composte in endecasillabi a rima accoppiata da un gesuita novarese, il P. Girolamo Torniello (nato nel 1694), predicatore valoroso e noto anche quale autore di un sonetto bilingue (ossia latino e italiano al tempo istesso) in lode di Maria che comincia:

Vivo in acerba pena in mesto orrore.

Queste canzonette, che furono più e più volte ristampate, parvero allora soavissime e festevolissime; ma oggi sono la cosa più amena che immaginare si possa. È nella quinta canzonetta sulla festività della Visitazione che descrivendosi il giubilo generale in casa di S. Elisabetta per la insperata visita della Madonna si aggiunge questa ingenua pittura, che è rimasta famosa:

     Il can danzando con tre cagnolini,
          Il gatto allegro con cinque gattini.
     E l’agnelletto coperto di gigli,
          E quattro chioccie con tutti i lor figli;
     Chi latra, o miaula, chi crocchia, chi bela
          Ma senza strido, ma senza querela, ecc.

All’universale esultanza si unisce perfino.... il feto che sta ancora nel ventre di S. Elisabetta, poichè

     Giovanni intanto nel seno materno
          Già più non cape pel giubilo interno,
     E va cercando per ogni cantone,
          Se trova modo d'uscir di prigione
          .   .   .   .   .   .   .   .   .
     E danza e balza per nascergli appresso
          E fa danzare la madre con esso.

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Après cela il faut tirer l’échelle!

2138.             Il vezzoso terremoto.

L’ab. Vanneschi di Firenze, autore di certi drammi per musica, roba proprio da chiodi, ne aveva fatto rappresentare uno al teatro del Cocomero, oggi Niccolini; e poichè vi aveva introdotto una arietta che cominciava: Il Leone che scherza e ride, Tommaso Crudeli, di Poppi nel Casentino (1703-1745), bello e vivace ingegno, e poeta non spregevole, che assai odiava il Vanneschi, nel sentir cantare quell’arietta, improvvisò tre epigrammi, dei quali non rimase celebre che un verso solo:

          L’elefante innamorato
               Con maniera — non più fiera,
               Ma gentile, ma vezzosa,
               La proboscide amorosa
               Spinge in seno al caro ben.
               
          Graziosetta oltre l’usato,
               E nel volto più serena
               Va per l’onde la balena,
               Vezzeggiando, saltellando
               Quando amor le punge il sen.
               
          Il vezzoso terremoto
               Va ingoiando le città,
               Ed il fulmine giulivo,
               Non lasciando un uomo vivo
               Va scherzando in qua e in là.

Il terzo di questi epigrammi fu da altri attribuito, ma a torto, ad Antonio Valentini, di Lecce, strambo poeta, lo stesso che per dimostrare il suo sviscerato amore ad una donna, le diceva: Donna, ti amo sino al pugnale, e che li avrebbe scritti dopo il terremoto, tutt’altro che innocuo, del dicembre 1857, nell’ex-regno di Napoli. E citano i versi medesimi in quest’altra forma:

          Il gentile terremoto,
               Con l’amabile suo moto
               Smantellava le città,
               Mentre il fulmine giulivo,
               Che non lascia un uomo vivo,
               Saltellava qua e là.

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2139.   Prima sputò tre volte, poi tossì,
     Indi a parlare incominciò così.

(Lor. Pignotti, Il topo romito, favola).

2140.                                 ...Con altri e spessi
Segni del tuo valore, o Sfregia, impressi.

(Parini, In morte del barbiere, v. 25-26).

2141.   Qui giace un Cardinale
     Che fe’ più mal che bene,
     Il ben lo fece male,
     Il mal lo fece bene.

è un epigramma, non originale, di Filippo Pananti, e ad un altro epigramma del medesimo autore appartengono i seguenti versi:

2142.   Mercato nuovo ancor dopo mill’anni
     Sempre si chiamerà Mercato nuovo.

L’intiero epigramma cosi dice:

          Sul dorso ha un mezzo secolo Isabella,
               E ancor detta esser vuol giovine e bella.
               Chi è sciocco la condanni:
               Io dico che ha ragione, e ve lo provo:
               Mercato nuovo ancor dopo mill’anni
               Sempre si chiamerà Mercato nuovo.

2143.   Prete Pero è un buon cristiano,
     Lieto, semplice, alla mano;
                              Vive e lascia vivere.

(G. Giusti, Il Papato di Prete Pero, str. 1).
Questo Prete Pero è figura già viva nella fantasia popolare, e di lui si diceva in proverbio che insegnava a dimenticare, onde Francesco Redi, in uno scherzo poetico senza titolo (Opere, to. III, Venezia 1712, a pag. 143) scrisse:

          Prete Pero era un Maestro,
               che insegnava a smenticare,
               Goffo sì, ma però destro,

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               Ed io era suo scolare;
               E il primo giorno ch’alla scuola andai
               La costanza in Amor dimenticai.

