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nell’idea morale dell’arte xlv

piglino subito un atteggiamento da censore di classe e le domandano: — Che cosa provi tu? Che effetto produci tu tra gli uomini? Sei tu venuto per accrescere o per diminuire la dose della loro moralità? — Questa casuistica trita e minuta, tirata ogni momento nel campo dell’arte, a me è parsa sempre uggiosa e incomoda come tutto quello che è fuori di posto. E penso che la risposta migliore sarebbe sempre quella della fioraia di Corinto allo stoico indiscreto: — I fiori sono belli e odorano.

L’antico buon senso dei popoli civili ha sempre distinto due categorie di atti umani: quelli obbligatori e quelli leciti. A questi secondi non ha fatto mai torto l’essere niente più che dilettevoli; e non si è mai preteso di dedurre per questo che fine ultimo o massimo della vita fosse il piacere. Ora, se vi ha gente che in questa regione del puro dilettevole abbia diritto di muoversi e anche di vagabondare con una certa onesta libertà, senza troppo inquietarsi d’altro, io dico che sono i poeti e gli artisti.

Affermare che il piacere soggettivo generato dalla bellezza sia fine d’un’opera artistica, è proprio una così grande eresia? Il Tolstoi non ne dubita. — Tanto varrebbe, egli dice, affermare che fine dell’alimentazione sia il piacere del palato. — E perchè no? domando io. Non sarà il fine unico e assoluto, ma che sia anch’esso un fine ragionevole nessuno potrebbe negarlo; tanto è vero che un celebre fisiologo disse argutamente potersi definire l’uomo un animale che mangia anche senza lo stimolo della fame. E nem-