Che cosa è l'arte?/Tolstoi e Manzoni nell'idea morale dell'arte
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TOLSTOI E MANZONI
NELL’IDEA MORALE DELL’ARTE
SAGGIO DI
ENRICO PANZACCHI1
I.
Il libro di Tolstoi: Che cosa è l’Arte?
È un libro che meriterebbe di essere confutato da Ernesto Rénan. Quanto a idee generali, esso non ci apporta grandi novità circa la mente dell’autore sull’arte e il suo ufficio nel mondo. Leggendolo si pensa alla Sonata a Kreuzer e si trovano cose già dette nel volume Zola, Dumas et Guy de Maupassant. Ma lo svolgimento della tesi è molto più largo e profondo; e ne esce più fortemente ribadita la condanna dell’arte contemporanea.
“Un giorno„, raccontava l’autore nel suo volume tradotto nel 1896, “mi venne mostrato da un pittore celebre un suo quadro rappresentante una processione. Ogni cosa vi era mirabilmente rappresentata; ma non appariva dal dipinto alcun sentimento dell’autore verso il proprio soggetto. Gli domandai:
— Dunque voi considerate le processioni come utili?
— Il pittore, avendo l’aria di compatire alla mia ingenuità, mi rispose che di questo non s’era occupato mai. Egli badava unicamente a dipingere la vita.
— Ma voi avrete almeno l’idea del vostro soggetto?
— Non ne so niente!
— Allora voi odiate queste cerimonie religiose?
— Nè le amo nè le odio....
E la risposta fu accompagnata da un vero sorriso di compassione. Io facevo semplicemente la figura di uno sciocco, davanti a questo artista moderno di alta fama, che dipinge la vita senza intendere, senza amare e senza odiare le manifestazioni della vita che trasceglie per il suo lavoro.„
E Leone Tolstoi ne concludeva che questa è la grande colpa da cui derivano le grandi miserie dell’arte del nostro tempo. Gli artisti tutti: pittori, scultori, poeti lirici, poeti drammatici, romanzieri, non trattano un argomento perchè la loro anima sia portata verso di esso da amore o da odio; ossia da un’interna ragione d’indole morale. Chi li muove adunque? Il solo fine di produrre nei loro simili un senso di stupore mediante la rappresentazione della vita; oppure un senso di piacere mediante la rappresentazione della bellezza. La maggior parte degli uomini, nella nostra società borghese, si contenta dello stupore artistico e delle grosse e violenti sensazioni che sono generate da lui. Un numero più ristretto, i delicati, gli estetici, par che vadano un po’ più in su col loro desiderio, domandando ai pittori, ai poeti e ai musici di essere dilettati con le rappresentazioni di forme belle. Ma anche questa distinzione di pubblico volgare e d’amatori fini, che il Guy de Maupassant scolpiva abbastanza bene nella prefazione al suo romanzo Pierre et Jean, in sostanza si riduce a ben poca cosa! “Nel mondo frequentato da Maupassant, quel Bello, al cui servizio l’arte deve trovarsi vera, ed è ancora rappresentata sopratutto dalla donna giovane e bella, per la più parte poco vestita; il Bello è d’averci con essa relazioni carnali....„
Avevo ragione di dire che qui ci vorrebbe Ernesto Rénan; anche perchè nessuno dinanzi al giudizio di Tolstoi è forse più in causa dell’autore delle Origini del Cristianesimo. Sono noti i suoi filosofici entusiasmi per la bellezza; i quali non si fermavano all’Acropoli e alla ideale perfezione delle figure scolpite nel pario e nel pentelico. Per la bellezza della donna viva pochi poeti ebbero, io credo, parole di più squisita e di più calda ammirazione. Nel suo libro su Marco Aurelio egli giunse fino a dare al Cristianesimo una colpa grave per la diffidenza rigida e paurosa che sempre dimostrò verso la bellezza della donna. Tutto il medio evo risuonò della minaccia scritturale: per speciem mulieris multi perierunt! Ebbene, il Cristianesimo, secondo Rénan, ebbe torto. “Agli occhi d’una filosofia completa, la bellezza, tutt’altro che essere un vantaggio superficiale, un pericolo, un inconveniente, è un dono di Dio come la virtù. Essa vale la virtù; la donna bella esprime una faccia dello scopo divino, uno dei fini di Dio, come lo esprime l’uomo di genio e la donna virtuosa.... La donna, ornandosi, compie un dovere; essa pratica un arte, arte squisita in un senso, la più graziosa delle arti„. E prosegue dimostrando che la dottrina cristiana non potè vivere e armonizzare dentro un quadro di società completa, se non quando, per opera di spiriti illuminati e disinvolti, potè spezzare questo duro giogo, voluto imporre alla natura umana da un pietismo esaltato.
Gli spiriti illuminati e disinvolti crearono il Rinascimento, il quale rimise in onore la bellezza; e con essa vinse per modo i rigori dell’ascetismo inumano che la stessa Chiesa dovette arrendersi; anzi gli ecclesiastici e i Papi diedero l’esempio, aprendo alla bellezza femminile le porte delle chiese e collocandola sugli altari.... Ma qui appunto, secondo Tolstoi, cominciò il male maggiore! E come Girolamo Savonarola si vantava dal pulpito d’aver stracciati i volumi platonici e intimava ai Fiorentini “l’incendio delle vanità„, così il filosofo russo, nel suo singolare ascetismo, impreca alla Chiesa Latina per quel grande impulso di corruzione estetica che venne dato da lei a tutta la Cristianità occidentale.
* * *
Il nuovo libro di Tolstoi è dunque una nuova e più terribile accusa contro l’arte del nostro tempo. Arrivato all’ultima pagina, io mi sono vista sorgere dinanzi alla fantasia una di quelle fiere figure di antichi solitari e di profeti, che dannavano al fuoco una città perchè le abominazioni sue avevano stancata la pazienza di Dio. Anche i giusti dovevano perire per le colpe dei malvagi.
Ma dove sono i giusti per Tolstoi? La sua condanna scende inesorabile su tutto. Ognuna delle forme artistiche in cui lo spirito nostro si compiace, vien dimostrata perniciosa e frivola: il dramma, il melodramma, la lirica, la pittura, il romanzo. Gli artisti, che una specie di consenso generale ha messo fra i grandi e fra i gloriosi, sono condannati e quasi messi a fascio coi guastamestieri. Wagner, Ibsen, Baudelaire stanno accanto a nomi di mediocri e di infimi. Questo per i contemporanei. Quando poi l’autore spazia nel vasto orizzonte della storia, lo vediamo fermarsi con devota ammirazione davanti a Omero, ai Profeti, ai racconti evangelici, a san Francesco d’Assisi; ma in tutto il resto egli è di una disinvoltura che confina con la irriverenza. Certo i nomi grandi e anche grandissimi non lo intimidiscono. I tragici greci, Aristofane, Virgilio, Dante, Shakespeare, Raffaello, Michelangelo, Goethe, Bach, Beethoven, sono degnamente esteti di alta fama e hanno fatto di gran belle cose; ma sul complesso della loro produzione Leone Tolstoi si riserva una grande libertà di giudizio e rigore di scelta.
Astringere molto in poco, egli fa questo calcolo: su diecimila lavori d’ogni genere — poesie, drammi, musiche, statue, quadri — che siamo abituati, noi, hommes de la société, a chiamare opere d’arte, una appena meriterà davvero questo nome!
