Chi l'ha detto?/Parte terza/83

Parte terza - § 83. Apostrofi, invocazioni, imprecazioni

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§ 83.

Apostrofi, invocazioni, imprecazioni



Un’altra serie abbastanza ricca è quella che comprende le frasi di carattere personale, apostrofi, invocazioni, imprecazioni, interrogazioni, ecc. Non poche ne troviamo nella Bibbia, come l’

2063.   Ite ad Joseph.1

(Genesi, cap. XLI, v. 55).

che fu la risposta del Faraone al popolo di Egitto affamato.

2064.   Vade Satana.2

o anche Vade retro Satana, come più comunemente si dice, che è tolto dal racconto della tentazione di Cristo nel deserto (Evang. di S. Matteo, cap. IV, v. 10).

2065.   Surge et ambula.3

(Evang. di S. Matteo, cap. IX, v. 5;
S. Luca, cap. V, v. 23).

disse Gesù al paralitico.

2066.   Nescio vos.4

in diversi luoghi dei Vangeli, S. Luca, cap. XIII, v. 25 e 27; e anche S. Matteo, cap. XXV, v. 12.

2067.   Compelle intrare.5

(Evang. di S. Luca, cap. XIV, v. 23).

2068.   Pater, peccavi in cœlum et coram te.

(Evang. di S. Luca, cap. XV, v. 18).
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2069.   Crucifige, crucifige eum.6

(Evang. di S. Luca, cap. XXIII, v. 21;-
Evang. di S. Giovanni, cap. XIX, v. 6).

2070.   Sit anathema.7

Nella Prima lettera di S. Paolo ai Corinzi (cap. XVI, v. 22) si legge: «Si quis non amat Dominum nostrum Jesum Christum, sit anathema, Maran-Atha,» le quali ultime parole, secondo la più comune opinione, sono siriache, e significano: Il Signore viene, cioè a punire l’ostinazione degli increduli. Ma la parola anathema nel suo antico significato presso i Greci (ἀνάθημα) voleva dire un’offerta votiva, qualcosa votata o messa da parte per gli dei: e nella sua applicazione specifica nel Nuovo Testamento, significa, messa da parte per lo Spirito Maligno cioè maledetta, scomunicata: tale peculiare significato nell’uso ecclesiastico sembra abbia avuto origine in Palestina già nei tempi precristiani. La questione è, largamente trattata nella Jewish Encyclopaedia, vol. I (1901). Pag 559 e segg. Quanto alla formula Anathema sit, essa è rimasta celebre per i Canoni del Concilio di Trento (1545-1563) redatti tutti nella forma del già citato versetto biblico, per es.: «Si quis dixerit, non licere sacerdoti celebranti se ipsum communicare: anathema sit

2071.   Saule, Saule, qui me persequeris?8

(Atti degli Apost., cap. IX, v. 4).

Sono le parole del Signore a Saulo, persecutore dei Cristiani, che miracolosamente convertito, col nome di Paolo divenne uno dei più ferventi apostoli della nuova fede; e poichè ciò accadde a Saulo, cum appropinquaret Damasco, è rimasto pure proverbiale di dire di alcuno il quale si è convertito improvvisamente, che ha trovato o che ha battuto la via di Damasco.

Una sola frase mi accade di trovare greci:

2072.   Θάλαττα, θάλαττα!9

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che è il festoso grido levato dai diecimila greci di Senofonte quando nella loro meravigliosa ritirata giunsero a vedere le rive del Ponto Eussino (Senofonte, Anabasi, lib. IV, cap. 7, § 24).

Alcune ce ne dà la latina letteratura, quali la famosa invettiva che apre la prima Catilinaria di Cicerone:

2073.   Quousque tandem, Catilina, abutere patientia nostra?10

di cui si citano talora le due prime parole soltanto; le ultime parole dette da Cesare riconoscendo Bruto fra i suoi assassini:

2074.   Tu quoque Brute fili mi?11

che Svetonio (Vita di G. Cesare, § 82) cita in greco: Καὶ σύ, τέκνον; e la frase comunissima:

