Chi l'ha detto?/Parte terza/85
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§ 85.
Sfarfalloni
Chiudo questo modesto repertorio di frasi storiche e letterarie popolari fra noi con un mazzetto di citazioni che non hanno altro merito se non quello della scempiaggine loro, veri sfarfalloni o grullerie passate alla posterità come tali.
Appartengono quelle che ho raccolto, per la maggior parte al teatro, tranne alcune che ad eccezione di un paio sono di origine poetica: do queste per prime e comincio con le famose:
2193. Vérités de M. de la Palisse.1
Giacomo Chabannes, signore de la Palice o Palisse (La Palisse è castello del dipart. dell’Allier, fin dal secolo XIV dei conti Chabannes) fu un prode capitano francese che morì combattendo valorosamente alla battaglia di Pavia (1525). Pare che i suoi soldati stessi, dopo la sua morte, componessero per celebrarne le gesta una ingenua canzone, di cui la tradizione ci ha serbato un solo couplet, ed è questo, se pure è autentico:
Monsieur d’La Palice est mort,
Mort devant Pavie:
Un quart d’heure devant sa mort,
Il était encore en vie.
Messieurs, vous plaît-il d’ouïr
L’air du fameux La Palisse?
Il pourra vous réjouir,
Pourvu qu’il vous divertisse.
La Palisse eut peu de bien
Pour soutenir sa naissance,
Mais il ne manqua de rien
Dès qu’il fut dans l’abondance.
Il fut, par un triste sort,
Blessé d’une main cruelle;
On croit, puisqu’il en est mort,
Que la plaie était mortelle.
Regretté de ses soldats
Il mourut digne d’envie,
Et le jour de son trépas
Fut le dernier de sa vie.
Non ha alcun serio fondamento la ipotesi più volte fatta anche in Francia e riesumata dal prof. Giacomo Lo Forte nel suo volume Ad hoc (4ª ediz.), n. 1923 e anche in articoli di giornale (p. es. nel Giornale di Sicilia del 6 ottobre 1919, in un articolo firmato con lo pseudonimo il Lepisma) che il Monnoye scrivesse questa poesia burlesca, non per il famoso capitano La Palisse ma per un imaginario La Galisse e che lo scambio dei nomi avvenisse in qualcuna delle edizioni contraffatte del poeta. È vero proprio il contrario. Vi sono infatti delle stampe che hanno La Galisse in luogo di La Palisse e una di queste è l’edizione di La Haye 1716, curata dal Sallengre che vi premise un elogio dell’autore, dove, a quanto asserisce il sig. Lo Forte, che io non ho potuto consultare tale edizione, il Sallengre direbbe che questo burlesco signor de La Galisse è una figura imaginata dall’autore. Ma l’autore stesso sconfessava tale edizione nel Journal des Savants, fasc. del 7 dicembre 1716, a pag. 640, dicendo che essa è stata fatta a sua insaputa e contiene molte poesie non sue e «celles dont il est véritablement Auteur sont la plupart corrompues, entièrement déplacées, en un mot très différentes de l’état ou elles paroitroient, s’il avait dessein de les ramasser en un corps pour les mettre au jour». Ciò egli non fece impeditone dalla morte: ma la edizione autentica delle sue opere (Œuvres choisies) comparve postuma assai più tardi, nel 1770, in due volumi in-4º a cura di Rigoley de Juvigny: e in questa edizione il nome dell’eroe della canzone è proprio scritto La Palisse.
Aggiungerò qualche citazione nostrana: una frase del poeta romanesco G. G. Belli, tolta da uno dei pochi buoni sonetti scritti da lui in lingua letteraria:
2194. ...Non faccio per vantarmi,
Ma oggi è una bellissima giornata.
pubbl. dal nipote, vol. VI, pag. 359).
ed il verso:
2195. A cavallo d’un caval.
che è dentro una celebre ed arguta poesia umoristica, popolarissima in Lombardia, di Gino (ossia Giovanni) Visconti Venosta, intitolata La partenza del Crociato, dalla quale tolgo alcune altre strofe compresa la prima (che però non è di lui ma dalla quale egli prese lo spunto per il seguito) e dove pure sono dei rimasti in pubblico dominio: Passa un giorno, passa l’altro.
Mai non torna il nostro Anselmo:
Perch’egli era molto scaltro,
Andò in guerra, e mise l’elmo.
. . . . . . . . . . . .
Nè per vie ferrate andava
Come in oggi col vapor:
A quei tempi si ferrava
Non la via ma il viaggiator.
