Atlantide/Canto VI
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CANTO SESTO
Al designato loco in men d’un’ora
Arrivarono i due, ch’era già notte;
Ma deserta giacea l’aula sonora
Che tante udito avea chiacchiere dotte;
Dal filologo uscier seppero allora
Che le pratiche antiche erano rotte,
Che diviso era il campo, anzi a’ capelli
Venivan tuttodì questi con quelli.
Mente, degli anni e dell’oblio nemica,
Guardaroba di dotti e cantiniera,
Se vuoi che la gran lite al mondo io dica,
Narrami d’essa in pria la cagion vera:
Nella parola tua del vero amica,
Che i popoli ammaestra e al tempo impera,
Tu l’alte imprese e le sentenze udite
Serbi come ciregie in acquavite.
Fra due del dotto cielo astri minori
Il litigio fatal prima si accese,
L’un detto Zebedeo de’ Cavolfiori,
L’altro Vattelappiglia Inquelpaese:
Il primo avea con provvidi sudori
E viaggi nel Nord fatti a sue spese
Scoverto che Nason, senza alcun fallo,
Nella pianta d’un piè ci aveva un callo.
Ma l’altro non men dotto e più paziente,
Con le ricerche originali sue
E con dottrina stupefacíente
Provò che il suo collega era un gran bue;
Che Ovidio a’ piè non avea calli niente,
Ma tra le mele invece aveane due;
E Ottavio, che volea mele sincere,
Mandollo a Tomi a fare il sorbettiere.
Fu questa appunto la favilla, ond’ebbe
Epica fiamma il letterario sdegno,
Che tanto in poco divampando crebbe
Da minacciar dall’ime basi il regno;
Poi che non sol chi a fonti algide bebbe
Storico umor perdette ogni ritegno,
Ma quanti avean con vecchia dietetica
Pasciuto il sen di spumeggiante estetica.
Nè tra ’l vulgo, onde prima ebbe alimento,
Restò la fiamma circoscritta e chiusa,
Ma più d’un ch’avea fama e fondamento
La metallica n’ebbe anima fusa:
Arso ne fu dell’erudito armento
Il celebre pastor Testadifusa,
Ei mirabile dotto, anzi vivente
Archivio di dottrina utile a niente.
E tu pur nei precordi imi la face
Bieca sentisti dell’insana Aletto,
O Babilonio insigne, a cui la pace
Perder fa spesso l’etimo d’un detto;
Ma tanto è il tuo pensiero acre e sagace,
Che alfin rintracci il perseguito oggetto,
Come ghiotto porcel con ingegnoso
Grugno discopre il tubero odoroso.
Struggibuco, dantista audace e dotto,
Salir sente sul naso anch’ei la muffa,
E benchè sia molto acciaccato e rotto,
I denti arrota e fa gli occhiacci e sbuffa:
Ah! se non avess’io questo fagotto
Penduto innanzi, entrerei tosto in zuffa,
Come quando provai che il giovinetto
Alighieri soggiacque a ser Brunetto.
Nè di Gufo de’ Chiurli oggi la Fama
Celar dee fra le gonne il nome e gli atti,
Di lui che da più tempo alto proclama
Che versi e civiltà son cani e gatti;
La lirica è per lui squallida e grama,
Anzi lì lì per dar gli ultimi tratti,
La poesia d’amore in fin di vita,
Crepato il dramma, l’epopea stecchita.
Prefica insigne, e chi ti può dar torto,
Se da un pezzo sossopra è volto il mondo?
Il Sol, come ognun vede, è bell’e morto,
Più non torna alla terra april giocondo;
L’uom dopo tanti inganni alfin s’è accorto,
Che il sommo bene è delle tasche in fondo.
Che l’albero d’onor non dà più frutto,
E un nome è l’Ideal senza costrutto.
Come durar potrebbe in tal sublime
Rivolgimento un esercizio vano,
Qual’è la poesia, vero lattime
Proprio del neonato ingegno umano?
Che vale accozzar versi, intrecciar rime
Dove il Calcolo è dio, l’Oro sovrano?