2075.   Ci rivedremo a Filippi.

sotto la qual forma suolsi ripetere un detto di cui l’origine è così narrata da Plutarco nella Vita di Giulio Cesare, § 69. Cito la versione italiana dell’Adriani: «Bruto era in atto di far passar l’esercito da Abido alla riva opposta, e posava, secondo il suo costume, di notte, sotto al padiglione, non dormendo, ma all’avvenire pensando: perchè se fu mai capitano che poco dormisse, egli fu desso, e per sua natura dimorava vigilante il più del tempo: parveli sentire grande strepito alla porta, e guardando al lume della lucerna vicina a spegnersi, vide terribile imagine d’uomo strano, grande e d’orribile aspetto. Di che spaventato in principio, come vide poi non far male, nè parlare, ma tacito starsi appresso al letto, domandò chi fusse. Costui rispose: Sono, o Bruto, il tuo mal genio, e mi rivedrai appresso Filippi.» [Il testo greco dice: Ὁ σός, ὦ Βροῦτε, δαίμων κακός· ὄψει δέ με περὶ Φιλίππους]. «Replicando Bruto arditamente: Ben ti rivedrò; incontanente disparve. Trovandosi poi Bruto a fronte schierato contro Antonio e Cesare nella pianura di Filippi, rimase vittorioso nella prima battaglia con mettere in fuga e cacciare i nimici, e predare gli [p. 741 modifica] alloggiamenti del giovane Cesare. Ma essendo poi ad altro tempo presto ad appiccare la seconda zuffa, la notte avanti gli apparve il medesimo genio senza far parola. Onde compreso l’ora destinata esser venuta, si gittò impetuosamente ad ogni rischio della battaglia: non cadde già nel combattere, ma con la sua gente fuggendo in rotta, venne ad un luogo scosceso ed alto, ove, appoggiato il petto alla spada nudo, con l’aiuto d’un amico, il quale, come si racconta, lo sospinse sopra la punta, terminò i giorni suoi.»

2076.   Surge carnifex.12

Di C. Cilnio Mecenate narrano gli storici che fosse di animo mite, e che raccomandasse ad Augusto, che aveva appoggiato nelle sue aspirazioni all’impero e che molto lo amava, di starsene lontano dalla crudeltà e dal sangue (cfr. Seneca, Epist., 114, 8). Questo rende verosimile l’aneddoto di lui conservatoci da Dione Cassio (Hist, rom., lib. LV. cap. 7) e dallo storico bizantino Giorgio Cedreno (Comp, histor., sub regno Cæsaris). Riproduco il racconto con le parole di quest’ultimo nella versione latina di Guill. Xylander (fra gli Script. hist. byzant., ediz. di Parigi, 1647, pag. 171): «Charus ei [Augusto] fuit Mœcenas vir sapiens: qui et primus rationem per notas scribendi reperit. Is cum quodam die Cæsar jus diceret, multosque capite damnaret, nequo ipse ad eum praæ turba hominum accedere posset, in scheda scripsit. Surge carnifex: eamque signatam in gremium eius coniecit. Ea lecta. Cæsar surrexit, iussitque sententiarum lataruni a se executionem differri.»

Alle precedenti frasi, di origine istorica, si possono aggiungere le seguenti puramente letterarie, diu- di Virgilio:

2077.   O terque quaterque beati!13

(Eneide, lib. I. v. 94).

2078.   .... Di, talem terris avertite pestem!14

(Eneide, lib. III, 620).
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e due di Orazio:

2079.                       Mutato nomine de te
          Fabula narratur.15

(Satire, lib. I, sat. 1, v. 69-70).

2080.   Spectatum admissi risum teneatis amici?16

(Arte poetica, v. 5).

dopo la quale è ovvio di citare quest’altra, di Giovenale:

2081.   Difficile est satiram non scribere.17

(Satira I, v. 30).

2082.   Cujus vulturis hoc erit cadaver?18

(Marziale, Epigr., lib. VI, ep. 62, v. 4).

che dicesi di chi faccia o debba a breve mora fare meritatamente pessima fine.

2083.             Abi hinc in malam crucem!19

(Plauto, Mostellaria, a. III, sc. 2, v. 850).

2084.   Salutem et apostolicam benedictionem.20

è la formula di salutazione con la quale i Pontefici sogliono chiudere le loro bolle. Sembra che il primo che l’usasse comunemente fosse papa Costantino che sedè sulla cattedra di S. Pietro dal 708 al 715. Invece, secondo il Ducange (Gloss. med. et inf. latinit., to. VII, pag. 294) la formola è stata dapprima usata da Gregorio VII (1073-1085), non da Cleto come una volta si diceva; e dalla fine del secolo XI in avanti, divenuta d’uso corrente, ma soltanto nelle brevi epistole e nei rescritti. [p. 743 modifica]

Venendo agli autori italiani, ecco da prima tre frasi dantesche:

2085.   O animal grazioso e benigno.

(Dante, Inferno, c. V, v. 88).