La cravatta in fer battuto
E in ottone avea il gilè:
Ei viaggiava, è ver, seduto
Ma il cavallo andava a piè.
Da quel dì non fe’ che andare,
Andar sempre, andare, andar....
Quando a piè d’un casolare
Vide un lago, ed era il mar.
Sospettollo, e impensierito
Saviamente si fermò,
Poi chinossi, e con un dito
A buon conto l’assaggiò.
La partenza del Crociato, composta nell’autunno del 1856, circolò per molto tempo in copie manoscritte, poi l’autore si decise a farne un’edizione litografata in foglio volante per gli amici, e quindi lo stampò.... dove nessuno si sognerebbe di andarlo a cercare, cioè in una nota al cap. XXII dei suoi Ricordi di gioventù (Milano, Cogliati, diverse ediz.). Finalmente ne fu fatta, alcuni anni fa, sotto gli auspici del Guerrino Meschino, noto giornale umoristico milanese, un’elegante edizioncina illustrata da 16 acquerelli di Aldo Mazza (Milano, Cogliati).
Un’altra poesia umoristica, popolarissima in Lombardia, è l’Esule, del noto e valente pittore Vespasiano Bignami. L’Esule, pubblicata per la prima volta nel 1875 e ristampata molte volte dopo, è il lamento spropositato, in dialetto milanese male italianizzato, di un mariuolo costretto ad esulare.... perchè in patria non tira più buon vento per lui. Notissimo il principio:
2196. Dalla vetta più guzza dell’Alpi
Con lo sguardo rivolto alla bassa,
Ti saluto, spolpata carcassa,
E ti dico: A ben vèdes ....mai pù!
e le penultime strofette:
2197. E si parla di libera Chiesa
Combinata col libero Stato!
E si legge di spesso stampato:
«Siam fratelli! Siam cento città!»
Bagoloni! trovatene un altro
Da sgonfiare: «Siam tutti fratelli»
Ma a buon conto lor tengono i ghelli,
E mi invece me tocca a scappà.
A questa poesiola fu fatta una coda, Il ritorno dell’Esule, anch’essa stampata più volte, dal 1879 in poi, sempre anonima: ma l’autore è l’ing. Carlo Stambucchi, morto nel 1897. L’Esule, arricchito in America con speculazioni degne di lui e delle sue prime gesta, torna in Italia e si propone di fare il mecenate, di imbiancarsi con i signori ecc. ecc. Ecco come il parvenu — oggi si direbbe il nouveau riche — giudica l’high-life blasonato:
2198. Noi siam figli, dirò, di noi stessi,
Loro invece si appoggiano ai padri;
Tutto sta se la casa ha dei ladri
In giornata, o sei secoli fa.
La famosa quartina:
2199. Come nave che salpa dal porto
Passeggiando con passo scozzese,
È lo stesso che prendere un morto
Per pagarlo alla fine del mese.
Spazia si, dall’alto il limo
di facella l’aurea notte,
che gli amanti al posto primo
bacieranno il loro albor.
Anche altre solenni canzonature fatte al Fioresi sono rimaste famose. Tale è la epigrafe per la morte del fratello, che tutti assegnano a lui, e che realmente si legge nell’opuscolo In morte del Signor Tenente Colonnello Domenico Fioresi uomo di valente grido e del più degno elogio alle preci dell’onore (Bologna, tip. Bortolotti, 1833). Eccone il testo:
Quando
travolava per i gaz olimpiaci
Domenico Fioresi Bolognino
delle corporee Guardie d’Onore
del Regno Saturnio
Colonnato Tenente Cavaliero Marcato
alle sventure non malleabile
scirrosamente rapito da patologo morbo
[morì infa ti di uno scirro]
ahi lontanissimo sol di anni due
dal lustro decimale
di terrena sua locazione
l’anno della sementa del mondo
5833
e dal trojo eccidio maloroso
3042
tra la settennaria e novena giornea
idest l’ottavario die lugliatica luna
gli amici del fratello Giuseppe
al morto immortale
questo iscrizionico finimento
a gocciole a gocciole convulsionati
da-da-da
dal dolore
u-lu-la-va-no.
Dove sei dove sei che fai che fai |
Quest’Epigraffio venne dolcemente partorito dalle complicate istanze delle viscere del dolore Germanico.
E in fine all’opuscolo, tra alcune varianti a questa epigrafe, c’è perfino questa che in vece del Trojo eccidio maloroso, si può dire Troja deplorabile pernice!