Fu rimessa di moda ai giorni nostri dalla commedia di Dario Niccodemi, Prete Pero, che rappresentata per la prima volta alla Scala di Milano, dalla compagnia Zacconi, il 13 giugno 1918, suscitò tanti clamori e tante polemiche.

2144.   ....Mangi tu, mangio ancor io,
     Mangiamo tutti col nome di Dio!

sono versi di Antonio Guadagnoli nelle sestine Il Secolo Umanitario, scritte come prefazione all’almanacco fiorentino Sesto Caio Baccelli per il 1842. Forse il Guadagnoli non fece che incastonare nei suoi versi un modo di dire vivo da lungo tempo nel popolo. In ogni modo ecco i versi completi. Parlando delle gabelle e dei dazii che asciugavano le tasche, il poeta dice che se il popolo soffre la fame, c’è chi mangia per lui:

                              ....mangia il doganiere,
          Mangia la guardia, mangiano gli agenti,
          Mangia (e forse anche troppo) l’ingegnere,
          Insomma, mangi tu, mangio ancor io,
          Mangiamo tutti col nome di Dio!

E sono dello stesso Guadagnoli anche questi:

2145.   Misericordia! cantavano i grilli
     Il dì dell’Ascensione alle Cascine,
     Per muovere a pietà coi loro strilli
     I Fiorentini e più le Fiorentine.

(I grilli, sest. 1).

Il primo verso che in Firenze è popolare, accenna a una tradizionale costumanza, antica in Firenze, di andare il giorno dell’Ascensione alle Cascine, famosa passeggiata fuori della città, a far colazione, e cercare grilli da mettersi in gabbia; ma il Guadagnoli lo prese di pianta da una vecchia frottola popolare, che comincia:

          Misericordia! cantavano i grilli,
          Quando gli detter foco alla capanna:
          Ce n’era tanti di que’ piccirilli,
          Che chiedevano ajuto a babbo e mamma.

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2146.                  La vispa Teresa.

è il primo verso di una notissima poesiola per fanciulli, intitolata La Farfalletta, di cui quasi tutti i versi sono famosi, ma specialmente i primi

               La vispa Teresa Avea
               tra l’erbetta
               Al volo sorpresa
               Gentil farfalletta

e l’ottavo

               L’ho presa, l’ho presa!

Naturalmente si ripetono e si citano facetamente, senza che ciò implichi scherno alla poesia in sè che è garbata e ben adatta alle ingenue menti dei bambini. Come succede di tutte le poesie molto note, nessuno più ricorda il nome dell’autore che è Luigi Sailer (1825-1885), buon scrittore di cose educative e didattiche, manzoniano fervente, che fu rettore del collegio Calchi-Taeggi in Milano, sua città natale e poi professore di lettere alla Scuola Militare di Modena. Si veda una biografia di lui, forse dettata da lui stesso, nella prima ediz. (1879) del Dizionario biogr. degli scritt. contemp., diretto da Angelo De Gubernatis, pag. 1244, e alcune commosse pagine di Franc. D’Ovidio nel volume: Rimpianti (Palermo, 1900), pag. 246 sgg. Non è facile risalire alle prime stampe di questa poesiola, poichè le vecchie edizioni dei libri per fanciulli diventano rapidamente rarissime, più di qualunque prezioso incunabulo, anzi introvabili, per ragioni intuitive. Credo che essa comparisse per la prima volta nel volume L’Arpa della Fanciullezza, componimenti poetici per bambini dai 5 ai 10 anni, raccolti e ordinati da Luigi Sailer, Milano 1865: non ho veduto questa prima edizione, ma nella seconda che è del 1869, la poesiola è ripetuta e dall’indice appare che essa non era di quelle aggiunte nella ristampa. La poesia nelle prime edizioni presenta qualche lieve variante dal testo che oggi comunemente corre per le scuole, p. es. gli ultimi versi così suonano:

               Teresa pentita
               Allenta le dita:
               «Va, torna all’erbetta,
               Gentil farfalletta».

[p. 764 modifica]in luogo della lezione oggi corrente e che non oserei dire migliorata:

               Confusa, pentita
               Teresa arrossì,
               Dischiuse le dita:
               L’insetto fuggì (ovvero E quella fuggì).

Va notato per la cronaca che oltre molte parodie, più o meno riuscite, La Vispa Teresa ha un seguito ossia una coda, composta da Trilussa (Carlo Alberto Salustri) per la celebre artista comica Dina Galli. Fu stampata nel 1917 a Roma in un opuscolo illustrato da V. Finozzi (La Vispa Teresa allungata da Trilussa), con una prefazione del signor E. Corradi che attribuisce la paternità della poesia originale.... al povero Samuele Ghiron, giornalista romano morto alcuni anni fa! Aggiungerò che la «coda» è stata ancora allungata in copie che circolano manoscritte.