2086.   Benedetta colei che in te s’incinse!

(Inf., c. VIII, v. 45).

2087.   Io non so chi tu se’, nè per che modo
     Venuto se’ quaggiù.

(Inf., c. XXXIII, v. 10-11).

quindi una frase nota nella storia dell’arte italiana:

2088.   Piglia del legno e fanne uno tu.

che si usa tuttodì in Toscana per rispondere a chi biasima una cosa che a noi paia che non possa farsi meglio. Racconta il Vasari nelle Vite de’ pittori, e precisamente in quella di Donatello (Donato di Betto di Bardo) scultore fiorentino, che avendo egli fatto un crocifisso di legno nella chiesa di S. Croce, e avendolo mostrato al suo amicissimo Filippo Brunelleschi, questi «che per le parole di Donato aspettava di veder molto miglior cosa, come lo vide, sorrise alquanto.» Donatello insiste perchè gliene dica il parer suo, e il Brunellesco gli risponde che gli pareva che avesse messo in croce un contadino, e non un corpo simile a Gesù Cristo. Donatello punto dal giudizio di Brunellesco ribatte: «Se così facile fusse fare, come giudicare, il mio Cristo ti parrebbe Cristo, e non un contadino; però piglia del legno, e prova a farne uno ancor tu.» È noto il seguito dell’aneddoto: Brunellesco pone davvero mano a fare un crocifisso, e lo conduce a somma perfezione senza farne motto a Donatello, cui lo mostra improvvisamente. Donato, tutto pieno di stupore e di ammirazione, si confessa vinto e dice: «A te è conceduto fare i Cristi e a me i contadini.»

Le biografie di un grande poeta del secolo XVI, ci ricordano quest’altra apostrofe canzonatoria:

2089.   Dove avete mai trovate tante fanfaluche?

Narra il Baruffaldi (Vita di M. Lodovico Ariosto, p. 174) che poco dopo che la stampa dell’Orlando furioso fu compiuta, il [p. 744 modifica] cardinale Ippolito d’Este fe’ ritorno in Ferrara il 7 luglio 1516, e che subito come a suo grande protettore l’Ariosto si recò a visitarlo: «allora fu, che per quanto ne corre fama si lasciò (il Cardinale) sfuggire di bocca quella veramente discortese espressione: Messer Lodovico, dove avete mai trovate tante fanfaluche?» Il Cardinale era per proprio genio poco inclinato alle cose letterarie, e perciò poco gli caleva del poema, benchè a lui dedicato, tanto più ch’egli aveva già lasciato intendere all’Ariosto, fin da quando questi lavorava intorno all’Orlando, che sarebbegli stato assai più caro che avesse atteso a servirlo, come scrisse il figlio Virginio Ariosto nelle Memorie, e lo confermò lo stesso Poeta nella Satira prima:

     S’io l’ho con laude ne’ miei versi messo,
          Dice, ch’io l’ho fatto a piacere, e in ozio:
          Più grato fora essergli stato appresso.

Pochi mesi dopo Messer Lodovico cadde affatto in disgrazia del Cardinale: e questa fu la mercede delle sue fatiche.

2090.   Penso e ripenso e nel pensar impazzo;
Levati di costì, testa di ....

Chi avrebbe mai immaginato che questi due versi, sguaiati anzi che no, e poco poetici per giunta, siano stati attribuiti nientemeno che a Torquato Tasso?!

Eppure Girolamo Bardi, medico ligure del secolo XVII, assai celebrato nell’Ateneo di Pisa, dove leggeva medicina contemporaneamente ad altro ligure, Giulio Guastavano, narra che avendo questi al suo arrivo in Ferrara trovato il Tasso sopra di un’alta torre che stava speculando l’immensità del creato, dopo avere scambiati e complimenti singolarissimi ed accoglienza assai lusinghiera, avrebbe il Guastavino interrogato quel sommo sopra quale soggetto si stesse allora meditando, e che quegli gli avrebbe reso per risposta i due famigerati versi (Pescetto, Biografia medica ligure, vol. I, pag. 184, n. 1). S’intende ch’io la dico come l’ho letta, senza metterci nè sal nè olio.