Ma l’epigrafe proprio non è del Fioresi di cui non porta nè la firma nè le iniziali: e d’altra parte l’ultima avvertenza lo lascia più o meno chiaramente intendere. Una burlesca recensione dell’opuscolo pubblicata in una rivista del tempo dice esplicitamente che si tratta di un’imitazione dello stile del Fioresi dovuta ad autore anonimo: ed il Fiacchi nel libro citato l’assegna senz’altro al buon Salvatore Muzzi. famoso epigrafista davvero.
2200. Margherita e suo marito.
Paolo Campello della Spina, in certi suoi Ricordi stampati nella Rassegna Nazionale del 16 luglio 1913 (vol. CXCII, pag. 781) ricorda il famoso inno composto nel 1871 da Biagio Placidi, allora assessore della pubblica istruzione del comune di Roma, da cantarsi per il primo anniversario del Plebiscito di Roma (2 ottobre) dagli alunni delle scuole elementari, e di cui molti versi sono rimasti più che nella cronaca, nella storia:
Margherita e insieme Umberto
Che d’impavido soldato
Diede prova nel quadrato
Ed al qual di star non duole
Alla polvere ed al sole.
. . . . . . . . .
Viva dunque il Plebiscito,
I Ministri Italia e il Re,
Margherita e il suo marito
Che dei prodi ha il cuor la fe’.
Ma de’ plausi il fior si vuole
Cui moltiplica le scuole
Chè non germina possanza
Terra ingombra d’ignoranza.
Questo sarebbe secondo il sig. Campello, il testo genuino alterato nelle ristampe abusive. Il fatto è confermato nelle memorie di Giuseppe Manfroni, il famoso commissario di polizia di Borgo (Sulla soglia del Vaticano, vol. I, Bologna, 1920, pag. 84) il quale dopo aver riportato alcuni dei versi più singolari, con lezione alquanto diversa da quella del sig. Campello, soggiunge: «Avrei creduto ad una parodia, ad una caricatura, se non avessi veduto coi miei occhi il foglietto stampato con tanto di lupa capitolina coi gemelli.»
Lo stesso sig. Campello nei citati Ricordi (pag. 179) narra di avere assistito al Teatro Valle alla tragedia Stilicone di un Giovanni (o meglio Lorenzo?) Marchetti. «Al quarto atto, quando il primo attore, chiese alla prima donna: Sailo? ed ella: Sollo!, a che seguì il tiranno dicendo:
Sassi, sì, sassi ancor per tutta Atene.
E sassate all’autore! gridò il pubblico».
Ma in Toscana ho sentito invece citare il verso così:
2201. Sassi in Atene e in tutta Roma sassi.
e dei vecchi Fiorentini mi hanno assicurato che era in una tragedia dell’avvocato pure fiorentino, dott. Giuseppe Vedeche. Però in quelle fra le tragedie del Vedeche che sono a stampa (Teatro drammatico, Firenze, Mazzoni, 1844, voll. 2) il verso non c’è.
Popolarissima a Napoli e in tutta l’Italia meridionale è invece la fama di Ferdinando Incarriga e delle sue spropositate poesie. L’Incarriga, nato negli ultimi anni del secolo XVIII, fu giudice della Gran Corte Criminale a Potenza e altrove e finalmente a S. Maria Capua Vetere, dove chiuse la sua carriera. Le celebri poesie ebbero una prima edizione nel 1834: Opuscolo che contiene la raccolta di cento anacreontiche su di talune scienze, belle arti, virtù, vizi e diversi altri soggetti, di Ferdinando Incarriga, giudice della Gran Corte in Salerno, composto per solo uso de’ giovinetti. Napoli, Dallo Stab. tipogr. dell’Aquila, 1834, in-16, pag. 56. L’edizione è più che rara, introvabile oggi, anche perchè appena pubblicata, andò a ruba e ben presto fu esaurita, sia per il successo strepitoso, sia perchè la famiglia dell’autore ne comprò di nascosto quante più copie potè per distruggerle. Ma era tempo perso. Subito ne comparve una seconda edizione, poi una terza, una quarta, una decima; e il volumetto si ristampa ancora. Che razza di roba siano queste anacreontiche basterebbe a rivelarlo l’osservazione che sta a tergo del frontespizio: «L’Autore ha inteso raccogliere in otto versi (o due volte quattro) l’argomento di ogni anacreontica; ed à procurato, per quanto è stato possibile, di spiegare la definizione e le cose più notabili dell’argomento stesso; colla legge che la prima parola di ogni composizione è la stessa del soggetto; e ciò onde il giovinetto abbia una iniziativa alla recita». Le poesie dell’Incarriga sono tutte popolari. C’è a Napoli chi le sa tutte a memoria. Eccone, per saggio, due fra le più conosciute, L’Astronomia (13) e L’Eclissi (90):
2202. Stronomia è scienza amena
Che l’uom porta a misurare
Stelle, Sol, e ’l glob’ Lunare
E a veder che vi è là su.