2147.   Levato quer viziaccio di rubbare
     San Ranieri è ’n gran santo di ve’ boni.

è il principio del sonetto XII in dialetto pisano di Neri Tanfucio (Renato Fucini), intitolato San Ranieri miraoloso. Bisogna sapere che allo scheletro di questo santo, che si conserva in una cappella del Duomo di Pisa, manca un dito di una mano; e una irriverente tradizione popolare vuole che lo perdesse per un colpo di coltella datogli da un pizzicagnolo mentre il bravo santo stendeva la mano per ghermire una forma di cacio. Questa uscita faceta del Fucini può ritenersi suggerita dal verso di Clement Marot che menzionerò più avanti, al numero 2178.

2148.             Dàghela avanti un passo.

è nel ritornello della famosa canzonetta popolare in dialetto milanese La bella Gigogin, eseguita per la prima volta al Teatro Carcano di Milano l’ultimo giorno dell’anno 1858, la stessa sera che a Genova era provato l’Inno del Mercantini. Il popolo accolse con entusiasmo la canzone, dal ritmo facile e spigliato, nei cui versi gai ma sconclusionati volle intravedere chi sa quale riposto significato; e il Bisogna ave’ pazienza e il Dàghela avanti un passo parvero, all’alba del ’59, monito eloquente. Al mattino del giorno di poi che era il primo gennaio, la banda doveva andare, secondo l’uso, [p. 765 modifica] a dare il saluto di capo d’anno dinanzi al palazzo del Vicerè: e fu seguita da una folla enorme di qualche migliaio di persone le quali, con slancio frenetico, gridavano il ritornello Dàghela avanti un passo. La musica della briosa canzone è di Paolo Giorza (nato a Milano nel 1832), «un singolarissimo tipo di musicista che dopo aver avuto un periodo di celebrità europea come compositore di balli e come direttore teatrale, morì in miseria nella piccola città nordamericana di Seattle nel maggio del 1914» (Caddeo, Inni di guerra e canti patriottici, Milano, 1915, pag. 73). Delle parole s’ignora l’autore, ma si tratta indubbiamente di un mosaico di vecchi canti popolari, non tutti milanesi chè infatti Gigogin non è milanese ma piemontese ed è diminutivo di Teresa.

Della poesia dialettale napoletana molte frasi sono rimaste nell’uso vivo, queste due per esempio:

2149.   Comme fuie e comme non fuie.3

che fa parte del ritornello di una famosa canzonetta napoletana, Ciccuzza, di Luigi Chiurazzi (n. nel 1831), che è anche l’autore dell’altra famosissima canzone Masto Raffaele. Il verso suddetto serve di risposta ad altro pure rimasto popolare

Contala, contala comme fu!

Ma noi non racconteremo altro per rispetto dei lettori e.... delle lettrici.

2150.                  Nannì, si ce penzo
                    Mme vene na cosa.4

così comincia il ritornello di una delle più graziosi canzoni napoletane di Salvatore di Giacomo, intitolata Nannì!!! e musicata da P. Mario Costa per la festa di Piedigrotta del 1886. Tutta la strofa è:

               Nannì, si ce penzo
                    Mme vene na cosa,
                    Sta sciamma annascosa

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                    Cchiù abbampa accussì....
                    È overo stu suonno?...
                    Meh, dimme ca sì!...

Della prosa italiana vive la frase seguente:

2151.   Va’, va’, povero untorello, non sarai tu quello che spianti Milano.

(Manzoni, I Promessi Sposi, cap. XXXIV).

Così salutano i monatti Renzo, che scambiato dal popolo per un untore aveva cercato scampo sul loro carro.

Dal teatro invece potremo citare con minore parsimonia, e comincerò da un famoso verso tragicomico:

2152.   Ma l’aspettate in van: son tutti morti.

A satireggiare la frenesia per le tragedie nello stile greco che invase tutta l’Italia dopo l’acclamata Merope del Maffei, un bell’umore del secolo scorso, il senatore veneziano Zaccaria Valaresso, compose un’amena parodia di quelle lacrimose composizioni col titolo di «Rutzvanscad il Giovine, arcisopratragichissima tragedia elaborata ad uso del buon gusto de’ Grecheggianti Compositori da Catuffio Panchianio Bubulco Arcade;» che fu ristampata un’infinità di volte ed anche rappresentata sulle scene. La scena ultima dell’ultimo atto si chiude con una sfida lanciata da Mamalouc, primo ministro di Rutzvanscad ad Aboulcassem. «Rimasta la scena vuota,» — così annota il libretto, — «quando l’Udienza faccia molto rumore, chiamando fuori gli Attori, e battendo, esca il Suggeritore con la carta in mano e col cerino; poi dica i seguenti versi:

               Uditori, m’accorgo, che aspettate,
               Che nuova della pugna alcun vi porti;
               Ma l’aspettate in van: son tutti morti.»