E vien naturale la domanda: ma che cosa è dunque l’arte per Leone Tolstoi? E che domanda egli da essa? A maggior chiarezza, piuttosto che rispondere subito a queste interrogazioni, vediamo quali sono, secondo lo scrittore russo, le gravi colpe dell’arte contemporanea. Da prima egli osserva che l’arte fra noi costa troppo; e non solo in denaro, ma in ogni maniera di faticosi sforzi e di umiliazioni per la dignità della natura umana. Una sera Tolstoi volle vedere, stando ad osservare sul palco scenico, la prova di una grand’opera musicale sul tipo dell’Affricana o del Fernando Cortes; e uscì di là profondamente impietosito, disgustato, irritato. Quante bestialità, quante sofferenze e miserie in tutti quei comandi accompagnati d’ingiurie e di bestemmie, in tutte quelle cadenze di piedi e movenze di braccia e modulazioni di gole, ripetute automaticamente, senza fine, da una folla di esseri abbrutiti! E tutto questo per mettere insieme un macchinoso spettacolo, che dinanzi alla verità è un non senso, dinanzi all’arte un ibridismo, una fatica e una noia per tutti. L’autore passa poi in esame le altre discipline artistiche e scuopre che ogni prodotto di esse va accompagnato da spese, perditempo, dolori e colpe d’uomini. La così detta opera d’arte che ne vien fuori, al solito, non vale di gran lunga quello che è costata.
* * *
Vediamo adesso quali e quanti sono, secondo il libro, i maggiori peccati nelle opere dell’arte contemporanea. Leone Tolstoi lascia enumerare ad un autore francese2 i caratteri dominanti nelle nuove produzioni, massime letterarie. Essi sono: la lassitude de vivre, le mépris de l’époque présente, le regret d’un autre iemp apercu à travers l’illusion de l’art, le goût du paradoxe, le besoin de se singulariser, une aspiration de raffinés vers la simplicité, l’adoration enfantine du merveilleux, la séduction maladive de la rêverie, l’ébranlement des nerfs, surtout l’appel exaspéré de la sensualité.
Soprattutto dunque la letteratura contemporanea (e le altre arti per consenso) è dominata e potrebbe dirsi tutta impregnata di un enorme spirito di lussuria. Gli scrittori parigini, per la vita che conducono o per le idee che professano, sono tutti, più o meno, malati di erotomania; ed è fra essi una continua gara a chi sa meglio trasmetterla nella fantasia e nel sangue dei lettori. I modi variano. Nei libri dei così detti naturalisti (Zola, De Goncourt e compagni) la erotomania somiglia a una volgare cortigiana che si dà sfacciatamente; in quelli dei così detti simbolisti e nei mistici è anche peggio, poichè si tratta (come nei romanzi del Peladan e del Bourget) di una lussuria più abilmente sofisticata e più sottilmente infusa attraverso un velario ondeggiante di immagini spirituali. Ma il fine massimo dei racconti è sempre uno solo; disporre la trama e i personaggi in modo da giungere, prima o poi, a una scena capitale di lussuria; prepararla bene, farla desiderare e, al momento, spingerla fin dove si può, senza pregiudicare la vendita del romanzo, il quale, si sa, deve entrare in tutte le famiglie oneste. Ecco dunque il “grande affare„ di questi scrittori: esibire, muovere, agitare, scuoprire e denudare con maestria il corpo delle donne, a incremento di desiderio nei maschi. Da ultimo sono venuti anche i romanzieri femministi; e questi si occupano più specialmente delle signore....
Dal suo gran centro di Parigi la scuola si è diffusa e domina in tutto il mondo cristiano, specie in Inghilterra e in America, ove gli allievi oramai non hanno più nulla da imparare.
Alle esposizioni di arti grafiche, trionfa il nudo pornografico; nei teatri padroneggia, inesauribile tema, l’adulterio; la poesia lirica sceglie i motivi che in passato furono proprietà riservata dell’allegra novellistica boccaccesca e rabelesiana, li fa suoi, li innalza di tono, li circonda di pietà e di melanconie sentimentali, canta le mistiche glorie del senso e i divini spasimi della carne.... Oh come è naturale e come è giusto, conclude Tolstoi, che la sana e grande anima popolare viva straniera a tutta questa arte, la quale altro non può destare in lei se non la surprise, le mépris, ou l’indignation!
Questo abbiettamento profondo, per Tolstoi non è che l’ultimo gradino di una scala per la quale l’arte è discesa, movendo da un punto sbagliato: che l’arte avesse per fine di allettare e divertire gli uomini col piacere della bellezza. Principio falso, tratto da un falso ideale della vita, che venne proclamato, in periodo di decadenza, dai dotti di un piccolo popolo semibarbaro (!) il quale fondava lo Stato sulla schiavitù. Questo popolo imitava mirabilmente il corpo umano e innalzava delle fabbriche gradevoli all’occhio. — Dopo diciannove secoli la teoria greca potè ricomparire in mezzo alla Cristianità e vi trionfava scandalosamente, per opera di umanisti e di preti paganeggianti, che egualmente si allontanavano dall’anima del popolo e dalla verità dell’Evangelo. Furono sempre les hommes de la société che guastarono i disegni della natura.
Il primo guasto lo abbiamo già visto; fu l’erotomania, che era già entrata, come un germe morboso, nell’opera d’arte e che doveva, di mano in mano svolgersi e slargarsi e finalmente cuoprire della sua velenosa e immonda fioritura tutta la produzione artistica, come al tempo nostro. Perchè meravigliarsene? Il piacere ha una legge inesorabile e una forza d’invasione a cui nessuna diga può essere contrapposta. Il campo delle idee (nota acutamente il Tolstoi) è inesauribile tanto per la sua immensità che per la sua varietà; e lo spirito umano vi procede sempre a scoperte nuove. Le sensazioni del piacere invece sono numerate dalle nostre condizioni biologiche e presto si fiaccano e si ottundono con l’uso. Una volta quindi che del piacere ci siamo fatta una legge e ci mettiamo sulla sua via, è necessario che noi troviamo, a ogni costo, la novità nella raffinatezza della esibizione e nell’incremento delle dosi. Così comincia la corsa sfrenata e la concorrenza pazza che conduce ad eccessi inevitabili. Ai tempi della decadenza pagana saranno le favole milesie; nel Cinquecento le opere in collaborazione dell’Aretino e di Giulio Romano; al tempo nostro i racconti di Pietro Louys e di Catullo Mendès. Se c’è una differenza, è tutta a nostro danno; poichè presso gli antichi una certa distinzione tra il lecito e l’illecito era ammessa pur sempre, mentre da noi un sofisma immenso ha avviluppati gl’intelletti e ha preso forma di dottrina. Di più i nostri artisti erotomaniaci credono di rappresentare le “condizioni normali„ della società in cui vivono. “Passano la vita ad amplificare le abominazioni sessuali che hanno provate; e sono persuasi che tutti siano colpiti della stessa affezione morbida....„
⁂
Una parte considerevole del libro è dedicata a dimostrare quello che è per Tolstoi il più grande pervertimento dell'arte contemporanea: cioè il suo genio antipopolare; la sua tendenza a rinchiudersi in circoli sempre più ristretti e a occultarsi dietro forme sempre meno facilmente comunicabili. E la così detta aristocrazia dell'arte.
Né anche di questa aristocrazia dobbiamo maravigliarci; poiché essa discende in linea retta dalle false idee che fine dell'arte sia il piacere estetico. Il piacere è per natura sua egoistico e quindi restrittivo. L’egoismo poi si manifesta in più modi. Fuori dell’artista, ossia nelle classi privilegiate e poco numerose, che al poeta, al pittore, al musico chieggono dilettazioni artistiche fatte a posta per loro, senza che vi partecipi la vile moltitudine e, scemandone le rarità, le faccia scemare di pregio. Dentro l’animo dell’artista l’egoismo prende altre forme. Egli si profonda e si dimentica volentieri nelle intimità del proprio artificio; ama di farsene uno spettacolo riservato, una delizia gelosa; e si persuade che, più si allontana per le sottigliezze de’ suoi procedimenti dalla intelligenza comune, più egli si elevi e si glorifichi nell’opera sua.