2091.   Fermatevi se potete.

È comune tradizione in Italia che così dicesse S. Filippo Neri ai ragazzi, dei quali amava circondarsi e tollerava con grande [p. 745 modifica] pazienza i giuochi rumorosi. I biografi del Santo non registrano questa frase, ma tutto il popolo d’Italia e specialmente quello di Roma, in cui è sì viva la memoria del Santo fondatore dell’Oratorio, la danno come vera; e tale ce la fanno credere molte altre cose che leggiamo di lui, e che sono altrettante riprove del gran cuore di Filippo pei giovani. Per esempio sappiamo d’un gentiluomo romano che, andando spesso dal Santo, si stupiva di vedere attorno alla camera di lui una turba di giovanetti che facevano un rumore intollerabile; e però gli chiese, come potesse sopportarlo. E Filippo con gran dolcezza gli rispose: «Purchè non facciano peccati, volentierissimo sopporterei che mi spaccassero le legna addosso» (Capecelatro, Vita di S. Filippo Neri, lib. II, cap. VIII). Le parole di S. Filippo si ripetono oggi quasi a scusare la irrequietezza dei ragazzi, che neppure un santo era riuscito a tener fermi: ma certamente il Santo, se le disse, non le disse in questo significato. Veramente anche oggi, presso i Romani in particular modo, il ricordo di Filippo è vivo come d’uomo santo sì ma allegro, piacevole, festoso; e molti de’ suoi motti, più o meno alterati, si ripetono di frequente, come si ripetono le parole ch’egli soleva dire a’ suoi discepoli:

2092.   Figliuoli, state allegri.

«Voglio che non facciate peccati, ma che stiate allegri.» A Francesco Zazzera suo discepolo, che attendeva allo studio delle leggi con desiderio troppo vivo di onori e di lucri, un giorno accarezzandolo dice: «Oh beato te! Tu studi adesso: poi fatto dottore, comincerai a guadagnar bene, menerai avanti la tua casa, sarai avvocato, e potresti un giorno entrare in prelatura.» E seguitò a parlare di non so quante altre grandezze ripetendo di continuo: «Beato te! beato te! mentre Francesco stava ad ascoltarlo un po’ stupito, si volge d’improvviso a lui, e gli dice nell’orecchio:

2093.   E poi?

con tanto impeto di carità, che lo Zazzera meditando sulla vanità delle cose umane, lasciò il mondo e si fece padre dell’Oratorio. Queste stesse parole E poi? ricorrevano spesso sulla bocca di Filippo: e la pia regina delle Due Sicilie, Maria Cristina di [p. 746 modifica] Savoia, venerata come santa dopo la sua immatura morte (1836), ne fece soggetto di certi versi devoti, pur troppo non altrettanto belli, da lei scritti in un libretto ascetico che spesso aveva per le mani:

     Benchè io sia sana, ricca e bella — e poi?
     E che io possegga argento ed oro — e poi?
     E che io comandi molti servi — e poi?
     E d’ingegno e saper sia sola — e poi?
     E di fortuna in alto posta — e poi?
     E che mille anni il mondo goda — e poi?
     Presto si muore, e nulla resta — e poi?
     Servi a Dio solo, e tutto avrai dappoi.

Ma assai più singolare parrà a noi, non santi, il bizzarro complimento, di sapore veramente romanesco, che Filippo soleva fare alle persone che più amava: «Possa tu essere ammazzato.... per la fede di Gesù Cristo!» E lo disse una volta anche a papa Gregorio XIV (Capecelatro, op. cit., lib. II, cap. XII).

2094.   Ora e sempre.

fu il motto della Giovine Italia, società segreta politica fondata da Giuseppe Mazzini sul principio del 1832, come la pianta simbolica ne era il cipresso, dal verde perenne. Lo si trova anche nella formula del giuramento da prestarsi dagli inscritti in quella società: vedi gli Scritti editi e inediti di Giuseppe Mazzini (Ediz. nazionale), vol. II (Politica, vol. I), pag. 54. Ma il miglior commento a questa frase è nelle nobili e commosse parole che il Mazzini stesso scriveva alla madre da Londra il 14 giugno 1838 (ediz. citata, vol. XV: Epistolario, vol. VII, pag. 25): «In un altro genere d’affetto, ho dato il cuore alla mia povera e buona Giuditta [Sidoli] e non ho mai sognato di ritoglierlo: il mio motto così nella vita individuale come nella politica è l’‘ora e sempre’. Quando ho dato, ho dato: quando ho detto: amo, è per sempre: riamato o solo.»