Quivi giunto tu scandagli
Ben le fiaccole del Mondo;
L’armonia di questo tondo
Riserbata a Dio sol’è.
2203. Eclissi è quando s’incontra
Fra il Sol la Lun sovente
O fra Lun la Ter movente
E scuror ne vien quaggiù.
Questo fatto sì innocente
Una volta fe’ timore,
Si credea che Dio in livore
Stasse colla Umanità.
Indice della fortuna delle poesie dell’Incarriga fu il pullulare degli imitatori, più o meno maliziosi. Fra costoro il più famoso è Francesco Paolo Ruggiero che fu ministro nel 1848, il quale, sotto il nome dell’Incarriga, compose delle altre anacreontiche, nella loro scempiaggine spiritosissime, che l’Incarriga non si era sognato di scrivere ma che tutti attribuirono a lui e citano come se fossero sue. Esse sono intitolate: Componimenti con i quali l’autore don Ferdinando Incarriga ha inteso dimostrare il suo dolore nella morte della defunta Regina (cioè Maria Cristina di Savoia, morta nel partorire Francesco II, il 31 gennaio 1836, già ricordata al n. 2093) e de’ suoi amici (sic) in otto ottave anacreontiche in due volte quattro versi. Esse circolarono manoscritte fino al 1860 e poi furono arbitrariamente aggiunte nelle posteriori edizioni delle anacreontiche genuine. Eccone due. le più note:
2204. O Francesco, sei piccino,
Ma mi sembri tanto grante (sic)
Che Golia, quel gran gigante,
È pigmeo accanto a te.
Possa presto la fortuna
Farti ascendere sul trono;
E sarà il più bel dono
Che può farci il nostro re.
Il quale re, Ferdinando II, quando sentì per la prima volta il singolare augurio, dicesi abbia risposto con una di quelle apostrofi napoletanesche che gli erano familiari. Quest’ultima poi è la più famosa di tutte, autentiche o no; e, perchè si possa intenderla, dirò ch’essa vorrebbe ricordare il Ritiro del SS. Cuore di Gesù alla via Salute, nel quale Maria Cristina dispose per testamento che fossero ricoverate, a spese di casa reale, cinquanta fanciulle, rimaste orfane nel colera del 1835.
2205. Testamento è atto grande,
Che fa l’uom presso alla morte,
E chiamato il buon consorte,
La regina volle far.
In virtù di quella legge,
Son cinquanta sventurate
In un chiostro rinserrate
Notte e dì a salmeggiar.
Testamento è atto grande.
Che fa l’uom vicino a morte,
Per lo più a chiuse porte,
E si deve venerar.
La Regina il fece tosto
Con cinquanta sventurate ecc.
E a proposito degli imitatori dell’Incarriga, non è inopportuno di ricordare un singolar volumetto, pure noto, ma che meriterebbe di essere molto di più, del prof. Carlo Emery, il dotto zoologo dell’Università di Bologna, il quale per beffare e rampognare gli studenti d’oggi che si appagano di imparare pappagallescamente le povere «dispense», si prese la scesa di testa di farne una prolissa parodia in cento componimentini poetici di stile incarrighiano, di tre strofe l’uno. Eccone un saggio
gli acari
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E così di seguito per cento componimenti di questa forza i quali, come è detto nella Dedica,
Ad imparar son facili, si possono cantare
sull’inno turatiano, quel del lavorator!
titolo del volumetto è: Zoologia popolare ovvero La bestiale Commedia. Nuove dispense di zoologia per le sessioni straordinarie d’esami disposte in 100 strofe facili e amene per cura di cocò (il Pappagallo). Precedute da una lettera del Prof. Carlo Emery all’autore. (Bologna, Nicola Zanichelli, 1905).