Ma qui sorge un ostacolo. Compiacersi della propria bellezza come Narciso, va bene, ma non basta. Il fiore della lode ha i suoi profumi attraenti, e vi sono troppi altri motivi che invitano e obbligano l’artista a mettere sé e il proprio lavoro in comunicazione col pubblico.... Egli è da questo contrasto che, a guisa di compromessi, vennero formandosi via via parecchie tra le forme esoteriche del mondo artistico e contemporaneo: i gruppi, le sétte, le chiesuole, i cenacoli, de’ quali i nomi sono così strani e il numero così grande e la vita così effimera. In mezzo a tutto quel brulichio di comparse e di larve si levavano sempre le medesime voci: — “Noi siamo i nuovissimi jerofanti della forma nuovissima! Pochi possono intendere, pochi possono gustare, poiché la grande arte è dono privilegiato! Non gettiamo ai porci le nostre margherite! Lungi i profani!„ — Inutile avvertire che anche in questo campo, secondo Tolstoi, è quasi sempre Parigi che inventa e dà le mosse: l’Europa e l’America si rassegnano a imitare.
Così, fin che le arti si mantennero fedeli al loro ufficio ideale, che è quello di essere un nobilissimo vincolo di fraternità in mezzo agli uomini, tutte le forme artistiche si mantennero in un lucido contatto con la intelligenza e con la coscienza popolare. Da quando invece vennero volte al piacere estetico, la coscienza popolare, che domanda ben altro, si allontanò da esse, perchè più non comprese il loro linguaggio. Ed esse accolte, protette e adulate in mille modi dai ricchi e dai gaudenti del mondo, si diedero a soddisfare ai loro gusti, sempre più usati e stanchi, con procedimenti sempre più artificiali e complicati. Chiusa la limpida fonte delle idee nuove, che stanno nella coscienza universale come un deposito inesauribile, l’arte cessò di essere inventiva e divenne professionale; ossia sostituì al criterio interiore di creare quello tutto esteriore di contraffare. Le vecchie mitologie, i vecchi modelli letterari e artistici, i vecchi pregiudizi e i costumi e i capricci e i tedî delle classi ristrette e cupide di adulazioni e di svago, divennero la materia unica e obbligata dell’arte. Astretti a rimaneggiare di continuo quei loro gloriosi vecchiumi, i poeti per i primi, onde conseguire una qualche apparenza di novità, dovettero appigliarsi ad espedienti meschini, ossia ai furti più o meno abilmente mascherati, allo sfoggio insolente e barocco dell’ornamentazione, al lezioso, all’inaspettato, allo strambo; tutta roba ammannita ai clienti con una legge di progressione fatale e inesorabile.... Finalmente, quando ogni altra salsa parve insipida ai palati ristucchi, si arrivò all’“occultismo„ letterario e artistico.
Stefano Mallarmé, capo dei poeti decadenti, ha posato questo canone: la chiarezza è capitale difetto nella poesia. Che gusto può esserci a sentir dire pane al pane e sole al sole? E che arte è quella che sciorina là un oggetto o un concetto davanti agli occhi dei lettori come fa il merciaio una pezza di drappo sul banco? Questo fu il fatale errore dei poeti Parnassiani. Il sommo dell’arte moderna risiede invece nel porgere le cose avvolte in una squisita ambiguità di immagini e di eufemismi; e in quel lavoro di indagine, in quella perplessità e magari in quello stento che ci vuole ad afferrarle, sta appunto il sapore e il valore della dilettazione estetica, accresciuti dal pensiero che pochi sono gli eletti a dividerlo con noi. Lo stesso dicasi delle qualità ritmiche nel verso e nelle strofe. La metrica dei classici usata fin qui, è troppo regolare, troppo geometrica, e dà all’orecchio troppo facili armonie. Abbisogna anche qui introdurre del nuovo, del ricercato, del recondito, delle strofe, per esempio, per le quali sia necessario adoperare più la vista che l’udito; o dei versi che non paiano versi e che sia necessario accentuare laboriosamente perchè tornino. Se i più non li gustano, buon segno anche questo. Lo stesso Mallarmè ha dichiarato che quando una sua lirica si imbatterà in più che cinquanta lettori che la trovino bella, vorrà dire che non è riuscita.
All’occultismo sistematico della poesia lirica fa concorrenza l’occultismo d’ogni altra forma artistica. Tutta questa arte aristocratica, col suo manto di simbolismo e col suo misticismo ateo, nel dramma, nella musica, nella pittura, non è quasi altro che uno sforzo immane per nascondere la sua grande povertà di potenza inventiva: e Wagner, Brahms, Riccardo Strauss, Boecklin, Burne-Jones, Puvis de Chevannes, Ibsen, Maeterlinck e compagni, hanno tutti una lontana parentela col marchese De Sade!
La malattia è gravissima poichè non viene da cause accidentali, ma è l’effetto di un turbamento profondo e antico. E a peggiorarla s’aggiunge la critica divenuta al tempo nostro una vera maledizione. Secondo Tolstoi, quando comincia a cessare la sincerità dell’arte, la critica entra in campo; anzi i critici si sforzano a sollecitare questa mancanza di sincerità, perchè hanno tutti bisogno di pescare nel torbido. Così si avvera il loro grande sogno egoistico: nel regno dell’arte una moltitudine d’iloti e pochissimi gli eletti. Essi sono naturalmente del numero. Un rapido cenno d’intesa fra di loro: un altro cenno con gli autori; un altro coi compari della galleria; poi giù le grande sentenze e in tondo la frusta e in alto i turibuli! Il sofisma di cui più abilmente si serve la critica ai nostri giorni è questo: più un artista s’incammina verso lo strano e verso il recondito, più s’accosta alle altissime cime dell’arte. Che meraviglia se solo pochi possono seguirlo? Guardate, dice Tolstoi, quale è stato il giuoco della critica verso Puschkin e verso Beethoven. Fin che il primo scriveva versi e novelle, di valore vario ma secondo l’animo suo e perciò vere opere d’arte, la critica lo trattò con freddo sussiego. Si mette a scimiottare lo Shakespeare, a forzare la propria vena, a dare nello strano; e la critica lo leva alle stelle. Il caso di Beethoven è anche più significativo. Dopo aver composto moltissima musica, il grande maestro diventa sordo. La malattia gli limita naturalmente le facoltà musicali, e incomincia a scrivere dei pezzi d’invenzione tutta cerebrale, incompiuti, nebulosi.... Potevano mai i critici nostri lasciarsi scappare una così bella occasione? Eccoli, con Wagner alla testa, levarsi tutti in coro e gridare che proprio d’allora ebbe principio la sublimità di Beethoven!
⁂
Da quanto ho fin qui riferito del nuovo libro di Leone Tolstoi, ognuno può comprendere che accusatore egli sia dell’arto come è generalmente intesa e professata ai nostri giorni. Accusa non tutta nuova certamente. Chi, per esempio, ricorda la Lettre sur les spectacles di Gian Giacomo Rousseau, si avvede che, alla distanza di più di un secolo, i due spiriti solitari s’incontrarono in più d’un argomento, trattando il medesimo soggetto.
Anche alle idee di Max Nordau è impossibile non pensare; e in particolar modo a molti giudizi d’autori e di opere che si trovano nei due volumi di Degenerazione. Ma qui la somiglianza è piuttosto nelle conseguenze pratiche; anzi solamente in queste; poichè lo scrittore russo e l’ungherese muovono da principî profondamente diversi.
A ogni modo accuse gravissime. È curioso notare che, al principio di questo secolo, il conte Giuseppe De Maistre, il filosofo della Santa Alleanza, sentenziava: Le beau est ce qui plaît au patricien éclairé; e di qui si dedusse tutta una teoria intorno all’arte; e tutti, uomini di parte popolare e di parte patrizia, la vollero considerata del pari come una espressione aristocratica della vita. Al chiudersi del secolo, ecco che un altro patrizio, dal cuore della Santa Russia, si leva a predicare tutto il contrario; e anzi sostiene che les hommes de la société, i Papi, i principi, i nobili e in generale la gente istruita e ricca, sono proprio essi che l’arte hanno snaturata e sviata dal suo nobile fine, considerandola per ciò che procura la più grande somma di godimenti ad una categoria limitata d’uomini. La grande umanità sta fuori dall’arte nostra; o non la capisce o la disprezza.