Il famoso:

2095.   Pentiti, don Giovanni!

è l’ammonizione che la Statua del Commendatore fa al dissoluto don Giovanni Tenorio. In questa forma precisa si trova nel [p. 747 modifica] Convitato di Pietra, opera reggia ed esemplare di Giac. Andr. Cicognini, produzione popolarissima nei secoli XVII e XVIII, il più diffuso fra i drammi italiani ispirati alla leggenda spagnuola di don Giovanni, e di cui si hanno moltissime edizioni, in gran parte anonime, nei due secoli suindicati. È nell’atto III, sc. 8, che la Statua per più volte dice a don Giovanni: Pentiti, don Giovanni.

Al teatro italiano appartengono pure le frasi seguenti, di autori, di tempi e di carattere assolutamente diversi, cioè:

2096.             Siam traditi, o regina.

che sono le parole di Osmida a Didone nella Didone abbandonata del Metastasio (a. I, sc. 16), e alle quali il popolo, che le cita spesso e volentieri, ha trovato delle varie lezioni non autorizzate, come: Siamo fritti, o regina, e anche peggio; le parole di Didone a Jarba nel dramma medesimo (a. I, sc. 5):

2097.             Siedi e favella.

e le parole di Jarba nella medesima scena:

2098.   Lascia pria ch’io favelli e poi rispondi.

la maledizione di Virginio ad Appio nella tragedia Virginia di Vittorio Alfieri (a. V, sc. 4):

2099.                       .... Agli infernali Dei
Con questo sangue il capo tuo consacro.

e la sdolcinata frase:

2100.   Se indovini chi sono ti do un bacio!

ch’è lo scherzo di quasi ogni giorno che Uberto fa alla moglie Adele nel dramma di Paolo Ferrari, Il Suicidio. Nell’ultima scena egli la ripete per guarire con una violenta emozione la demenza di lei.

Anteriori di tempo al Ferrari, - che molte volte ho ricordato in queste pagine e di cui dirò qui, che fu insigne scrittore drammatico dei nostri tempi, nato a Modena nel 1822, e morto a [p. 748 modifica] Milano nel 1889, - sono Giuseppe Giusti, del quale potremo ricordare i versi:

2101.                       Eroi, eroi,
                         Che fate voi?

che sono il principio della saporitissima satira Il poeta e gli eroi da poltrona, scrìtta il 1844; e Giovanni Prati, di cui citerò questi altri:

2102.             Va, sciagurato, mi metti orrore;
               Sei delatore!

(Canti per il popolo - Il delatore).

e il tritissimo:

2103.   Rosmunda, bevi! (ovvero Bevi, Rosmunda).

che è preso dalla popolarissima ballata: Una cena d’Alboino re, ov’è più volte ripetuto.

E poichè ho citato qualche invettiva, ricordiamone un’altra celebre negli annali parlamentari italiani, il

2104.   Vergognatevi!

di Luigi Miceli. Il compianto deputato di Cosenza la disse in piena Camera dei Deputati nella seduta del 1° febbraio 1887 dopo che il Presidente del Consiglio Depretis comunicò il telegramma Genè, da Massaua, che recava le prime notizie dei luttuosi combattimenti di Saati e di Dogali. Altri sentì Svergognati! Robilant, che era ministro degli Esteri, mostrò il pugno all’Opposizione. Le grida, gli urli, le ingiurie furono incredibili. Se il presidente Biancheri non avesse sospesa la seduta, quel giorno alla Camera i deputati sarebbero venuti alle mani. L’apostrofe del Miceli manca nel resoconto stenografico della seduta.