Dopo l’eterna economia politica,
L’arte che vuole il secolo è la Critica!
È la Critica un’arte ideologica,
Metodica, ermenèutica, liturgica,
Un’occulta scienza filologica,
Una pratica medico-chirurgica,
Un’alchimia, una cabala astrologica,
Una diavoleria taumaturgica,
Che a forza di comenti e d’ammenicoli
Le teste a trasformar giunge in testicoli.
Anche tu, Bulbo Rampichin, ventoso
Ricostruttore e glossator di testi,
Dall’erudito incendio il glorioso
Cranio e l’intima stoppa arsa ne avesti;
Tu che col capo dalle tarme roso
All’Italia stupita e al mondo attesti,
Che necessario al tuo dotto mestiere
Il cervello non è, basta il sedere.
S’avventò pur tra l’armi Ernio Beone,
Che arricchì già di sue scoverte il mondo:
Si sa per lui, che avea sul pettignone
Semiramide un neo col pelo biondo;
Che una voglia d’anguilla avea Didone
Alla zona central del mappamondo;
Che a Catilina fûr trovate addosso
Due ova sode e un peperone rosso.
Così d’uomini istrutta e d’armi nuove
Tanto l’ira s’accresce e si dilata,
Che doman le due schiere, anche se piove,
Verranno in piazza a una campal giornata.
Con gioia i Pellegrini odon le nuove,
Certi omai che non fu vana l’andata;
E impazienti di sentir le botte,
All’Albergo del Chiù passan la notte.
Alle porte del ciel l’alba non era,
Quando ognintorno un gran latrar di cani
Diede l’annunzio che la prima schiera
Scendea bramosa di menar le mani;
Una all’aure sonante ampia bandiera
Di carta, impressa di colori strani,
Recava a cifre gotiche e contorte
Il terribile motto: O Callo o Morte!
Una fanfara di corni e di nicchi,
Di catube aspre e di flauti stridenti
Riecheggiava per chiassi e crocicchi,
Balzar facea la corata alle genti;
Davano i prodi co’ tacchi tai picchi,
Che le faville n’andavano ai venti;
E a mezzo trotto, con ilare aspetto
Correano all’armi siccome a banchetto.
Un giornal con industre arte piegato
Facea tricuspidale elmo alle teste;
Quattro penne di gallo accapponato,
Fossero emblema o no, servian da creste;
Un cuojo di montone, abbottonato
A le spalle, era insieme usbergo e veste;
Pendulo da una stringa a' fianchi intorno
Un calamajo avean chiuso in un corno.
Ma l’arma, che ciascuno, anche il più vile,
A mo’ di freccia, in fiero atto bandisce,
È una piccola penna, anzi uno stile,
Cui l’Odio arrota e il Calcolo acuisce:
D’atro veleno intinta ha la sottile
Punta ch’a un tempo insudicia e ferisce;
Nè usato mai fu con astuzia tale
Dardo abissino ed indian pugnale.
Asterisco, erudito e cavaliero,
Di sì nobile schiera è capitano,
Ed erto se ne vien sopra un destriero
Bardato ben, ma di sembiante strano:
Chè il suo non è un caval, per dire il vero,
Ma un buon puledro dell’armento umano,
Anzi un alunno suo fido e robusto,
Che a fare da somier ci ha proprio gusto.
Bubbola è detto, e di sì bel portante
Su le groppe ei si reca il suo maestro,
Ch’è inver peccato ch’abbia uman sembiante
Un che a fare da bestia è così destro;
Ben talor fa il bizzarro e l’arrogante,
E minaccia spezzar barde e capestro,
Ma perchè torni al natural riserbo,
Basta mostrargli un po’ di biada o il nerbo.
Non appena si fu schierata in piazza
Questa legion del Callo o della Morte,
Con immenso fragor, con furia pazza
Dell’Ateneo spalancansi le porte;
E qual delle loquaci oche la razza,
Schiamazzando vien fuor l’altra coorte,
Che morir vuol, pur di restar fedele
Ai due calli d’Ovidio ed alle mele.