Un intero capitolo del libro è dedicato ad un rapido esame delle dottrine degli studiosi sull’essenza e sul fine dell’arte. La rassegna va dai Greci al Baumgarten e da questo a Carlo Darwin, allo Spencer, al Kerd, al Knight, agli ultissimi filosofi, sociologi ed esteti. L’autore non si mostra punto edificato di tante definizioni, confusioni, contraddizioni. E, lo dico di passaggio, nemmeno io per verità. Ma c’è forse da meravigliarne? Ripeta egli il medesimo processo a qualunque idea categorica: Dio, il tempo, lo spazio, l’amore, il bene, il riso, il dolore, ecc. Vedrà che, ogni volta che gli uomini tentano di avvicinarsi molto a quello che Galileo Galilei chiamava le essenze oscure e si cimentano a definirle, il trovare due soli cervelli che proprio si accordino, è tutt’altro che facile....
Leone Tolstoi non ha certo paura di dire tutto il suo pensiero: egli domanda semplicemente a tutti gli uomini, che hanno proposito di bene, di adoperarsi con lui alla soppressione dell’arte moderna come il male più terribile dell’umanità.
Chi crederà che questo terribile nichilista possa ritrovare qualche cosa di lodevole nella produzione artistica del nostro tempo? Eppure ne trova. Anche la Pentapoli ebbe qualche giusto. Mentre partecipa al sentimento di quel povero diavolo che venne a trovarlo a piedi da Saratov, e poi proseguì mendicando fino a Mosca, sempre domandando: — Perchè innalzano una statua al signor Puschkine? — Tolstoi riconosce che parecchi nostri artisti si elevano sulla comune viltà professionale e lavorano al caldo raggio dell’arto buona e vera, a cui preparano un lento ma sicuro trionfo nell’avvenire. Fra i pittori cita Bastien Lepage, Giulio Breton, Millet, Lhermitte, ecc.; fra gli scrittori Dickens, Vittor Ugo, Dostojevsky.
Ma infine che cosa domanda il Tolstoi agli artisti e all’arte per non meritare l’universale condanna? All’artista, oltre la potenza di creare, egli domanda che sia al livello della concezione più alta della vita del suo tempo; — all’arte, che tutte le opere sue sieno sempre la espressione abile e sincera di sentimenti rivolti ad unire e a migliorare gli uomini. Egli vuole che nella società moderna e cristiana l’arte cessi d’essere mediatrice e mezzana del piacere; e sia degna di chiamarsi moderna e torni ad essere cristiana. Vuole quindi abolita quella grande eresia che è l’arte per l’arte; e perchè non gli si rimproveri di mancare di logica, vuole abolire anche quell’altra grande eresia che è la scienza per la scienza. Ogni attività umana deve essere legittima e nobilitata da un alto fine sociale.
Questa la sostanza e il fine del libro che Leone Tolstoi dice di avere meditato e lavorato per quindici anni. Un libro serio e sintomatico al più alto grado, e che, piaccia o non piaccia, si impone all’esame. Ma avendo io avuto appena il tempo di riassumerlo, sono obbligato a rimettere l’esame a miglior tempo, se non dispiacerà ai lettori della Nuova Antologia. E mi lusingo che non tornerà inopportuno un confronto tra quello che afferma oggi il Tolstoi con le idee che furono espresse sullo stesso argomento, circa settant’anni fa, da un grande italiano, Alessandro Manzoni.
II.
Manzoni e Tolstoi nell’idea morale dell’arto.
L’unione di questi due nomi, che, a primo tratto; può parere arbitraria e anche bizzarra, ha invece, io credo, la sua ragion d’essere in paralleli curiosi e in analogie profonde. I due uomini stanno veramente a così gran distanza l’uno dall’altro e tanto si diversificano in molti aspetti della vita reale e spirituale, da formare un vero contrapposto. Eppure tra il latino e lo slavo, tra il solitario di Brusuglio e il romito di Isnaia-Poljana, corrono, a guardarli attento, come dei cenni di intelligenza e di consenso; e in certi momenti direste che le due grandi figure (sempre così diverse di tipo e di contegno) si avvicinino e si tendano la mano. Si tratta insomma di una di quelle somiglianze, che è facile esagerare trascorrendo nell’assurdo e nel ridicolo, ma che non sono per questo meno vere; e che anzi sono, per quello stesso pericolo, tanto più degne d’essere studiate.
Basterebbe, a convincersene, considerare la risoluta franchezza con la quale tanto il Manzoni che il Tolstoi mutarono completamente d’avviso intorno alla loro vita e alle loro dottrine, ogni volta che vi furono indotti o dal sentimento o dalla ragione, e nessuno dei due mostrò di badare agli effetti pratici e personali del proprio mutamento.
Il Manzoni si mutò di incredulo in cattolico fervente, di classico in romantico indipendente. Poco sappiamo in particolare della sua conversione religiosa; e ignoriamo se e come affrontasse fiere battaglie di spirito o andasse incontro per essa a rinuncie gravi; ma che non fosse uomo da sbigottirsene potremo, io credo, argomentarlo con bastante sicurezza anche osservando il modo con cui egli accettò tutte le conseguenze della sua conversione letteraria. Quando, in appresso, ebbe raggiunta la sua grande fama coi Promessi Sposi e fu questione per lui ben più seria che di sconfessare canoni pseudo-aristotelici e ripudiare poemetti giovanili (per quanto questi ultimi a lui fossero caramente diletti nel ricordo delle prime vittorie), noi troviamo sempre lo stesso uomo risoluto e tranquillo nel seguire i precetti della propria ragione. Censore infaticabile di sè stesso, egli da prima si convince d’avere, scrivendo il romanzo, errato nel criterio della lingua; e subito mette mano a rifare il romanzo e a professare la sua nuova dottrina della lingua. Si pone quindi ad esaminare il romanzo storico; e rinvenuto in quella mescolanza di invenzione e di verità un principio dissolvente e un motivo di biasimo, non esita a prendere il suo partito e pronuncia una condanna che ferisce in pieno petto il più insigne documento della sua anima d’artista, la parte più preziosa del suo viatico verso la posterità e la gloria.
Un biografo di Manzoni ci ha lasciato un toccante ricordo dell’ultimo tempo della sua vita. Il venerando uomo, avvertiti gli effetti disastrosi che la tarda età andava producendo nelle sue facoltà percettive, volle riassumerli in questo distico:
Bocca, naso, occhi, orecchi e, ahimè!, pensiero,
Non ho più nulla che mi dica il vero.
Un ricordo toccante ho detto; e avrei anche potuto dirlo ricordo lugubre, quasi tragico. Non è forse a noi argomento d’infinita pietà questo sorprendere un uomo, che per tutta una lunga esistenza aveva saputo scrutare con sì forte acume i segreti dello spirito e che aveva osservato con penetrazione così sottile la grande scena dal mondo, sorprenderlo dico, mentre egli assiste al tramontare, allo spegnersi della sua intellettualità, rimanendogliene però sempre abbastanza per avvertire il fatto, descriverlo e quasi scherzarvi sopra con rassegnazione malinconica?
Eppure io mi compiaccio molto che quell’umile documento dello spirito senile di Alessandro Manzoni non sia rimasto sconosciuto. Mi pare che quei due versi non suonino male nella pia sera della sua grande giornata; poichè ce lo presentano fino all’ultimo quale egli fu veramente in tutta la vita: osservatore rigido e vigilante d’ogni suo atto e pronto sempre a giudicare sè stesso con una illimitata e quasi eroica sincerità.
Non c’è bisogno di un lungo esame per vedere la grande somiglianza che, sotto questo aspetto, ha con la vita del Manzoni quella di Leone Tolstoi. Anche s’egli non si fosse incaricato d’informarcene distesamente in un libro basterebbe confrontare i suoi primi romanzi con la Sonata a Kreuzer; e pensare come viveva quarant’anni fa e come vive oggi lo scrittore moscovita, per misurare d’un tratto la immensa trasformazione avvenuta in lui e da lui voluta.