Del resto la vivacità del linguaggio dell’onor. Miceli era notoria: ed è pure sua un’altra frase passata in proverbio, i

2105.   Becchini della Monarchia.

con le quali parole egli apostrofò in Parlamento i ministri, nella seduta dell’8 maggio 1873, in fine di un discorso pronunciato per [p. 749 modifica] combattere il progetto di legge per la soppressione delle corporazioni monastiche della provincia di Roma e la politica del ministero in genere: «Badate, egli disse, che se l’Italia non perisce, perchè i popoli sono immobili, vi sono istituzioni, che, ove loro manchi l’appoggio dei popoli, si dileguano per non mai più risorgere, ed un giorno, nel vostro pentimento, potreste ricordarvi forse d’essere stati i becchini della monarchia, della quale proclamate d’essere i campioni» (Discussioni della Camera dei Deputati, vol. VII della Sessione 1871-72, pag. 6164. - Il discorso, poichè nella stampa erano incorsi molti errori, fu ristampato in fine del vol. VIII, e la frase, tale e quale, si trova a pag. 7586). Allora la frase passò quasi inosservata, poichè il Rendiconto non registra che i Bravo! Bene! della Sinistra: ma egli la ripetè il 12 febbraio 1875, parlando delle elezioni politiche generali e dei fatti di Villa Ruffi e questa volta il Presidente che era, come la prima volta, l’on. Biancheri, non la lasciò passare e rimbrottò vivacemente: «Onorevole Miceli, questa è una parola indegna di lei e della Camera, e la più sconveniente che si possa dire! Io mi meraviglio che abbia potuto qui pronunciarla» (Sessione 1874-75, vol. II, pag. 1233). Alla frase del Miceli si può mettere a raffronto l’altra, assai simile, e che attribuiscono ad Alfredo Baccarini, dei Bigotti della Monarchia.

Questa volta cominceremo il solito spoglio dei libretti melodrammatici, con un’opera pochissimo conosciuta, della quale nondimeno sono rimaste abbastanza note queste strofe:

2106.             Saper bramate,
               Bella, il mio nome:
                Ecco ascoltate,
               ve lo dirò.
          Io son Lisandro
               di basso stato,
               Nè alcun tesoro
               Darvi potrò.

ed è la cavatina del Conte di Almaviva nel primo Barbiere di Siviglia, musicato su libretto di anonimo (riduzione dal francese [p. 750 modifica] di Beaumarchais) dal Paisiello nel 1780 per il Teatro Imperiale di Pietroburgo (a. I, sc. 1). Dall’altro Barbiere, quello di Rossini, composto, come più volte ho detto, dal romano Cesare Sterbini, traggo mèsse più abbondante poichè il nostro popolo lo sa tutto a memoria:

2107.        Mille grazie, mio signore,
          Del favore, dell’onore....
          Ah di tanta cortesia
          Obbligati in verità.

(a. I, sc. 1).

2108.        Maledetti, andate via!
          Ah canaglia, via di qua!

(a. I, sc. 1).

2109.        Pace e gioia il ciel vi dia.

è il saluto del Conte di Almaviva, travestito da Don Alonso, a Don Bartolo (a. II, sc. 2). Gli artisti cantano quasi sempre:

Pace e gioia sia con voi,

con leggera variante presa al Barbiere musicato da Paisiello.

2110.        Questa barba benedetta
          La facciamo sì o no?

(a. II, sc. 4).

2111.        Colla febbre, Don Basilio,
          Chi v’insegna a camminar?

(a. II, sc. 4).

Nell’opera Belisario, musica di Donizetti, di cui Salvatore Cammarano trasse il libretto dal dramma tedesco omonimo di Eduard von Schenks, troviamo i seguenti versi:

2112.        Trema, Bisanzio!sterminatrice
          Su te la guerra discenderà!

((a. II, sc. 3).

e questi altri in un altro melodramma del medesimo autore:

2113.   Son tue cifre? a me rispondi.

(Lucia di Lammermoor, melodramma di
Salv. Cammarano, mus. di Donizetti,
a. II, sc. 6).
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2114.                       Se quel guerriero
          Io fossi! se il mio sogno
          Si avverasse!

sono parole di Radamès nell’Aida di Verdi, libretto di Ant. Ghislanzoni (a. I, sc. 1)

Non molte sono le frasi francesi di questo genere popolari fra noi. Eccone una di origine storica:

2115.   Pends-toi, brave Crillon!21

Una nota di Voltaire alla sua Henriade (canto VIII, verso 109, in fine della nota 10) narra che Enrico IV, dopo una delle sue molte vittorie, avrebbe scritto a quello fra i suoi valorosi ch’egli amava di più, una breve lettera rimasta celebre: «Pends-toi, brave Crillon: nous avons combattu à Arques et tu n’y ètois pas.... Adieu, brave Crillon, je vous aime à tort et à travers.» Ma anche qui si è ripetuto il caso medesimo che per il famoso motto di Francesco I, Tout est perdu fors l’honneur. La lettera autentica è stata ritrovata ed è molto diversa: la si può leggere stampata in più libri, e ultimamente nel Fournier, L’esprit dans l’histoire (ch. XXXV.)