Ablativo, baron del Polpettone,
Comanda a questi intrasigenti eroi:
Armi ei non ha, ma sopra un carrettone
L’opere sue gli portano due buoi;
Con queste in mischia o in singolar tenzone
Egli è il terror degli avversarj suoi,
Che gli basta una d’esse, anzi un sol tomo,
A franger l’ossa e a stritolare un uomo.
Ma siccome ei non può tra la sua schiera
Muover con armi tali agile e snello,
Ha un ajutante armato alla leggera,
Che gli serve a dar noja a questo e a quello:
Costui ch’è furbo e che vuol far carriera,
Benchè superbo sia, fa da corbello,
E pur ch’abbia alla fine un po’ d’arrosto,
Accetta le pedate anche in quel posto.
Setto ha nome costui: chè del nativo
In, che prefisso era al casato in pria,
Con astuzia meschina egli s’è privo
Per non dare a saper ciò ch’egli sia;
Ma l’opre abjette, a cui soltanto è vivo,
Accusan l’esser suo pur tuttavia,
Anzi non pure un vile insetto ei resta,
Ma il fa più vile il non aver la testa.
Insultare e schernir ciò ch’esso ignora,
Non legger gli altrui libri e dirne male,
È il mestier ch’alla buona e alla malora
Qualche reo tozzo a sgraffignar gli vale;
Ma del turpe mestier tanto si onora,
E se ne vanta con grandigia tale.
Da mostrar ben ch’egli è felice e baldo
D’essere e di parer vile e ribaldo.
L’armi di questa gente oltre ogni detto
Bizzarre sono: han tutti il ventre ignudo,
Ma fin sopra le orecchie hanno un berretto,
E sul berretto un cardo ispido e crudo;
Un’Enciclopedia lor fascia il petto,
Un Calepino serve lor di scudo,
Un arnese hanno in man lungo a due tagli,
E un diploma di laurea in sui sonagli.
All’apparir di sì munita schiera,
E più del carretton dei libri immani,
Pallidi gli altri diventâr qual cera,
E sciogliere sentîr ginocchia e mani:
Selva così, che pria della bufera
Sfidar parve di lei gli odj lontani,
A un leggero alitar tremola tutta,
E si piange in cor suo vinta e distrutta.
Ma il capitano lor, ch’era prudente
E l’umor conoscea del suo drappello,
Ordina d’occupar militarmente
Un’osteria che val più d’un castello.
Grato è il comando a quell’eroica gente,
A cui scendeva il cor già nel budello,
E che aver crede in quelle pingui mura
La pancia insieme e l’anima sicura.
Qui serrati e chiavati, alle finestre
Si fanno audaci, e su la schiera avversa,
Fatti ognun delle braccia archi e balestre,
Quanto in mano gli vien fulmina o versa;
Mordonsi gli altri per furor le destre,
Anche il Baron la continenza ha persa,
E perso il capo, a suo perpetuo scorno,
Avrebbe ancor, ma non l’avea quel giorno.
Setto però, cui fa stillar l’ingegno
Paura o fame e pullular le idee,
Si sovvien che là presso un tal congegno,
Detto l’Organo Magno esser ci dee:
Una tromba che fuor tutta è di legno,
Dentro di piombo e insaziata bee,
E poi, da un orifizio ampio c’ha in vetta,
L’onda bevuta con gran furia getta.
Con un prode drappello al noto loco
Recasi in fretta, e la pesante mole
Trovata, ancor che mal connessa un poco,
La traggon fuori a via di corde al sole:
Tentennando sui fianchi e con un roco
Lamentio protestar certo essa vuole,
Che a venir fuori a malincuor s’induce,
Perchè fatta per lei non è la luce.
Un tal Protocordone, uom di mestiere
Incerto, e anfibio d’animo e di forme,
È l’inventore, il fabbro ed il pompiere
Della proboscidal macchina enorme;
Maneggiare ei la sa come un clistere,
Ben ch’ora il poverin, fra tante torme
D’ira frementi e di vendetta ingorde,
Non raccapezzi il sacco dalle corde.