Al Manzoni come al Tolstoi vennero mosse le facili accuse di incoerenza. Ma chi potrebbe (e questo è l’essenziale) accusarli di bassi calcoli o di leggerezza? E che è mai il passare e il succedersi di opinioni nel cervello di singoli uomini, di fronte alla non mai terminata conquista del vero e del bene? Noi saremmo ancora nel più fitto dell’ignoranza e nella ferocia primitiva, se gli uomini migliori, a un certo momento della loro vita, non avessero cambiato di idee e di propositi. Una cosa certo dispiace; ed è vedere tanti sciocchi, tanti furbi e tanti farabutti ripararsi dietro quei nobili esempi. Ma v’è anche modo di consolarsi pensando che, fatti i conti, ogni uomo rimane poi sempre col proprio valore!
* * *
È evidente che Manzoni e Tolstoi si assomigliano nell’avere delle lettere, e dell’arte in genere, un concetto alto e austero e nell’attribuire ad essa un grande ufficio educativo e sociale. Il Manzoni spiegò per tempo la sua bandiera. “Tutto ciò che ha relazione con l’arte della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli atti degli uomini, è legato di sua natura a oggetti gravissimi”3.
Veramente questa, a quel tempo, era una massima comune. L’Alfieri e il Parini avevano infuso nelle lettere un forte spirito di educazione morale e civile; il Foscolo dalla cattedra di Pavia aveva parlato un linguaggio somigliante. Se vi erano dissensi, questi potevano toccar solo il modo di intendere e di applicare la massima. Gli stessi difensori dell’uso della mitologia pagana, con a capo Vincenzo Monti, adducevano le alte moralità rinchiuse nei vecchi miti e rese più insinuanti attraverso i veli della finzione poetica. Questo, su per giù, era anche il sentimento di Giacomo Leopardi, confidato a parecchi dei suoi canti ed espresso di frequente nei Dialoghi, nei Pensieri, nell’Epistolario e dovunque egli insiste sulla necessità di certe umane illusioni. Chi allora avesse affermato il contrario, non avrebbe potuto difendersi dalla taccia di pazzo o almeno di stravagante.
Ma il Manzoni mirava a un effetto più esteso, movendo da una idea più fondamentale. Egli voleva far trionfare un principio che cominciava già ad essere accetto ai giovani; un principio, che fuori d’Italia scrittori di grande autorità, come la Stael, i fratelli Schegel, il Chateaubriand, avevano già gridato alto, e che in Italia parecchi valorosi amici suoi, come l’Hermes Visconti, il Berchet, il Pellico, cominciavano ad accogliere e a divulgare. Ad Alessandro Manzoni dispiaceva che questo principio andasse sotto il nome di Romanticismo, parola, a suo gusto, antipatica e piena di equivoci. A ogni modo, il romanticismo esprimeva per lui un movimento serio e salutare, a patto che si dissipassero le fantasie paurose e bizzarre di cui l’avevano circondato, e cessassero d’essere materia sua costante certi vani pettegolezzi di scuola; a patto infine che la disputa non si fermasse alle tre unità classiche e alla mitologia, anzi non si fermasse alla pura forma letteraria.
Discorrendone col marchese Cesare D’Azeglio nel 1823, il Manzoni esprime tutta la sua viva compiacenza perchè le nuove idee si diffondevano non solo ai diversi modi di poesia, ma occupavano di mano in mano tutte le teorie dell’estetica.4 Era dunque un pieno e universale rinnovamento dell’arte quello che egli aveva concepito e domandava e aspettava, come la unica razionale conseguenza del moto romantico.
Gli intendimenti del Manzoni appaiono con forma anche più viva dalle lettere che egli scrisse al Fauriel tra il 1807 e il 1823, in quello che fu veramente il periodo della sua grande creazione artistica, perchè vi compose gli Inni sacri, le Tragedie, il Romanzo; e perchè è anche rinchiusa in esso la sua conversione religiosa.
Montesquieu aveva scritto: “Se non fossi cristiano, vorrei essere stoico„. Manzoni dopo aver professato una specie di stoicismo moderno col Fauriel, con Giorgio Cabanis e con Madame Condorcet, volle, prima d’uscire dalla giovinezza, rendersi cristiano. Ebbe per catechista l’abate Degola, che a Roma, non a torto, avevano in opinione di giansenista; ed ebbe per compagna, forse per ispiratrice di conversione, la moglie Enrichetta Blondel, che era nata e cresciuta nella fiera dogmatica di Calvino.
Per quanto la tradizionale bonomia lombarda e la vivacità ironica e l’indole critica dell’ingegno dovessero temperare in lui tutta quella austerità religiosa, è fuor di dubbio che essa sempre lo signoreggiò e lo diresse nella vita: e quindi anche nell’arte. A tacere degl’Inni sacri, che si vollero considerare quasi un corollario immediato della sua conversione, in ogni componimento a cui il Manzoni volge l’animo è impossibile non riconoscere subito il preconcetto di un’alta finalità etica e religiosa. Anche quando non teorizza su questo punto, lo dà per supposto. Ha egli bisogno un galantuomo di professare ogni momento la sua onestà? E uno scrittore deve essere galantuomo due volte: come uomo e come scrittore. Inseparabili quindi nella scelta di un soggetto le sue qualità prettamente artistiche dalla dignità e dalla utilità spirituale. L’argomento d’una tragedia non è buono solo perchè gli dà materia a vestire di bei versi e a mettere sulla scena un contrasto di caratteri e di passioni commoventi. Questo potè bastare, forse, a Guglielmo Shakespeare; a Manzoni non bastò. Vedete per che motivi lo fermano e lo innamorano, fra tante, le figure del Carmagnola e dell’Adelchi. Egli ha prima scoperti e studiati tutti gli elementi che abbisognano per far sì che splenda intorno a quelle due figure una grande moralità storica, civile e patriottica, che il poeta esprimerà poi liricamente nelle strofe del Coro. E quando la voce del Coro tacerà e il nodo tragico sarà sciolto, il poeta muterassi in narratore e continuerà ad illustrare e a diffondere quella moralità con altra forma e altri argomenti.
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E il Manzoni va anche più oltre. Non si contenta di questa, che potremmo chiamare una buona fratellanza del principio estetico col principio etico. Egli spinge questa fratellanza agli ultimi limiti di una perfetta intimità; anzi, a parlar più preciso, non dubita di condizionare e sottomettere il primo al secondo. Tra le sue mani una questione letteraria si riduce sempre ai minimi termini di un vero caso di coscienza. — Perchè debbono i poeti proscrivere l’uso della mitologia pagana? I perchè sono molti e il Manzoni non tralascia di enumerarli, deducendoli da quelli che egli crede i buoni canoni della poetica moderna. Poi soggiunge, scrivendone al D’Azeglio: “Ma la ragione, per la quale io credo detestabile l’uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla, non la direi certamente a chiunque, per non provocare delle risa.... Tale ragione per me è, che l’uso della favola è idolatria5„. E passa a dimostrarlo. Lo stesso accade nel giudizio che egli reca sul romanzo storico. Sotto quell’acervo mirabilmente ingegnoso e sottile di osservazioni e di esempi onde sono formate le due parti del Discorso, che cosa troviamo in sostanza? Che, stando al convincimento del Manzoni, l’invenzione e la storia, con cui si vuol comporre e fondere il romanzo, riescono a formare un’unità solo “verbale e apparente„, mentre ben diversa era la promessa fatta al lettore; onde il suo spirito s’inquieta e la sua mente è tratta in inganno6. E non bisogna mai ingannare nessuno! Eccoci dunque a un altro caso di coscienza e a un altro precetto del Decalogo.