Si narra che una volta, mentre il suggeritore li andava dicendo, cadde improvvisamente la tela, e accoppandolo rese pur troppo tragica la comica catastrofe.

Lo scioglimento sommario del Rutzvanscad fu imitato da molti, tra gli altri da quell’arguto ingegno di Francesco Gritti nel suo Naufragio della vita nel mediterraneo della morte, dove l’azione [p. 767 modifica] è chiusa con lo sterminio di tutti i personaggi, Nabucco, Cleopatra, Orazio-al-ponte, Frine ed Archimede: e Nabucco spira dopo un monologo di venti versi tutti composti di monosillabi.

In una commediola moderna troviamo una bizzarra frase rimasta in uso ad indicare una pesante mazza:

2153.   Vecchio amico d’infanzia.

ed è nella Medicina di una ragazza malata di P. Ferrari (sc. 8), dove Girolamo va a prendere un grosso e nodoso bastone, dicendo: — «Debbo aver qui un vecchio amico d’infanzia.... un compagno di scuola!...» —

E per analogia si può ricordare il

2154.   Beato asperges del baston.

che faceva parte del sistema educativo degli Austriaci in Italia. È frase contenuta in uno dei sonetti di Carlo Porta: Catolegh, apostolegh e roman (Poesie di C. P. rivedute sugli originali e annotate da un milanese. Milano, 1887; a pag. 613):

               ....n’han miss tucc in stat de perfezion,
          Col degiun, col silenzi, col trann biott
          E col beato asperges del baston.

Il nostro teatro contemporaneo molte altre citazioni potrebbe fornirci, se in generale non si trattasse di frasi che hanno una popolarità transitoria, la quale dura soltanto finchè dura il successo effimero della produzione donde sono tolte. Fra quelle la cui notorietà è o parve più duratura, sarebbero la frase d’intercalare stupido che ebbe qualche fortuna parecchi anni fa:

2155.   Quando c’è la salute, c’è tutto.

dalla commedia Il Professor Papotti di Gandolin (L. A. Vassallo), rappresentata al Teatro Manzoni di Milano il 13 dicembre 1889; e l’intercalare favorito del gentiluomo Vidal nella Serenissima, commedia di Giacinto Gallina:

2156.   Megio de cussì la non potria andar.5

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Anche più popolari, perchè più caratteristiche, sono rimaste moltissime frasi del teatro dialettale milanese, diventato familiare a tutta Italia dopo che Edoardo Ferravilla salì con esso a meritata fama come creatore di tipi che resteranno imperituri. Di Edoardo Ferravilla dirò soltanto che nacque a Milano il 18 ottobre 1846 e vi morì il 25 ottobre 1915; chi voglia sapere qualcosa di più sull’artista e sulle sue inarrivabili creazioni comiche, legga il libro di Cletto Arrighi. Ferravilla: studio critico biografico (Milano, 1888). La più antica di queste frasi è l’

2157.   Anca lu, sur Piccaluga, a Milan?6

Nella famosa commedia-vaudeville El Barchett de Boffalora di Cletto Arrighi (Carlo Righetti) testè ricordato al povero dottor Polidoro Piccaluga, ex-sindaco di Buffalora, capitato per sua disgrazia a Milano, appiccicano per burla dietro le spalle un cartello con quelle parole; egli poi fa le più alte meraviglie perchè tutti lo conoscono, ed è convinto di riportare un vero trionfo nella capitale morale d’Italia.

2158.   Oh che bella festa! oh che bella festa!

ed anche:

2159.   Alagria! alagria!

sono fiori letterari del componimento di Massinelli nella Class di asen, scherzo comico di Edoardo Ferravilla (sc. 9).

2160.   El tegnaroo d’oeucc!7

è l’intercalare del carabiniere Ciappa-ciappa che si strugge dalla voglia di arrestare una buona volta qualcuno, nel vaudeville La statoa del sur Incioda di Ferdinando Fontana; come nella stessa produzione

2161.   Anima tapina.

è l’intercalare del povero sindaco Gioachino Finocchi, «proprietario dell’Albergo Maiale Sant’Antonio.» [p. 769 modifica]

2162.   L’è tanta ciara!8

Così Don Malachia nella citata Class di asen, scherzo comico di Edoardo Ferravilla}} (sc. 9). Queste parole non si trovano nel libretto a stampa; ma il povero Sbodio, che sosteneva di solito quella parte nella primitiva compagnia Ferravilla, le diceva sempre, nel rispondere a Bussola che vuole prevenirlo nelle interrogazioni.

2163.   Adagio nelle voltate.

uscita comica, soprattutto per il sottinteso equivoco, che Edoardo Ferravilla}} nella parte del Signor Pancrazio dice nello scherzo comico da lui stesso composto, La luna de mel del sur Pancrazi (parodia della Luna di miele di Cavallotti) nella scena sesta, lasciando la moglie sola con l’innamorato.