Pur si fa core; ed al comando avuto
Di puntarla ai nemici e di far acqua,
Così le fa schizzar ciò c’ha bevuto,
Che a più d’un di là entro il corpo sciacqua;
Molti drizzano in lei lo strale acuto,
Ma gelida, perpetua essa gli annacqua,
Tanto che alfin, maledicendo al Callo,
Sentono rammencir la cresta al gallo.
Non tu, pro’ Zebedeo: Dunque daremo,
Fra sè dicea, sì scandaloso esempio,
Da mancare a noi stessi all’uopo estremo
E ad un branco ubbidir maligno ed empio?
Ed io, che nulla spero e nulla temo,
Vedrò del Callo di Nason lo scempio?
Basterà dunque un po’ di broda, o Dio,
A sommerger l’ingegno e l’onor mio?
In tal fiero pensier, furtivamente,
Senza ad altri svelar l’arduo partito,
Bieco lo sguardo, torbido la mente,
Per le scale s’avvia lento e romito;
Quindi un mesto pensiero alla dolente
Sposa rivolto ed un cerin brandito.
Prorompe in piazza: al risoluto aspetto
Micca il diresti, all’alta face Aletto.
Qual per la tenebrosa onda Canari,
Acquattato sul vindice brulotto,
L’occhio intento, la man pronta, e del pari
A guizzar fra’ nemici agile e dotto,
Invocando nel cor gli eroi preclari,
All’Ammiraglia osa cacciarsi sotto,
Gitta l’igneo bitume, e in quel che rugge
L’incendio sacro, si ritrae, non fugge;
Tal Zebedeo fra la nemica greggia
Mescesi ardimentoso, e colà dove
La tromba ippopotamica torreggia,
Stoppie ammucchia e fascine all’ardue prove;
Ecco accesa è la teda, ecco fiammeggia.
Ecco audace ei l’avventa e volge altrove;
Ma non si accorge, ahimè, che in quel momento
Smorzata avea l’inclita face il vento.
Ben s’accorser di lui le avverse schiere,
Vider la teda ignicrinita nelle
Sue mani, e indovinato il reo pensiere,
Si sentîr tutti impaperir la pelle;
Ma come pria potettero vedere
(Certo fu grazia di benigne stelle)
Spento il foco mortale, e l’omicida
Già volto in fuga, andâro al ciel le grida.
Un correre, un urtarsi, un lanciar dardi,
Un soqquadro successe, una ruina,
Un di prodi guerrieri e di codardi
Montar su’ palchi e chiudersi in cantina;
Ma, se i fogli del dì non son bugiardi,
Non avvenne una gran carneficina,
Ben che il fiero Baron, perduto il lume,
Scagliato avesse più d’un suo volume.
E aggiunger devo ancor, che nonostante
Fosser molti venuti ad armi corte,
E adoprasser quell’arma, onde il furfante
Sempre si tien dell’onestuom più forte,
Nessun morto restò, sia che di tante
Birbe disdegno avesse anche la Morte,
O fatti essendo al velenoso stile,
Forza in lor non avesse il ferro ostile.
L’attentato feral, l’alto scompiglio
Il gran Protocordone accorto rese,
Tal che gli crebbe in corpo un buon consiglio,
Sì buon che meraviglia anch’ei ne prese:
Devo, egli pensa, a sì mortal periglio
Esporre ancora il mio vetusto arnese?
O non potrebbe in quest’orrendo ballo
Da pompa e da pompier far Baraballo?
Egli che tuttodì da noi riceve
Sì grati ufficj e sta del regno in cima,
Definir può la lite e l’aurea in breve
Ridare a noi tranquillità di prima;
Con un servigio più proficuo e lieve
Che versi attorcigliar privi di rima,
Può da lungi smorzar l’ire omicide,
Tal che si dica poi: Vinse e non vide!
Il provvido consiglio ai duci esposto,
Tanto se ne mostrâr contenti e grati,
Che furon dalle due parti bentosto
Quattro eroi scelti e a Barabal mandati.
Lo trovarono assiso in un tal posto,
Ch’effluvj concedea non troppo ambrati,
E dove come un dio spesso egli gode
Fra lampi e tuoni edificare un’ode.