Un altro bell’originale napoletano fu il Presidente Fenicia ossia Salvatore Fenicia, presidente della Commissione degli scavi di Ruvo, nato a Ruvo nel 1793. Quest’altra famosissima bestia aveva la manìa della letteratura: un catalogo delle opere da lui scritte, compilato nel 1856 — e il Fenicia continuò a scrivere ed a stampare almeno fino al 1861 — ne riferisce 72 fra edite e inedite, di cui qualcuna in 12 volumi di complessive pagine 4000! Lo stile e la lingua di queste strampalatissime scritture sono qualcosa d’incredibile, ma lo spazio non mi consente di dilungarmi a trascriverne degli interminabili periodi. Ricorderò soltanto ch’egli scrisse anche dei versi e che a lui si attribuiscono i seguenti, famosi, che apparterrebbero a una sua tragedia:
2206. — Signor, che t’ange?
— Di visceri un dolor....
— Conosci tu quell’istrumento arcano,
Che filtra l’acqua come fil di seta?
— Ebben, l’arreca....
Ma son troppo spiritosi per esser suoi; ed infatti pare che li abbia scritti Emanuele Bidera. Non manca, per altro, nelle opere del Fenicia qualcosa di simile. Apro infatti la tragedia Il Giacomo secondo, alla prima scena del primo atto. Giacomo, che è quasi moribondo, dice al duca di Berwick di voler ricevere i sacramenti, ed il Berwick con la massima serietà gli risponde:
Sire, non t’allarmar.... forsi (sic) del tempo
Turbato alquanto, o d’indigesto cibo
Fenomeni son questi.... il dottor jeri
M’assicurò che non è grave il male....
(Opere, vol. III, Trani, Frat. Cannone, 1839, pag. 209)
Chi fosse vago di maggiori notizie su queste due singolari macchiette, veda l’articolo: Curiosità Napoletane, VI. Ferdinando Incarriga ― Il presidente Fenicia, firmato F. N. (cioè Fausto Nicolini), nella Napoli Nobilissima, vol. XV, 1906, pag. 123-126.
Veniamo dunque al teatro, nostrano e straniero. Nel teatro di Molière è rimasta famosa la replica di Sganarello:
2207. Nous avons changé tout cela.2
o 6 secondo le ediz.).
Sganarello finto medico, sostiene che il fegato sta a sinistra, il cuore a destra; e a Geronte che si meraviglia di questa straordinaria inversione, risponde imperturbabilmente: «Oui, cela était autrefois ainsi; mais nous avons changé tout cela, et nous faisons maintenant la médecine d’une méthode toute nouvelle.»
2208. Omeno d’arma.
è frase scherzevole e più spesso beffarda che si usa nell’Italia superiore a designare chi fa il bravaccio per conto proprio o d’altrui o anche semplicemente colui che per professione o per diletto tratta le armi. Viene dalla famosa comi-tragedia scritta da Carlo Porta e Tommaso Grossi per la Canobbiana, Giovanni Maria Visconti Duca di Milano, che ridotta e rabberciata vive ancora nel repertorio dei teatri di ultimo ordine e dei burattini col mutato titolo di Biagio da Viggiù, la ridicola figura in cui s’impersona una delle parti principali dell’azione. Ed è infatti Biagio che in fin dell’atto I (sc. 6) in un soliloquio dice burbanzosamente: «Mi sonto Biaso de Veggiuto, marmorino ona voeulta, adesso omeno d’arma». E più oltre (a. II, sc. 3), presentandosi a Squarcia Girami, confidente del Duca: «Biaso di Viggiuto, piccaprejo una voeulta, e adesso vuomeno d’arma». Si capisce che il povero Biagio, per darsi dell’importanza, si studia di parlare toscano! Si vuole che i due poeti nel comico personaggio di Biagio volessero satireggiare certo abate Gaetano Giudici di Viggiù: ma è più probabile ch’essi intendessero piacevolmente scherzare sul vezzo che hanno molti scalpellini e marmorini di Viggiù (nel Varesotto) di parlar toscano, dopo essere stati nelle altre parti d’Italia o all’estero per molti anni a lavorare dell’arte loro.
Una sciocchezza notissima, che si suole ripetere anche con molte varianti,
2209. Ce sabre est le plus beau jour de ma vie!3
è una delle battute famose di Joseph Prudhomme, la creazione immortale di Henri Monnier, letterato e caricaturista parigino. Prudhomme, com’è noto, è un professore di calligrafia ed il tipo del borghese limitato d’intelligenza e pretenzioso, che parla per goffe sentenze, molte delle quali sono pure rimaste storiche (On ne remplace pas une mère; Ôtez l’homme de la société, vous l’isolez; Tous les hommes sont égaux, satif les différences qui peuvent exister entre eux; Le char de l’État navigue sur un volcan ecc.). Monnier lo creò verso il 1830 nelle Scènes populaires dessinées à la plume, prendendo come originale un infelice impiegato di ministero che gli capitò un giorno tra i piedi; ma la figura non resultò modellata perfettamente che nella commedia in 5 atti, Grandeur et décadence de M. Joseph Prudhomme, scritta in collaborazione con G. Vaez, data all’Odéon il 23 dicembre 1852 e poi per più di cento sere di seguito: nella quale Monnier che era anche artista drammatico, volle incarnare meravigliosamente il tipo del protagonista da lui creato come caricaturista e come scrittore. È in questa commedia che Prudhomme, nominato capitano della Guardia Nazionale, pronuncia la frase che rimarrà nella storia: «Messieurs, ce sabre est le plus beau jour de ma vie! je l’accepte et, si jamais je me trouve à la tête de vos phalanges, je saurai m’en servir pour défendre nos institutions et au besoin pour les combattre!»
