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xxviii Panzacchi, Tolstoj e Manzoni

ad essa un grande ufficio educativo e sociale. Il Manzoni spiegò per tempo la sua bandiera. “Tutto ciò che ha relazione con l’arte della parola, e coi diversi modi d’influire sulle idee e sugli atti degli uomini, è legato di sua natura a oggetti gravissimi”1.

Veramente questa, a quel tempo, era una massima comune. L’Alfieri e il Parini avevano infuso nelle lettere un forte spirito di educazione morale e civile; il Foscolo dalla cattedra di Pavia aveva parlato un linguaggio somigliante. Se vi erano dissensi, questi potevano toccar solo il modo di intendere e di applicare la massima. Gli stessi difensori dell’uso della mitologia pagana, con a capo Vincenzo Monti, adducevano le alte moralità rinchiuse nei vecchi miti e rese più insinuanti attraverso i veli della finzione poetica. Questo, su per giù, era anche il sentimento di Giacomo Leopardi, confidato a parecchi dei suoi canti ed espresso di frequente nei Dialoghi, nei Pensieri, nell’Epistolario e dovunque egli insiste sulla necessità di certe umane illusioni. Chi allora avesse affermato il contrario, non avrebbe potuto difendersi dalla taccia di pazzo o almeno di stravagante.

Ma il Manzoni mirava a un effetto più esteso, movendo da una idea più fondamentale. Egli voleva far trionfare un principio che cominciava già ad essere accetto ai giovani; un principio, che fuori d’Italia scrittori di grande autorità, come la Stael, i fratelli Schegel, il Chateaubriand,

  1. Prefazione alla tragedia Il conte di Carmagnola.