Che nel sottomettere le invenzioni della letteratura e dell’arte in genere alle strette discipline di un principio morale e religioso, il pensiero del Manzoni e quello del Tolstoi s’incontrino e sostanzialmente si identifichino, mi pare cosa tanto chiara da non avere bisogno di altra dimostrazione. Chi lo credesse necessario, potrebbe con facilità mettere a confronto ragionamenti e sentenze tratte dall’uno e dall’altro. Ma ciò che meglio persuade è il considerare, in complesso, le loro fisonomie di scrittori e cogliere, per così dire, il sentimento profondo e continuo da cui quelle loro fisonomie sono animate. Inutile quasi aggiungere che, parlando del Tolstoi, io intendo specialmente alludere ai suoi ultimi libri; e che affermando la loro somigliante orientazione nel mondo dell’arte, non dimentico le molte dissomiglianze d’indole e di idee, massime religiose e sociali, che intercedono fra i due.
E anche ai tempi diversi bisogna guardare. Quando il Manzoni scriveva e polemizzava intorno all’ufficio delle lettere, certe teorie o non erano nate o non avevano ancora autorità e seguito; onde non ebbe bisogno di scaldarsi e d’inveire (se pur l’animo suo l’avesse comportato) contro dei nemici lontani e ancora invisibili. Il Tolstoi invece, arrivato quando, dalla letteratura del Trenta in poi, tanti cattivi germi avevano avuto campo di svilupparsi, trovò tutta l’Europa già inondata dai peggiori prodotti dell’arte francese mercantile e pornografica; e sentì gridare sui tetti le più strambe teorie e celebrare per grandi e per sommi certi poeti, romanzieri, autori drammatici e musicisti, che a lui parevano la negazione dell’arte seria, sana e benefica. Aggiungansi la sua originale professione di mistico, il suo fervore d’apostolo, i suoi istinti di lottatore agguerrito. Così il suo ultimo libro sull’arte rimarrà meglio spiegato; e meglio sarà inteso il modo con cui ha posto certe questioni, la preferenza che ha dato ad alcune di esse, le grandi verità che ha saputo dire, le esagerazioni e le violenze da cui non ha potuto astenersi.
E sopratutto non dobbiamo mai scordarci che Leone Tolstoi è uno slavo; anzi che egli, come uomo e come scrittore, è uno degli spiriti meglio rappresentativi di ciò che la razza slava può avere di conforme e disforme da noi. Quanto a me (scriveva di lui lo Zola), col mio cervello latino, non posso comprendere quelle speculazioni metafisiche. Ora se tale incomunicabilità dell’ingegno latino e dell’ingegno slavo, affermata in senso così assoluto, è una esagerazione, non può negarsi nemmeno che tal volta dinanzi ai giudizi e ai sentimenti e alle configurazioni fantastiche di quei bravi iperborei, noi ci sentiamo attratti insieme e respinti, come dinanzi a delle grandi porte, socchiuse ma impenetrabili.
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Quando vediamo che due forti intelletti si accordano sovra una tesi d’importanza capitale, collegata a un sistema generale di speculazioni, noi possiamo indurne con molta probabilità che la loro concordanza dovrà, più o meno, estendersi a tutto il sistema.
E questo parmi il caso di Manzoni e di Tolstoi nella tesi dell’amore, quale argomento di rappresentazioni artistiche. Quando il Bonghi, commemorando il Manzoni alla Biblioteca di Brera, ebbe fatto conoscere alcuni passi inediti tolti dal manoscritto dei Promessi Sposi, ove l’autore espone così argutamente le sue idee in proposito, lo stupore fu grande e i pareri molti; ma l’idea era troppo chiaramente espressa per ammettere dubbi e interpretazioni diverse. Confessa il Manzoni che nella prima formazione del suo romanzo abbondavano le vive descrizioni di scene d’amore fra i due promessi; e che anzi n’erano “la parte più studiata„. Ma nel trascriverlo e nel rifarlo, egli si decise ad escludere tutto ciò, riducendo il racconto dell’amore di Renzo e Lucia all’attuale sobrietà e freddezza e castità di forme, che parve a molti eccessiva. Il Settembrini, infatti, domandava stizzito di che colore fossero gli occhi di Lucia. E se tanta era la ritenutezza del romanziere nel descrivere un amore “che doveva essere comandato e chiamarsi santo„, immaginarsi tutte le sue cautele a proposito della tresca fra Egidio e la Monaca! Per verità, quella figura di Geltrude, così bella, così misteriosa, così degna di tanta pietà anche nella colpa, deve avere lungamente, pericolosamente assediata e quasi sedotta la fantasia dell’autore. Lo si capisce dalla pagina calda e quasi fremente con cui ce la descrive al suo primo entrare nel romanzo, dietro la ferriata del parlatorio. Dunque in guardia, don Alessandro! E nel primo e anche nel secondo manoscritto del romanzo (quello che si conserva alla Braidense) fu levata via con mano rigorosa ogni descrizione che potesse contenere il più piccolo allettamento erotico, salvo, forse, la descrizione della sfiorita ma sempre attraente bellezza della suora; e tutto il seguito della sacrilega avventura tra essa e il libertino, venne troncata di botto con la celebre frase: “la sventurata rispose„.
Di questo suo inesorabile procedere il Manzoni espone molto nettamente il motivo. “Io sono di quelli che dicono che non si deve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione.... Concludo che l’amore è necessario a questo mondo; ma ve n’ha quanto basta e non fa mestieri che altri si dia la briga di coltivarlo; e che col coltivarlo non si fa altro che farlo nascere dove non fa bisogno. Vi hanno altri sentimenti dei quali il mondo ha bisogno e che uno scrittore, secondo le sue forze, può diffondere un po’ più negli animi,... ma dell’amore ve n’ha, facendo un calcolo moderato, seicento volte più di quello che sia necessario alla conservazione della nostra riverita specie. Io stimo dunque imprudente andarlo fomentando cogli scritti; e ne son tanto persuaso che se un bel giorno, per prodigio, mi venissero inspirate le pagine più eloquenti d’amore che un uomo abbia mai scritte, non piglierei la penna per metterne una linea sulla carta, tanto son certo che mi pentirei„.
Antonio Fogazzaro osserva a ragione7 che, con tale sentimento Alessandro Manzoni non avrebbe voluto essere l’autore del quinto Canto dell’Inferno; nè forse (aggiungo io) aver dipinti gli occhi della Madonna di San Sisto.
Quale sia la metafisica attualmente preferita da Leone Tolstoi intorno all’amore, io non starò qui ad esporre; nè indagherò come egli intenda ed applichi un famoso passo del Vangelo di san Matteo, che egli ha messo in fronte al suo ultimo romanzo. E fuori di dubbio che egli professa, in fatto d’amore, una opinione di pessimismo che può ben dirsi ultra-schopenauriano. Nè certo le conseguenze lo sbigottiscono. Quando il protagonista del tristissimo racconto La Sonata a Kreuzer è arrivato a un certo punto nello svolgimento della teoria tolstoiana sulle relazioni sessuali fra i coniugi, il suo interlocutore si crede in dovere di interromperlo: — Ma voi così spegnerete il genere umano! — E l’altro risponde senza scomporsi: — E che bisogno c’è che il genere umano continui? — Il Manzoni, che ammette invece essere l’amore necessario a questo mondo, pure pensando che ce ne sia tanto più del bisogno, è dunque un moderato e quasi un timido nella sua dottrina, a petto del romanziere moscovita. Ma l’importante da notare qui è questo: che i due consentono perfettamente nell’idea di proscrivere dall’opera d’arte ogni rappresentazione d’amore che “faccia consentire l’animo a questa passione„.