Delle molte varianti che fra noi ha avuto la frase classica, una delle più note è la seguente: Questa stretta di mano è il più bel giorno della mia vita, che è la battuta finale della commediola Un gerente responsabile, di Parmenio Bettòli (rappresentata per la prima volta in Firenze, al teatro delle Logge, la sera del 22 marzo 1869): e l’altra non meno nota: Questo sigaro, Maestà, è il più bel giorno ecc. della quale si racconta che sia stata realmente detta a Vittorio Emanuele II, ma io la credo inventata da Yorick (Pietro Coccolato Ferrigni) che la raccontò nella Nazione.
2210. Scoscendere il lollio dalla spica.
è una delle marchiane corbellerie che Paolo Ferrari pone in bocca al suo immortale Marchese Colombi (La Satira e Parini, a. I, sc. 5). È cosa ormai nota che questo tipo è modellato dal vero, ma su due distinti originali, il prof. Angelo Marchi, direttore del Convitto legale della università di Modena e professore di Pandette in quell’ateneo, quando vi era studente Paolo Ferrari, e un certo Filippo Chelussi. Vedasi l’importante volume su Paolo Ferrari pubblicato dal figlio Vittorio (Milano, 1899) a pag. 19, 26, 130. Di Filippo Chelussi, pisano, ma vissuto a Massa, e delle sue mellonaggini scrive a lungo Giovanni Sforza in uno studio Massa cinquant’anni fa, premesso al Bartroméo calzolaro, commedia in dialetto massese del Ferrari, stampata per la prima volta per cura dello Sforza medesimo (Firenze, 1899). Meritano di essere raccolte anche le altre minchionerie che il commediografo fa dire al suo Colombi:
2211. Dei sonetti, corti, da far prestino,
Ma, se fosse possibile, in greco od in latino.
2212. Insomma io resto attonito nè posso attribuire!
Questo era proprio modo di dire prediletto dal Chelussi; e il Ferrari già se n’era valso mettendolo come intercalare del già citato Calzolaro Bartroméo (a. I, sc. 8).
2213. ...Io per ordinario
Fra questi sì e no son di parer contrario.
e così veramente disse una volta dalla cattedra il prof. Marchi, ma forse il Ferrari ricordò e volle parodiare i versi danteschi:
2214. ...Io rimango in forse,
Chè sì e no nel capo mi tenzona.
2215. Le accademie si fanno oppure non si fanno!
Lo disse il grande avo del marchese Colombi, il marchese Alamanno; e lo ripete il nipote (a. III, sc. 1). In altra scena (a. II, sc. 6) il marchese Colombi riceve per la nascita del figlio uno di quei sonettini in greco, ai quali teneva tanto, guarda con compiacenza il foglio alla lontana, come se fosse una pittura, ed esclama:
2216. Che bella lingua il greco!
Anche questa scempiaggine dell’ineffabile marchese ha la sua fonte letteraria. Vittorio Imbriani scrivendo nella Nuova Antologia (vol. VIII, 1868, pag. 278) di Giovanni Berchet ed il romanticismo italiano diceva: «E se almeno sapessero il greco!... Ma per lo più conoscono il linguaggio di Platone e d’Epicuro come quel bergamasco impostore che spacciava d’averlo imparato ne’ suoi viaggi, probabilmente immaginari. Ma fatecene sentire qualche frase, insisteva certa gente dabbene. Ed egli: Μὺ μελαῤῥύδω δὲ στυμιγχιῶν. E quei minchioni: Oh com’è dolce, com’è grazioso il greco! Che bella lingua davvero!» ― La derivazione mi sembra evidente: ma chi era il «bergamasco impostore»? Io non lo so: ma è certo che il Ferrari, se ebbe notizia della frase, l’ebbe non a traverso lo scritto dell’Imbriani, che è del 1868, mentre La Satira e Parini è del 1856, bensì direttamente dal testo che l’Imbriani citava.