Dal teatro melodrammatico, che dà lavori di fama più consistente e duratura dei lavori drammatici, e che vede più facilmente diventar popolari i suoi versi, poichè intiere generazioni corrono a sentirli e risentirli senza stancarsene, trarremo al solito un maggior numero di citazioni.

I versi

2164.        Bella coppia, il ciel vi guardi,
          Ritiratevi che è tardi....

che sono rimasti anche oggi nella tradizione a Napoli e si ripetono comunemente e napoletanescamente per canzonatura delle brutte coppie, sono due versi del libretto del Girello, dramma musicale burlesco, che fu in gran voga per quasi trent’anni nella seconda metà del seicento, e di cui l’Ademollo ha scritto la storia, provando che autore della poesia, e forse anche della musica, fu Filippo Acciajoli e che il dramma fu rappresentato per la prima volta a Roma nel carnevale del 1668.

2165.        Una volta c’era un re,
          Che a star solo s’annoiò.
          Cerca, cerca, ritrovò,
          Ma il volean sposare in tre.

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Canzone di Cenerentola nell’omonimo melodramma giocoso, scritto da Jac. Ferretti e musicato da Rossini (a. I, sc. 1); le sorelle le impongono silenzio coi versi ugualmente popolari:

2166.   Cenerentola, finiscila
     Con la solita canzone.

E nella scena seguente:

2167.   Resta l’asino di poi?
     Ma quell’asino son io;
     Chi vi guarda vede chiaro
     Che il somaro è il genitor.

Così spiega il suo sogno Don Magnifico. La Cenerentola è forse il capolavoro di Jacopo Ferretti romano, n. nel 1784, m. nel 1852, autore di una quantità straordinaria di prose e poesie d’ogni genere e di più di centottanta melodrammi scritti per il Rossini, il Donizetti, il Coppola, i fratelli Ricci, il Mayr, ed altri maestri. Massimo D’Azeglio lo mette fra gli alti e belli ingegni di quella società sveglia, piena di vita e di movimento che fioriva a Roma nel 1814.

2168.   Eran due ed or son tre.

ovvero Gli Esposti, è il titolo di un’opera comica musicata da L. Ricci su libretto del medesimo Ferretti.

2169.   Udite, udite, o rustici:
     Attenti, non fiatate.
     Io già suppongo e immagino,
     Che al par di me sappiate
     Ch’io sono quel gran medico,
     Dottore enciclopedico,
     Chiamato Dulcamara,
     La cui virtù preclara,
     E i portenti infiniti
     Son noti in tutto il mondo.... e in altri siti.

[p. 771 modifica]

Questo è il principio della famosa cicalata del Dottor Dulcamara nell’opera comica L’Elisir d’Amore, parole di Felice Romani, musica di Donizetti (a. I, sc. 5). È in special modo popolare l’ultimo verso (imitato dal francese, vedi più avanti al num. 2189); ma sono anche popolarissimi i due versi che si trovano ripetuti poco più oltre:

2170.   Comprate il mio specifico,
Per poco io ve lo do.

2171.   Lo spagnuolo non beve.

sono parole di Gennaro nel melodramma pure del Romani, Lucrezia Borgia, e anche musicato da Donizetti (a. II, sc. 5). Lo spagnuolo che non beve è Gubetta, scherano della Duchessa, il quale ha vuotato di nascosto in terra il bicchiere ove era mesciuto il veleno dei Borgia.

In queste ultime pagine del mio repertorio devono trovar luogo brevissimi cenni di un autore che è fra i più frequentemente citati, cioè Felice Romani. Nacque egli in Genova nel 1788, morì a Moneglia nel 1865; si dette prima all’insegnamento, poi alla poesia, e nel 1814 fu nominato poeta dei regi teatri del regno italico, e da quel tempo si dedicò completamente alla poesia melodrammatica, che sollevò dallo scadimento in cui giaceva, e che riformò adattandola ai mutati gusti del pubblico e ai nuovi bisogni della moderna musica. Scrisse un grandissimo numero di libretti per il Mayr, il Bellini, il Rossini, Donizetti, Mercadante, bellissimi fra tutti quelli della Straniera e della Sonnambula, ambedue per Bellini. L’ultimo specialmente è un idillio di così squisita fattura che sarà sempre tenuto come uno dei più perfetti lavori onde si è arricchito il repertorio del teatro italiano.

2172.                  ....Ultimo avanzo
D’una stirpe infelice.

È Edgardo che così parla di sè nella tragedia lirica Lucia di Lammermoor (a. III. sc. 7), parole di Salv. Cammarano, musica di Donizetti. Ma quante volte non l’abbiamo sentito dire a qualche guitto che spendeva l’ultima vedova moneta, che fosse rimasta nelle sue saccoccie! [p. 772 modifica]

2173.   E sei tu che macchiavi quell’anima,
     La delizia dell’anima mia....
     Che m’affidi e d’un tratto esecrabile
     L’universo avveleni per me!
Traditor! che in tal guisa rimuneri
     Dell’amico tuo primo la fè!