Il Manzoni è convinto che il peccato d’amore (per un carattere tutto suo particolare collegato alle condizioni della nostra sensibilità) tragga un grande impulso dalla viva evocazione, in genere, delle immagini amorose; quindi o le esclude del tutto, applicando il nec nominetur di san Paolo, le vuol ridotte a proporzioni minime e a forme castigatissime. Il Tolstoi, logico anch’egli, va ben più oltre; e vagheggia e invoca una letteratura la quale includa bensì l’amore, ma solo per insinuare contro di lui il disgusto e l’abborrimento degli uomini. Per questo, fra i romanzieri francesi contemporanei, Tolstoi salva e cuopre della sua simpatia il Guy de Maupassant. Ed è curioso vedere come lo giudica. Anch’egli il povero autore di Bel-Ami, come Dumas, come Zola e tutti gli altri, è inquinato di erotomania dai capelli alla punta dei piedi; ma dal fondo stesso del proprio abisso egli ha saputo trarre un principio di salvezza. “Non havvi forse uno scrittore che sia stato così sinceramente persuaso come Maupassant, che tutta la felicità, che persino il senso della vita risiede nella donna, nell’amore, e che abbia descritto con tanta forza di passione, la donna e il suo amore sotto tutti gli aspetti. E non vi fu mai, forse, uno scrittore che abbia mostrato, con una chiarezza e una precisione incomparabili, tutti i lati umili di questo fenomeno che gli sembrava il mezzo più elevato per ottenere la maggior felicità possibile della vita. Quanto più egli ne approfondiva lo studio, tanto più questo fenomeno si spogliava di ogni velo ai suoi occhi e non ne rimanevano più che le conseguenze terribili„. E accaduto insomma a Guy de Maupassant come al profeta Balaam; ma in senso inverso: “Egli voleva esaltare l’amore, ma quanto più lo conobbe, tanto più lo maledì„8. E da tutta l’opera sua pare che prorompa l’amara imprecazione di quell’altro grande lussurioso che fu Alfredo De Musset:
Amour, fléau du monde, execrable folie,
Toi qu’un lien si fréle à la volupté lie,
Quand par tant d’autres nœuds tu tiens à la douleur!..9.
Contro dunque le stesse sue intenzioni, il Maupassant c’insegna co’ suoi libri a fuggire le donne e a detestare il sentimento d’amore che vorrebbero inspirarci. E questo sarà notato a grande merito suo, nella giornata del giudizio finale!
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In un altro punto i due scrittori s’incontrano; ed è il valore relativo e subordinato che essi dànno, nell’opere d’arte, all’elemento della bellezza.
È degno di nota che Manzoni non pensa neppure a nominarla quando esprime le qualità capitali che dee avere un lavoro artistico, perchè corrisponda al suo debito ufficio. Vuole che abbia “il vero per soggetto, l’utile per fine, l’insinuante per mezzo„. Sembra indubitato che a quella virtù d’insinuarsi negli animi, debba concorrere la bellezza; ma non è detto in quale misura; e appare escluso, anche per questa significante preterizione, che essa vi domini sovrana.
Quanto al Tolstoi, abbiamo visto nell’articolo precedente che, per lui, la grande eresia estetica consiste appunto in questo dominio; ossia nell’aver posto come fine supremo dell’opera d’arte la contemplazione dilettosa del bello. Tutti i traviamenti e tutte le corruttele sono derivate da questa fonte. La civiltà del genere umano, che nella letteratura e nella cultura artistica avrebbe dovuto trovare un sì potente aiuto, vi ha invece trovato un inciampo e un impulso funesto. I Greci diedero il cattivo esempio, i Latini lo seguirono, il Rinascimento italiano ne rimase tutto inquinato; e oggi la società d’Europa e d’America vede tutti i suoi vizi più abominevoli fomentati, abbelliti e quasi deificati nei canti dei poeti, nelle descrizioni dei novellieri, nei quadri e nelle statue, nei drammi, nelle commedie, nelle opere in musica. E quale meraviglia? Il piacere ha una logica inesorabile; e per quanto sieno scelte, peregrine e delicate le sue prime forme, una volta che esso è posto nelle cose della vita come fine, con la forza di quella logica esso tirerà a sè i sensi dell’uomo giù per tutti i gradi della cecità e del peccato.
E non sperate di mitigare la condanna del Tolstoi, parlandogli di una categoria di bellezza artistica superiore, dalla quale non dovrebbero piovere che influssi salutari, ispirazioni nobili, affetti casti. Egli respinge ogni distinzione che possa aver l’aria di una concessione, perchè pensa che il male risiede nella falsità del principio estetico. Quindi una grande solidarietà di colpa involge nel suo giudizio opere e autori di epoche lontane e di culture diverse; nè troppo noi dobbiamo stupirci quando lo vediamo comprendere nella sua fiera condanna, parziale o totale, artisti grandissimi e di genio austero, non salvando nemmeno Dante, Michelangelo, Beethoven.... Che ne sappiamo noi? Quel San Giovannino di fra’ Bartolomeo della Porta, che, stando al Vasari, i frati del convento di San Marco dovettero levar via dall’altare perchè induceva in tentazione le donne di Firenze, forse non era che un discendente legittimo, in linea d’arte, da Giotto e da Taddeo Gaddi, che troppo avevano cercata, per sè medesima, la bellezza della figura umana; forse le rime licenziose del Parny e del Casti non furono altro che una lontana ma naturale derivazione dell’“amoroso foco„ che arse nella lirica dei castelli di Provenza e del Trecento italiano.... Io ho paura che Leone Tolstoi sia loico come il diavolo.
Ma insomma che vuole egli? Che dobbiamo fare? Dovremo noi, per contentare questo terribile russo, ritornare le arti al mistero del medio evo e alle iconi della Chiesa moscovita?
Questo terribile russo, per verità, non bandisce la bellezza dall’opera d’arte. L’ama invece e la vuole. Solamente egli chiede che essa non venga più considerata come una suprema entità e fine a sè stessa, secondo che pensano gli esteti contemporanei, i quali ne hanno fatto una idea idolatra, quindi inorganica e incivile. Pretende che essa trovi la sua forza e la sua gloria in una doverosa servitù, ossia che vada sempre subordinata e coordinata al trionfo del bene morale. E siccome poi Tolstoi non comprende la moralità disgiunta dal cristianesimo, anzi non v’ha per lui altra morale fuori della cristiana10, così egli domanda che l’arte si faccia cristiana per davvero, nella sostanza e nella forma. È innegabile che, posto il principio, tante applicazioni e affermazioni del Tolstoi nell’argomento perdono molto della loro singolarità e anche della loro audacia. Potranno parere eccessive e lo sono anche, ma non mancano di costrutto logico.
L’arte dunque, egli dice, deve essere evangelicamente demofila. “Il concetto cristiano consiste nell’essere tutti gli uomini figli di Dio: deve dunque esistere un’unione fra loro e con Dio, comò dice il Vangelo (S. Giovanni, XVII, 21). Gli è per ciò che i sentimenti che giovano all’unione degli uomini con Dio e fra di loro devono essere il fondo dell’arte cristiana.... L’arte per sè stessa ha il pregio d’unire gli uomini. Essa unisce coloro che sono impressionati dal sentimento dell’artista, anzitutto a questi, e poi a tutti gli uomini che subirono la stessa impressione. L’arte non cristiana che riunisce una sola categoria d’uomini, la separa, per ciò stesso, da tutte le altre; questa unione parziale produce dunque non solo la disunione, ma anche l’animosità.... L’arte cristiana, detta altrimenti l’arte dell’epoca nostra, dev’esser cattolica nel senso proprio di questa parola: universale, e, di conseguenza, deve unire tutti gli uomini„.
A questo modo un improvviso lume par che rischiari tutto il sistema estetico di Leone Tolstoi; e un criterio molto semplice di classificazione e di valutazione ci soccorre nel qualificare, alla sua maniera, le opere dell’ingegno artistico. E così anche si spiegano certe sue esaltazioni e certe sue condanne di autori, le quali formano veramente la parte più inaspettata e più ostica del suo nuovo libro. Quando egli si trova al cospetto di un poema, di un quadro, di un dramma, di un romanzo, prima di giudicarli ne’ loro pregi estetici, subito si domanda se l’opera corrisponda al grave fine per cui tutte le opere dovrebbero essere fatte; se cioè per la somma delle idee, dei sentimenti, delle simpatie, delle suggestioni (per dire la parola in uso) che no vien fuori, essa si accordi col principio cristiano, sociale e umanitario, oppure se vi contradica; in altri termini, usando ancora la frase del Manzoni, se essa induca gli uomini a consentire a quel principio oppure ad allontanarsi da esso. Con tale pietra del paragone fra le mani, il Tolstoi giudica, assolve e condanna senza esitare. Per questo egli accetta e ama fra i pittori Millet, Berton, Lhermitte, non accetta e non ama Delacroix, Vernet, Makart e Burne Jones; accetta e ama fra i romanzieri Victor Hugo, Dumas padre, Dickens, Gogol, Dostojewski, Giorgio Elliot, e perfino Guy de Maupassant; non accetta e non ama Balzac, Zola, Flaubert, De Goncourt, Paolo Bourget.