2116.   Anne, ma sœur Anne, ne vois-tu rien venir?22

domanda ripetutamente alla sorella la ultima infelice moglie di Barbebleue sul punto di esser uccisa, nel racconto di Charles Perrault (1628-1703); e Sœur Anne, qui ne voit rien venir, è rimasta in proverbio in Francia, e anche fra noi, spesso non senza malizia, per indicare una persona che aspetta a lungo e inutilmente.

Di Molière sono le due frasi seguenti: cioè la prima, la birichina interruzione di Sganarello all’orefice Josse il quale gli consigliava, per vincere la malinconia della figlia, di comprarle un ricco finimento di brillanti, rubini e smeraldi:

2117.   Vous êtes orfèvre, Monsieur Josse.23

(L’Amour Médecin, a. I, sc. 1).
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e la si ripete ogni volta che si ode alcuno dare un consiglio interessato; l’altra, tratta dal monologo di Giorgio Dandin nella commedia omonima, ou le Mari confondu, a. I, sc. 7:

2118.   Vous l’avez voulu, vous l’avez voulu, George Dandin, vous l’avez voulu.24

Nella tragedia di P. Corneille, Héraclius (a. IV, sc. 4, v. 1048) troviamo il verso, rivolto da Leontima a Foca:

2119.   Devine si tu peux et choisis si tu l’oses.25

- nella Fiammina di Marius Huchard (1824- 1893):

2120.   Merci de cette bonne parole!26

- e nel Rabagas di Victorien Sardou (a. II, sc. 4):

2121.   Si je savais un mot plus cochon que cochon, je le choisirais.27

Se si vogliono delle frasi inglesi, si capisce che non si può fare a meno di citare Guglielmo Shakespeare:

2122.                  O, true apothecary!
     Thy drugs are quick.28

(Romeo and Julliet, a. V, sc. 3).

2123.             O my prophetic soul!29

esclama Amleto nel dramma omonimo (a. I, sc. 5, v. 40) quando lo spettro di suo padre gli rivela di essere stato ucciso dal fratello. [p. 753 modifica]

2124.                  Geet thee to a nunnery!30

(Hamlet, a. V, sc. 1).

così Amleto a Ofelia.

2125.                  Alas, poor Yorick!31

(Hamlet, a. V, sc. 1).

L’umorista Lorenzo Sterne, il quale aveva preso come pseudonimo letterario il nome del buffone aulico danese Yorick compianto da Amleto, voleva far riposare le sue ossa nel camposanto della propria parrocchia, senz’altro epitaffio che le tre parole indicate di sopra, ma essendo morto a Londra nel 1768, fu colà sepolto con altra epigrafe.

2126.   Remember.32

fu l’ultima parola detta da Carlo I d’Inghilterra sul patibolo, un momento prima di piegare il collo sul ceppo, rivolgendosi al vescovo Juxon che lo assistè negli ultimi momenti. E poichè si suppose che sotto quella parola si celassero gravi arcani di stato, furono fatte molte insistenze presso il prelato affinchè la spiegasse. Ma il Vescovo disse soltanto che il re gli aveva raccomandato più volte d’inculcare a suo figlio il perdono de’ suoi persecutori, e che anche nell’ultimo istante della sua vita volle reiterare quel suo voto magnanimo. Vedi, con altri storici, Hume, History of England, cap. LIX. La parola famosa si ritrova, con contorno romanzesco, nel libro di Dumas padre, Vingt ans après, cap. LXXI.