2217. Fuggi, fuggi: per l’orrida via
Sento l’orma dei passi spietati.
sono i versi più noti del libretto Un ballo in maschera, musica di Verdi (a. II, sc. 3), e si citano ad ogni momento sia per dire una freddura, sia per recare una prova dell’insulsaggine di certi libretti musicali. È questa perciò l’occasione migliore per dire la storia poco conosciuta di questo libretto. Esso fu composto pel teatro S. Carlo di Napoli (carnevale 1858) col titolo Gustavo III da Antonio Somma, della Carnia, poeta che allora ebbe fama, morto a Venezia, dove a vent’anni otteneva applausi con la tragedia Parisina e uno dei redattori con Gazzoletti e Dall’Ongaro della famosa Favilla di Trieste. Il Somma tolse il soggetto del melodramma dal lavoro dello Scribe Gustave III (musicato da Auber): ma la censura borbonica non ne permise la rappresentazione, sicchè l’opera non fu rappresentata che nel carnevale dell’anno successivo al Teatro Apollo di Roma col titolo Un ballo in maschera, e con molti tagli e rimaneggiamenti della Censura. Fu detto (e anch’io lo dissi con altri nelle precedenti edizioni di quest’opera) che a cagione di questi rimaneggiamenti, nonchè degli altri, in numero pure grande, che il maestro Verdi, più valente compositore che poeta, volle introdurvi (e si aggiungeva che i due versi citati di sopra erano del numero!) il Somma non permise che le prime edizioni del libretto uscissero col suo nome; e che egli stesso avendo cominciato per il Verdi un altro libretto, il Re Lear, non volle continuarlo per non sottomettersi alle esigenze del maestro. Di tutte queste leggende ha fatto giustizia il compianto avv. Alessandro Pascolato nel volumetto: «Re Lear» e «Ballo in maschera», lettere di Giuseppe Verdi ad Antonio Somma (Città di Castello, S. Lapi, 1913). Nessuna nube turbò mai la relazione amichevole del Maestro col Somma: i mutamenti necessari per ottenere a Roma il permesso della rappresentazione furono eseguiti di buon grado dallo stesso Somma ed in tal modo che il libretto, a giudizio del Verdi, aveva poco perduto, anzi in qualche punto aveva guadagnato (lettera degli 11 settembre 1858). Il Re Lear fu finito, ma non musicato: e il Pascolato crede che il Somma non volesse far figurare il suo nome nel libretto del Ballo in maschera perchè il soggetto non era originale. Quanto ai due versi famosi non c’è ragione di attribuirne la paternità al Verdi: questi scrive al Somma il 20 novembre 1857: «Ho ricevuto il second’atto.... Il terzetto dopo il duetto non è riuscito così bene.... In tutto il dialogo tra Gustavo (ossia Riccardo), Amelia, Ankarstroem (ossia Renato) c’è qualche cosa di duro, di stentato e anche d’oscuro», ma nessuna osservazione è fatta per quei due versi: dei quali il Pascolato (in n. a pag. 20) dice che «se ne mena scalpore più del bisogno» e tenta giustificarli, ma su questo punto non potremmo trovarci d’accordo. In ogni modo stenteremo sempre a credere che meriti il nome di poeta l’autore di un libretto in cui non soltanto l’orma dei passi spietati, non soltanto le altre gemme qui spigolate da noi (vedi num. 2173). ma tutto il testo da capo a fondo è di una volgarità, e di una puerilità umoristica senza confini. Forse anche peggiore dell’orme troppo famose è il non meno famoso
2218. Raggio lunar del miele.
Sicuro! Quando i congiurati sorprendono Renato con la moglie nel campo abbominato (a. II, sc. 5), hanno la faccia tosta di cantare:
Ve’ se di notte qui colla sposa
L’innamorato campion si posa,
E come al raggio lunar del miele
Sulle rugiade corcar si sa!