In sostanza, che v’ha egli di veramente nuovo in tutto questo? Non ha avuto forse l’arte, in tutti i tempi di civiltà, due ben distinte categorie di giudici, cioè fuori dentro il principio etico e religioso? Non ci ricordiamo più che l’idea di Stato suggerì al divino Platone giudizi così aspri intorno al divino Omero? Se poi ci piacciono esempi meno lontani, non abbiamo che a ricordarci che lo stesso metodo giudicativo fu, mutatis mutandis, già adottato dal Bousset, dall’Arnaud, dal Pascal e da tutti gli scrittori appartenenti, in Francia e fuori, a quel periodo che fu detto del rigore giansenista, e che alle manifestazioni dell’arte faceva un viso così diffidente e così austero. Di quel rigore giansenista il nostro Manzoni, il buon allievo dell’abate Degola, fu, io credo, artisticamente parlando, un mitigato ma logico seguitatore; e oggi, nella massima fondamentale, lo troviamo d’accordo con Leone Tolstoi, il quale, alla sua volta, ci fa tornare con la mente alle idee di Gian Giacomo Rousseau.
* * *
Ma se il libro di Tolstoi, a guardarlo nella sua essenza, è tutt’altro che un seguito di affermazioni strambe e di teorie incoerenti e barbariche, come a qualche giornalista piacque, con la solita autorità, di definirlo, questo non vuole già dire che esso risolva il problema in modo del tutto soddisfacente. Dirò qui molto brevemente la mia opinione. Questa dell’ufficio e del fine dell’arte, è questione che troppo agevolmente si presta alle esagerazioni ed agli equivoci; troppo di frequente si mescolano ad essa elementi eterogenei, e abiti e gusti viziosi, e simpatie e antipatie interessate. Aggiungete che i criteri teologici, ossia quelli che concernono i fini delle cose, sono sempre difficilissimi ad essere adoperati con accorgimento e con perfetta misura.
E una mancanza appunto di misura io veggo nella dottrina del Tolstoi, come in quella del Manzoni, come in tutti coloro che dinanzi a ogni nuova creazione di poeta e d’altro artista piglino subito un atteggiamento da censore di classe e le domandano: — Che cosa provi tu? Che effetto produci tu tra gli uomini? Sei tu venuto per accrescere o per diminuire la dose della loro moralità? — Questa casuistica trita e minuta, tirata ogni momento nel campo dell’arte, a me è parsa sempre uggiosa e incomoda come tutto quello che è fuori di posto. E penso che la risposta migliore sarebbe sempre quella della fioraia di Corinto allo stoico indiscreto: — I fiori sono belli e odorano.
L’antico buon senso dei popoli civili ha sempre distinto due categorie di atti umani: quelli obbligatori e quelli leciti. A questi secondi non ha fatto mai torto l’essere niente più che dilettevoli; e non si è mai preteso di dedurre per questo che fine ultimo o massimo della vita fosse il piacere. Ora, se vi ha gente che in questa regione del puro dilettevole abbia diritto di muoversi e anche di vagabondare con una certa onesta libertà, senza troppo inquietarsi d’altro, io dico che sono i poeti e gli artisti.
Affermare che il piacere soggettivo generato dalla bellezza sia fine d’un’opera artistica, è proprio una così grande eresia? Il Tolstoi non ne dubita. — Tanto varrebbe, egli dice, affermare che fine dell’alimentazione sia il piacere del palato. — E perchè no? domando io. Non sarà il fine unico e assoluto, ma che sia anch’esso un fine ragionevole nessuno potrebbe negarlo; tanto è vero che un celebre fisiologo disse argutamente potersi definire l’uomo un animale che mangia anche senza lo stimolo della fame. E nemmeno si dovrebbe negare che la bellezza possa contenere, in sè stessa e per sè stessa, una salutare potenza di elevamento e di purificazione umana, quando davvero un’arte “alta, gentile e pura„ la faccia splendere dinanzi ai nostri occhi. Onde bellezza educatrice non esitò a dire Niccolò Tommaseo; e molto prima di lui Marco Tullio potò delineare un bellissimo quadro in cui le umane lettere, liberamente professate, conferiscono insieme alla felicità e alla nobiltà della vita.11
“Quando l’arte non divertirà più, essa non corromperà più, assorbendo a questo scopo le forze migliori....„ Questo afferma con la sua solita audacia il Tolstoi. Ma ha egli ben pensato anche a tutte le “migliori forze„ che l’arte perderà quando venisse il giorno, da lui invocato, in cui essa non fosse più nè amabile, nè divertente? Crede egli che l’alimentazione umana si avvantaggerebbe il giorno in cui i cibi cessassero di essere gustosi al nostro palato?
Però, a malgrado della nota esagerata e violenta che vi domina, non dubito di ripetere quello che dissi nel mio primo articolo: quest’ultimo di Leone Tolstoi è un libro poderosamente concepito, ricco d’accenni profondi, di investigazioni acute e di verità utili e umanamente accettabili anche da chi non si sente di salire a tutte le premesse del suo spirito mistico. Libro sopratutto opportuno oggi per noi. Poichè è stata veramente meravigliosa la leggerezza con la quale molti in Italia credettero di poter escludere dal mondo dell’arte nientemeno che la idea morale e di poter fabbricare (in questa vita contemporanea, ove tutto fortemente si intreccia, si coordina e si corrisponde) per comodo della sola arte, una specie di solitudine puerilmente orgogliosa e vana; ed è stata quasi incredibile la facilità con cui si lasciarono menare dalla novissima retorichetta francese fino a parafrasare molto seriamente le facezie di Teofilo Gautier e a convertire in canoni d’arte i suggerimenti mercantili di qualche romanziere molto positivo ed esperto in calcoli editoriali.
Pareva che questo dovesse bastare; ma ci fu dato uno spettacolo anche più curioso. Venne innanzi una schiera di giovani scrittori dallo stile molto fiorito e fosforescente, dicendo: — Siamo qua noi con la colonna di fuoco! Il vuoto innegabile che si è fatto nell’arte per il divorzio dalla vecchia morale e dalla vecchia fede, noi lo riempiamo assai abbondantemente, poichè dal grembo della nostra nuova poetica, ecco che noi facciamo uscire la formula di una Vita e di una Umanità superiore! — Per tal modo, noi vedemmo nuovamente avverarsi l’antica massima che spesso gli uomini, proprio per dove peccarono, vengono castigati.....
Enrico Panzacchi.
Note
- ↑ Come introduzione all’opera di Tolstoi, abbiamo il piacere di presentare i due articoli che le dedicò Enrico Panzacchi nei fascicoli della Nuova Antologia del 16 giugno e del 16 dicembre 1898. Dobbiamo ringraziare l’autore e il direttore dell’Antologia del permesso accordatoci, — e ne saranno del pari grati i lettori.
(Nota degli Editori).
- ↑ Réne Doumic, Les jeunes
- ↑ Prefazione alla tragedia Il conte di Carmagnola.
- ↑ Opere varie. Edizione Rechiedei, pag. 796.
- ↑ Opere varie. Ediz. cit. pag. 783
- ↑ Ib., pagg. 465 e seg.
- ↑ Discorsi. “Una opinione di Alessandro Manzoni„. Edizione Cogliati. Milano, 1898.
- ↑ Zola, Dumas, Guy de Maupassant, pag. 153 e seg.
- ↑ Prémières poésies. “Don Paez„.
- ↑ Vedi di lui Science et Religion, pag. 229 e seg.
- ↑ Pro Archia poeta.