(Un ballo in maschera, parole di A. Somma,
musica di G. Verdi, a. III, sc. 1).

L’autore di questi bei versi intese di scriverli sul serio: ma nessuno si adatta a ripeterli se non per burla.... ovvero quando l’abbondanza del vino bevuto si espande in sfoghi canori. Si avverta che il popolo canta comunemente: Eri tu che macchiavi ecc. Della storia di questo famoso libretto dirò più oltre (al n. 2217).

2174.        Caro, non posso movermi
          Sto troppo ben così.

e anche:

2175.   Con quel bocchin di zucchero
     Col mesto sospirar....
     Ah!... il ciel l’ha fatta nascere
     Perchè la debba amar.

sono versi, familiarissimi ai nostri nonni e si trovano in Una mascherata di pagliacci, scherzo comico in un atto di Andrea Codebò, scherzo a’ suoi tempi (1861) popolarissimo.

Qui sarebbe il luogo d’inserire qualcuno di quei notissimi intercalari volgari, insipidi sempre, spesso addirittura cretini, talora anche equivoci e scurrili, che nascono chi sa come, sono ripetuti dal popolo con una insistenza stucchevole (non per nulla i francesi li chiamano scies), muoiono dimenticati: ma non li registro sia perchè la loro vita in generale è vita di un giorno, sia perchè quasi mai si conosce il loro autore che è il popolo innominato, quello stesso che ha foggiato i proverbi, ugualmente sbanditi da questa raccolta, come si è detto a pag. 10. Ho fatto nella II parte qualche eccezione per poche frasi nate durante e in occasione della [p. 773 modifica] guerra; e ne faccio qui un’altra per una frase che ebbe vita meno effimera poichè ancora sopravvive e di cui, se non proprio l’autore, almeno si conosce la storia, interessante perchè su per giù è quella di tutte le altre frasi simili e che fu narrata in un vivace articolo di Enrico Tarlarini nella Gazzetta dello Sport, di Milano, del 22 maggio 1914:

2176.   Molla Buni!

Il rag. Romolo Buni, milanese, ciclista popolarissimo correva il 21 giugno 1893 nell’Arena di Milano un match col formidabile corridore francese Medinger. La folla s’interessava moltissimo alla sfida, nella quale era in giuoco anche l’amor proprio nazionale, e quando parve che il francese stasse per oltrepassare il suo beniamino, «per un attimo, un attimo solo, la folla tacque, in un’angoscia senza nome ma che è conosciuta da quanti hanno frequentato un campo sportivo. Poi nel silenzio altissimo, una voce che non si seppe mai di chi fosse, uscì in urlo nuovo, in un incoraggiamento strano: Molla Buni! Molla Buni!

«Quel grido, come una striscia di polvere accesa, si propagò in un baleno. Molla Buni! saettò la folla e Buni che capì, rispose all’attacco del francese e aumentò ancora l’andatura. Medinger, sfinito, perse una lunghezza, poi due, poi dieci e vinto si ritirò, abbandonando la corsa. Molla Buni! Molla Buni! continuò a gridare la turba e Buni continuò a girare velocissimo, poi finì la gara coprendo i 5 chilometri in 7’ 32" che era un record, poi fu portato in trionfo, sollevato sulle spalle, abbracciato, baciato dalla folla in un tripudio di cui non s’era mai visto l’eguale. Alla sera, tutta Milano gridava Molla Buni!...

«Da allora, quell’esclamazione fu di dominio pubblico, entrò nelle abitudini di tutti, del popolo e della borghesia, dei giovani e dei vecchi; fu una frenesia di Molla Buni! che si sentiva ripetere ad ogni angolo di via, in ogni crocchio, a teatro, a scuola, di giorno, di notte. Fu un’ossessione, un incubo che non lasciava mai pace: Molla Buni! si gridava al passaggio di un velocipedista, a una carrozza che transitava, al facchino che trascinava un carretto; Molla Buni! alla pentola che bolliva, alla sartina che batteva i tacchi sul marciapiedi, alla stufa che s’accendeva. Molla Buni! si disse a proposito e a sproposito quando [p. 774 modifica]bisognava compiere uno sforzo e quando invece ci si metteva a sedere; Molla Buni! si gridava alle guardie quando inseguivano un ladruncolo, quando le lavandaie caricavano sui loro carri i sacchi di biancheria. Fu un intercalare e una imprecazione, una frase sublime e sciocca, che esaltava e infastidiva, ma che bisognava ripetere ad ogni istante come per uno sfogo, come per una liberazione.