2219. Il metodo senza metodo.
è frase che nacque da una graziosa commediola in un atto di Francesco Coletti intitolata Il maestro del signorino, dove ci si presenta un disgraziato precettore, il quale, appena gli se ne offra il pretesto, espone i suoi criteri d’insegnamento con una cicalata di questa sorta: «Per la istruzione io tengo un metodo, direi quasi senza metodo. Il colpo d’occhio e il criterio mi servono di guida, e secondo il bisogno provvedo. Per me il giovane è un campo d’esperimento, è una caldaia a vapore, della quale si deve prima di tutto provare la capacità e resistenza, e perciò io credo necessario di fargli apprendere nel tempo stesso a nozioni generalissime, leggere, scrivere, aritmetica, lingua francese, inglese, greca, disegno, mitologia, geografia, declamazione, fisica, ginnastica, filosofia, chimica, osteologia, e, per secondare l’attuale tendenza per le cose antiche, gl’insegno anche la storia. Il giovanetto, trovandosi colmo, senza saper come, di tanta indefinita erudizione s’inorgoglisce; allora io lo umilio col dimostrargli, con un metodo mio particolare, ch’egli non sa nulla.»
Ecco ancora due gemme del repertorio ferravilliann:
2220. Quelli che si risparmiano sono tanti meno spesi.
riflessione giustissima, benchè non troppo profonda, dello zio Camola nel vaudeville Bagolamentofotoscultura di Napoleone Brianzi (sc. 10), già ricordato al num. 2052: e
2221. Lo spavento del malvagio dev’essere combinato coll’innocenza del colpevole.
sentenza di Felissin nella commedia L’ultim gamber del Sur Pirotta, di Edoardo Giraud (a. I. sc. 17). Ma Felissin non porta farina del suo sacco, e non fa che ripetere a modo suo la sentenza di Gaetano Filangeri che si leggeva anni fa sul frontone del Palazzo di Giustizia a Milano: Lo spavento del malvagio deve essere combinato con la sicurezza dell’innocente (sentenza estratta da La scienza della legislazione, lib. III, capo I, in principio). Tuttavia la versione ferravilliana, come succede, è la più conosciuta, almeno a Milano.
Non appartengono nè al teatro nè alla poesia le due frasi con le quali si chiude la presente raccolta. La prima è la famosa:
2222. Infelice sì ma sventurata Polonia.
della quale così si narra l’origine. Il 1° maggio 1848 una piccola rappresentanza della Legione Polacca, formatasi in Roma e colà benedetta da Pio IX, giunse festeggiatissima a Milano. Erano soli undici individui, tutti in abito borghese, alla cui testa camminava un vecchio, dallo sguardo ardente, dalla fisonomia espressiva, dalla lunga capigliatura bianca cadente sulle spalle, dalla prolissa barba non meno candida. Era il venerando Adamo Mickievicz, il grande poeta nazionale della Polonia e i suoi dieci compagni erano i rappresentanti delle più illustri famiglie polacche. Condotti a Palazzo Marino furono ricevuti dal Governo Provvisorio e dal suo presidente, il conte Gabrio Casati, podestà di Milano il quale li accolse con un discorso di saluto. Fu detto allora che al Casati sfuggisse la frase suddetta divenuta poi famosa, e la cosa passò per tradizione: bisogna però avvertire che nè nei giornali nè nelle storie del tempo e neppure nei verbali manoscritti del Governo si trovano riportate le parole testuali di lui e tanto meno la frase stupefacente, mentre i giornali davano il discorso infervorato col quale il Mickiewicz rispose.
2223. Travaso delle idee.
è il titolo, rimasto famoso, di un giornaletto che un povero matto pavese, Tito Livio Cianchettini, inventore di macchine e primo scrittore di metafisico-politica, componeva, stampava e vendeva da sè, prima a Pavia, poi a Milano, e finalmente a Roma. Ecco il titolo esatto quale si legge nel primo numero pubblicato a Pavia il 16 agosto 1869:
Il Travaso d’idee
nella mia recipiente testa, fatto dai corpi animati ed inanimati
Travaso nell’altrui recipienti teste.
Ma negli anni successivi diventò anche più lungo e strano via via che lo squilibrio di quel povero cervello aumentava per la monomania e per la miseria.
E con questo mi si conceda di scrivere il Finis su quest’ultima pagina del mio Chi l’ha detto? So bene che non sempre avrò trovato una soddisfacente risposta a tale interrogazione: ma il lettore cortese vorrà essermi indulgente, sia per quelle inesattezze in cui pur troppo sarò caduto, sia per le molte omissioni di cui assai più facilmente potrebbe lagnarsi. Ignoro se avrò vita e possibilità di curare una ottava edizione: ma se ciò accadrà, dato che il favore del pubblico si conservi ancora uguale per questa edizione, come per le precedenti, vi sarà agio in una nuova ristampa di riparare a molte insufficienze di questa. Speriamo dunque che anche questa volta il mio saluto di commiato al benigno lettore possa essere, non un addio, ma un arrivederci.