2127.   Apriti, Sesamo!

è rimasto nella tradizione volgare come lo scongiuro cabalistico impiegato per aprire la porta della caverna nella notissima novella di Alì Baba e dei quaranta ladri, che è divenuta popolare in Europa dopo la traduzione francese delle Mille e una notte fatta dal Galland, il quale, avendo portato a Parigi sulla fine del secolo XVII [p. 754 modifica] il primo manoscritto di quella raccolta che si conoscesse in Europa, ne pubblicò la traduzione in dodici volumetti fra il 1704 e il 1717: e questa per molti anni è stata la sola fonte europea per la conoscenza di quelle novelle. Ma alcune delle novelle pubblicate dal Galland non appartengono al testo genuino delle Mille e una notte, e benchè siano certamente racconti orientali autentici, pure non se ne sono ritrovati finora gli originali, e si suppone che il Galland le abbia ricostruite su reminiscenze personali del suo soggiorno in Oriente. Di tal numero è la storia di Alì Baba che si crede di origine cinese, per quanto novelle simili siano state trovate da Geldart in Grecia, da Payne fra gli Arabi del Sinai, dai fratelli Grimm in Germania. Una versione letterale dell’originale arabo delle Mille e una notte è stata pubblicata a cura di R. F. Burton sotto gli auspici della Kamashastra Society a Benares, 1885 e segg.; e la novella di Alì Baba vi si trova fra le novelle aggiunte nel vol. III delle Supplemental Nights (pag. 367-402). Il Burton fa risaltare l’affinità del cabalistico nome del Sesamo orientale (in arabo Semsem) con un altro scongiuro menzionato in un curioso passo del Directorium Vitae Humanae di Giovanni da Capua: «Inquit vir, Ibam in nocte plenilunii et ascendebam super domum ubi furari intendebam, et accedens ad fenestram ubi radii lune ingrediebantur, et dicebam hanc coniurationem, scilicet sulèm sulèm, septies, deinde amplectebar lumen lune et sine lesione descendebam ad domum» (ediz. Puntoni negli Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa, vol. VII, 1884, pag. 125). È noto che il Directorium humanae vitae alias Parabolae antiquorum sapientum è una riduzione latina fatta da Giovanni da Capua sulla versione ebraica del libro arabo detto di Calila e Dimna; e che questo alla sua volta è la metafrasi di una versione pehlvi, oggi perduta, del testo sanscrito, ugualmente perduto, di un’operetta chiamata forse Del reggimento dei principi. I fratelli Grimm, nella loro raccolta di novelle tradizionali tedesche, hanno pubblicato (Nr. 142: Simeliberg) una leggenda, molto simile alla novella orientale, e che è viva da tempo immemorabile (e certamente molto prima elio uscisse per le stampe la traduzione del Galland) nella Germania settentrionale, nella provincia di Münster, e nell’Hartz. In questa leggenda le parole magiche sono: Berg Semsi, Berg Semsi, thu dich auf, e i Grimm annotano che i nomi Semsi, Simeli, Sinèl, [p. 755 modifica] sono molto antichi in Germania e si trovano non di rado ad indicare delle montagne; infatti essi traggono forse origine da un antico radicale che vuol dire tondo.

  1. 2063.   Andate da Giuseppe.
  2. 2064.   Vattene, Satana.
  3. 2065.   Levati e cammina.
  4. 2066.   Non vi conosco.
  5. 2067.   Sforzagli ad entrare.
  6. 2069.   Crocifiggilo, crocifiggilo.
  7. 2070.   Sia scomunicato.
  8. 2071.   Saulo, Saulo, perchè mi perseguiti?
  9. 2072.   O mare, mare!
  10. 2073.   E fino a quando, Catilina, abuserai della pazienza nostra!
  11. 2074.   Anche tu, Bruto, figlio mio?
  12. 2076.   Alzati, carnefice.
  13. 2077.   O tre e quattro volte beati!
  14. 2078.   O Dei, allontanate dalla terra un tale flagello!
  15. 2079.   Sotto nome diverso la favola di te parla.
  16. 2080.   Se foste ammessi a vedere (un tal mostro), tratterreste le risa, o amici?
  17. 2081.   È difficile trattenersi dallo scrivere satire.
  18. 2082.   A quale avvoltoio toccherà questo cadavere?
  19. 2083.   Vattene a farti impiccare.
  20. 2084.   Salute e apostolica benedizione.
  21. 2115.   Impiccati, mio bravo Crillon.
  22. 2116.   Anna, Anna, sorella mia, non vedi venir nulla?
  23. 2117.   Certamente voi siete orefice, signor Josse.
  24. 2118.   L’avete voluto, l’avete voluto, Giorgio Dandin, l’avete voluto!
  25. 2119.   Indovina se puoi e scegli se osi.
  26. 2120.   Grazie di questa buona parola.
  27. 2121.   Se io sapessi una parola più sporca di porco, l’adoprerei.
  28. 2122.   O fedele semplicista, le tue droghe operano pronte.
  29. 2123.   O anima mia profetica!
  30. 2124.   Va a farti monaca!
  31. 2125.   Ahi povero Yorick.
  32. 2126.   Ricordatevi.