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xliv Panzacchi, Tolstoi e Manzoni

manifestazioni dell’arte faceva un viso così diffidente e così austero. Di quel rigore giansenista il nostro Manzoni, il buon allievo dell’abate Degola, fu, io credo, artisticamente parlando, un mitigato ma logico seguitatore; e oggi, nella massima fondamentale, lo troviamo d’accordo con Leone Tolstoi, il quale, alla sua volta, ci fa tornare con la mente alle idee di Gian Giacomo Rousseau.

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Ma se il libro di Tolstoi, a guardarlo nella sua essenza, è tutt’altro che un seguito di affermazioni strambe e di teorie incoerenti e barbariche, come a qualche giornalista piacque, con la solita autorità, di definirlo, questo non vuole già dire che esso risolva il problema in modo del tutto soddisfacente. Dirò qui molto brevemente la mia opinione. Questa dell’ufficio e del fine dell’arte, è questione che troppo agevolmente si presta alle esagerazioni ed agli equivoci; troppo di frequente si mescolano ad essa elementi eterogenei, e abiti e gusti viziosi, e simpatie e antipatie interessate. Aggiungete che i criteri teologici, ossia quelli che concernono i fini delle cose, sono sempre difficilissimi ad essere adoperati con accorgimento e con perfetta misura.

E una mancanza appunto di misura io veggo nella dottrina del Tolstoi, come in quella del Manzoni, come in tutti coloro che dinanzi a ogni nuova creazione di poeta e d’altro artista.