«Una canzonetta Molla Buni! apparve agli angoli delle strade accompagnata dal suono di un organetto e un’altra sul palcoscenico dell’Eden; a Molla Buni! fu dedicato un bazar e un giornale umoristico. Dinanzi al Molla Buni! scomparvero il Taja Barzagh, Sterza biscella!, lo Schiva l’Oliva e Lü el po’ andà, che per lungo tempo erano stati i motti cari al popolino ambrosiano prima dell’avvento del Ma de bon però!» ― ora tutti dimenticati e sostituiti da altri, pur essi caduti. L’ultimo cui Milano dette vita e rinomanza (e per un complesso di ragioni questi intercalari milanesi perdono il carattere locale e presto si diffondono in tutta Italia) sorse durante la guerra ed è il notissimo El va el biroeucc.

La letteratura francese mi presenta invece un verso famoso, poche altre citazioni in prosa e in poesia, due epigrammi, e poche citazioni del teatro. Il verso è questo:

2177.   Qui nous délivrera des Grecs et des Romains?9

ed è un’apostrofe tragi-comica di Jean-Marie Clément (1742-1812) in una delle sue Épitres, di cui Joseph Berchoux fece il primo verso della sua unica Elegia, mutando il nous in me e facendolo seguire dall’altro non meno noto:

Race d’Agamémnon, qui ne finit jamais!...

È stato detto che Giacomo Offenbach, quando fu per cinque anni direttore d’orchestra al Théatre Français si annoiò così atrocemente per la interminabile e soporifica processione di eroi dell’antichità alla quale fu obbligato ad assistere, che giurò di vendicarsi: e se ne vendicò con la Belle Hélène, suo capolavoro, con l’Orphée aux Enfers.... [p. 775 modifica]

2178.   Au demeurant le meilleur fils du monde.10

Così Clément Marot (1495-1544), nella Épitre au roi François Ier pour avoir été dérobé (v. 12), parlando del suo servo, un valet de Gascogne, che dipinge come un vero avanzo di galera e che lo aveva derubato.

2179.   Voilà bien du bruit pour une omelette!11

Si narra, non so con quanta verità, che Jacques Vallée sieur Des Barreaux (1602-1673), consigliere al Parlamento parigino, e più noto come libertino e incredulo incorreggibile, che come poeta, avendo dato in un venerdì santo convegno ad alcuni suoi compagni di dissolutezze in un’osteria di St.-Cloud, ordinò una frittata col prosciutto. Mentre si mettevano a tavola per mangiarla, scoppia un violento uragano, i tuoni incessanti fanno tremare la casa: Des Barreaux si alza, apre la finestra, e getta fuori la frittata, esclamando: Voilà bien du bruit là-haut pour une omelette! (Tallemant des Reaux, Historiettes, ed. 1840, to. IX, pag. 137).

2180.   ....Ce n’est rien.
     C’est une femme, qui se noie.12

(La Fontaine, Fables, lib. III, fabl. XVI;
La femme noyée, v. 1-2).

2181.   Allons, saute, marquis.13

ritornello di un monologo recitato da un avventuriero, sedicente marchese, nella commedia Le Joueur (a. IV. sc. 7) di Jean-François Regnard (1655-1709).

2182.   Piglialo su, signor Monsù.

Nel Monsieur di Pourceaugnac, di Molière, il primo atto finisce (sc. 16) con quella esilarante scena che i francesi chiamarono Cérémonie. Un consiglio di medici, dopo aver dichiarato che [p. 776 modifica] il signore di Pourceaugnac è ammalato, gli ordina un rimedio, dando incarico agli speziali di somministrarlo. E questi sfoderano senz’altro i relativi strumenti.... idraulici, mentre il malcapitato limosino cerca di respingere coi più disperati sforzi gli aggressori. La tela cade mentre il coro risponde alle proteste di Pourceaugnac coi seguenti versi, scritti nel testo di Molière così, in lingua italiana, e che sono divenuti quasi proverbiali in Francia:

          Piglialo su,
          Signor monsù,
          Piglialo, piglialo, piglialo su,
          Che non ti farà male;
          Piglialo su questo serviziale,
          Piglialo su,
          Signor monsù,
          Piglialo, piglialo, piglialo su!

E come mai questi versi sono in italiano? È probabile che così li abbia scritti con gli altri couplets dello stesso atto pure italiani, Giovanni Lulli, che ne compose anche la musica, e nella prima rappresentazione del Signor di Pourceaugnac cantò innanzi al re nella parte di uno dei medici. Le stesse parole sono state conservate nell’opera buffa omonima, di Ferdinando Fontana, musica del bar. Alberto Franchetti, rappresentata per la prima volta alla Scala di Milano, il 10 aprile 1897.