Qual cane intento a rosicchiare un osso,
Senza l’opra lasciar digrigna i denti,
Sol che un simile suo di lui men grosso
Farglisi accosto e riguardar si attenti;
Così non di pudor ma d’ira rosso
Ai quattro araldi a riverirlo intenti,
Senza punto lasciar l’opra interrotta,
L’irsuto Barabal freme e borbotta.
Ma coloro, che il san lubrico all’ira
E san che l’oro i più ribelli acqueta,
Tratta fuori di sacca un’aurea lira,
Fan ciò che a Tebe il Niobeo poeta;
Come il suon ode e il buon metallo ei mira,
Non pur la ghigna spiana e il core allieta,
Ma sorge lesto dall’olimpio trono,
E allegro sculettando accetta il dono.
Saputo poi, che nell’orrenda lite
Egli è dalle due parti arbitro eletto,
Rimasticando le proposte udite,
Il ciglio aggronda, e mugghia alfine: accetto;
Poi confortato il sen con l’acquavite,
Narra la fama, egli si pose a letto,
E il cervel si stillò con tale ardore,
Che quel dì non russò più di dieci ore.
E la sentenza sua, circa al gran callo,
Ridotta in brevi termini fu questa:
Considerato ben, che polpa e callo
Son sinonimi, e Plinio anche l’attesta;
Visto ch’anco le mele hanno il lor callo,
Cioè la polpa, è cosa manifesta,
Che se Ovidio nei piedi e nel sedere
Ebbe polpa, anche calli ebbe ad avere.
È perciò sua precisa opinione,
Che se lo stesso è il dire o calli o polpe,
Tutti e due gli avversarj hanno ragione,
E se colpe han, son d’ambedue le colpe.
Così l’alto dissidio egli compone
Con parer mezzo ciuco e mezzo volpe:
Chè fra due pronti a sbudellarsi, è bue
Chi non dà la ragione a tutti e due.
Come il responso dodoneo fu udito,
La città tutta, a cui non parea vero
Che il litigio feral fosse finito,
D’un gaudio gongolò pieno e sincero;
Ritornò a tutti il sonno e l’appetito,
Mutossi il tosco in latte, il fiele in siero;
Tutti sentian salir fin sopra gli occhi
Un dolce umore e scendere ai ginocchi.
In memoria del fausto avvenimento
Un novo ordin creò Testadilegno,
Che sanzionato poi dal Parlamento,
Fu conferito a chi ne fu più degno:
I cavalieri in tutto furon cento,
Un medaglione al collo era il lor segno,
Una bacchetta con un bussolotto
L’impresa; Ingegni e non Ingegno il motto.
Al saper questa nuova istituzione,
Che fu chiamata l’Ordine del Callo,
E della quale il primo gran cordone,
Come suppor si può, fu Baraballo,
Si sviluppò per entro alle persone,
Ch’erano più o meno entrate in ballo,
L’impetuosa malattia secreta
D’incoronar l’altissimo poeta.
Secreta ho detto, ma bentosto esplose,
Occupò, dominò tutte le menti;
La Fama tra le chiappe il trombon pose
E soffiò la notizia a’ quattro venti;
Ci fu chi ’l trionfale inno compose,
Chi ammannì gli ammenicoli occorrenti;
Molti imbastiron versi in vario stile,
Stile barbaro intendo, e non civile.
Apparecchiata alla pomposa scena
E ornata d’orifiamme e di ghirlande
Della città fu la più vasta Arena,
Che chiamata fu poi dell’Atto Grande;
Piantârvi in mezzo, a renderla più amena,
Una quercia, ch’avea maschie le ghiande,
Ed un alloro che tra’ rami belli
Più paja avea di penduli baccelli.
L’alba sacra alla festa alfine è chiara,
Se più chiara dell’altre ognun se ’l pensi,
Ed all’Arena, o per dir meglio all’ara,
Tutti accorron dovunque in flutti immensi;
Molti per aver posto, in aspra gara
Tra ’l pigiare e il lottar perdono i sensi;
Molti a suon di pedate e di cappiotti
V’entrano a calli pesti e a musi rotti.