Anche in un’altra produzione di Molière, Le malade imaginaire, nel III Intermezzo che rappresenta in parodia la cerimonia dell’ammissione di un nuovo medico, abbiamo in latino maccheronico un coro burlesco che a tutte le buffonesche risposte del nuovo dottore, esclama: Bene, bene, bene, bene respondere

2183.   Dignus, dignus est entrare
     In nostro docto corpore.14

2184.   À quelle sauce voulez-vous être mangés?15

Calonne, ministro delle Finanze di Luigi XVI, indusse questo re nel 1787 a convocare i Notabili; ma sosteneva che soltanto al re [p. 777 modifica] spettasse il diritto di ordinare le imposte, e che l’assemblea non dovesse pronunciarsi che sul modo di esigerle. Comparve allora contro di lui una caricatura, che rappresentava un contadino, il quale, riuniti intorno a sè nel cortile galli, galline, tacchini e piccioni, diceva loro: «Miei buoni amici, io vi ho radunati qui tutti per domandarvi in quale salsa desiderate che vi mangi.» Un gallo, alzando la testa, rispondeva: «Ma noi non vogliamo affatto essere mangiati!» — «Ecco, voi divagate dalla questione, — ribatte il contadino, — non si tratta di sapere se a voi fa piacere o no di essere mangiati, ma soltanto à quelle sauce vous voulez être mangés

2185.   Enfin nous avons fait faillite!16

réclame celebre di un originale francese, per metà uomo di lettere, per metà industriale, certo Dunan-Mousseux, famoso per le novità stravaganti con le quali sapeva attirare l’attenzione del pubblico sui suoi manifesti. L’Enfin nous avons fait faillite! è considerato come il capolavoro del genere. I due epigrammi sono i seguenti:

2186.   De par le roy, défense à Dieu
De faire un miracle en ce lieu.17

scritto da un bello spirito sulle mura del cimitero di S. Medardo, chiuso nel 1732 per ordine di Luigi XV dopo i disordini dei convulsionari che accorrevano alla tomba del diacono Paris.

2187.   Ci-gît Piron, qui ne fut rien,
Pas même académicien.18

composto da Alexis Piron per sè medesimo, riducendo in due versi soli, pour le soulagement des mémoires, et pour le mieux, altro epitaffio pure da lui composto, dove lo stesso concetto era stemperato in 10 versi. [p. 778 modifica]

2188.   Assommer un garde-champêtre, ce n’est pas assommer un homme!... C’est écraser un principe!19

(Sardou, Rabagas, a. II, sc. 4).

2189.   Connu dans l’univers et dans mille autres lieux.20

(Scribe, Le Philtre, musica di Auber, a. I, sc. 5).

Ho già detto che questa operetta è l’originale da cui il Romani trasse il libretto dell’Elixir d’Amore: e poco indietro, al n. 2169, si è trovata nell’ultimo verso l’imitazione del verso presente.

2190.   Quelques seigneurs sans importance.21

nella graziosa operetta di Offenbach, Les Brigands, parole di Meilhac e Halévy, Gloria-Cassis presenta al capobrigante Falsacappa il suo seguito, e dopo aver nominato sè medesimo e alcuni dei suoi, riunisce gli altri nella comica frase: quelques seigneurs sans importance (a. II, sc. 10).

2191.   Embrassons-nous, Folleville!22

titolo di un vaudeville in un atto di Labiche e Lefranc, rappresentato per la prima volta al teatro della Montausier (Palais-Royal), il 6 marzo 1850.

2192.   Well roared, lion!23

è nel Sogno d’una notte di estate (A Midsummer Night’s Dream) di Guglielmo Shakespeare (a. V, sc. 1) e si dice ironicamente ad un ciarlatore spaccone.

Note

  1. 2129.   Com’era in principio.
  2. 2130.   Disse un dei ladri all’altro ladro.
  3. 2149.   Come fu e come non fu.
  4. 2150.   Nannina, se ci penso, mi viene una cosa.
  5. 2156.   Meglio di così non potrebbe andare.
  6. 2157.   Anche lei, signor Piccaluga, a Milano?
  7. 2160.   Lo terrò d’occhio.
  8. 2162.   È così chiara!
  9. 2177.   Chi ci libererà dei Greci e dei Romani?
  10. 2178.   In fondo il miglior ragazzo del mondo.
  11. 2179.   Quanto rumore per una frittata!
  12. 2180.   Non è nulla, c’è una donna che si affoga.
  13. 2181.   Andiamo, salta, marchese.
  14. 2183.   È degno, è degno di entrare nel nostro dotto collegio.
  15. 2184.   In quale salsa volete esser mangiati?
  16. 2185.   Finalmente siamo falliti!
  17. 2186.   In nome del Re, si proibisce a Domeneddio di fare miracoli in questo luogo.
  18. 2187.   Qui giace Piron che non fu nulla, neanche accademico.
  19. 2188.   Accoppare una guardia campestre, non è accoppare un uomo, è schiacciare un principio!
  20. 2189.   Noto in tutto l’universo e in molti altri luoghi.
  21. 2190.   Alcuni signori senza importanza.
  22. 2191.   Abbracciamoci, Folleville!
  23. 2192.   Hai ruggito bene, o leone.