Campo non fu che in quel mattin solenne
Sentì del duro agricoltor la mano;
Sciolto da’ consueti oblighi venne
Perfino il bue dall’avido villano;
Dal prender volo ogni cassier s’astenne,
S’astenne dalle cacce il pio sovrano,
Dall’erba i tauri, dalle pere gli orsi,
E i tribuni plebei dal far discorsi.
Un rullio di tamburi, un suon d’evviva,
Uno scoppio d’applausi e di petardi
Annunzia al mondo, che il gran vate arriva:
È il tocco appena, e già parea sì tardi!
La curiosità divien sì viva,
Di tanto desiderio ardon gli sguardi,
Che nelle autorità nasce il sospetto
Non l’abbiano a squartar per troppo affetto.
Da quattro alunni suoi portato a braccia
(Oh gloriosa gioventù latina!)
Il monocolo mostro ecco s’affaccia
In costume gentil di ballerina:
Un corpettin celeste il sen gli allaccia
Guernito a’ lembi d’un’aerea trina;
L’anche gli adombra un gonnellin di velo,
Il resto è nudo, ma lo copre il pelo.
A far più memorabile il successo
Della festiva cerimonia e insieme
A dimostrar che a lui tutto è permesso,
Ch’ei fa ciò che gli pare e nulla teme,
Appena entrato, ei dà l’ordine espresso,
Che sia del Circo alle due parti estreme
Legata, non però troppo in tirare,
Una corda su cui vuol manovrare.
Su la punta dei piè, con cadenzato
Passo a mezzo l’Arena indi s’avanza,
E facendo uno scoscio un po’ arrischiato,
Riverisce la nobile adunanza;
Poi con bel garbo d’orso ammaestrato
Fatte due pirolette e una mutanza,
Un salto spicca alla distesa fune,
L’afferra svelto, e su vi adagia il clune.
Con lieta faccia e con modesto orgoglio
Si dondola da pria tranquillamente,
E par dica: ti voglio e non ti voglio,
Conosco l’arte di gabbar la gente;
Poi sorge in piè, come un sovran sul soglio,
Squassa la fune, e lanciasi repente,
Ed or salta, or s’accoscia, or dà un tal crollo,
Che grida ognun: s’è scavezzato il collo!
Ma, non che scavezzarsi alcuna cosa,
Il destro saltator spicca una coppia
Di capriole, e in furia turbinosa
Gira così, così la furia addoppia.
Che non sol l’arte sua meravigliosa,
Ma meraviglia par s’egli non scoppia,
E meraviglia più, ch’ei non ha l’ali:
Apprendete a girar quindi, o mortali!
Alfin ristette, e al convenuto segno
Saltabellando usciron due donzelli
Per porgli in capo il lauro, ond’egli è degno
Assai più che le anguille e i fegatelli;
Ma perso l’equilibrio ed il contegno,
Ei fa in quel punto un giro tal, che quelli
Gli assettano l’alloro in modo strano
Su la sede central del corpo umano.
Un urlo alzâr le ammiratrici torme,
S’indignò l’alto popolar consesso;
Ma Baraballo con modestia enorme
Dichiara, che per lui torna lo stesso,
Ch’ogni parte del corpo è in lui conforme,
Che più grato anzi gli è l’onor concesso,
Ch’essendo ei novatore e all’uso opposto,
È ragion che l’alloro abbia in quel posto.
I concenti, le danze, i fuochi, il carro,
Sopra cui Barabal fino alla notte
Fu portato in trionfo, io non vi narro;
Dirò solo, che il carro era una botte;
E aggiungerò ch’ei non avea tabarro,
Ma in cambio del tabarro avea tre cotte.
E tornando ad Esperio ed all’amica,
È necessario ch’al lettore io dica,
Che verso sera s’avviâr bel bello
Alla riva soggetta; e qui d’un salto
Rimontati sul magico battello,
Sciolser la doppia fune e preser l’alto.
Scivolava il legnetto agile e snello,
Sul mare che parea purpureo smalto,
Fin che fûr presso a un’isoletta strana,
Mobil sull’onda e di sembianza umana.