Canto VI

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Canto V Canto VII
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CANTO SESTO


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Al designato loco in men d’un’ora
     Arrivarono i due, ch’era già notte;
     Ma deserta giacea l’aula sonora
     Che tante udito avea chiacchiere dotte;
     Dal filologo uscier seppero allora
     Che le pratiche antiche erano rotte,
     Che diviso era il campo, anzi a’ capelli
     Venivan tuttodì questi con quelli.

Mente, degli anni e dell’oblio nemica,
     Guardaroba di dotti e cantiniera,
     Se vuoi che la gran lite al mondo io dica,
     Narrami d’essa in pria la cagion vera:
     Nella parola tua del vero amica,
     Che i popoli ammaestra e al tempo impera,
     Tu l’alte imprese e le sentenze udite
     Serbi come ciregie in acquavite.

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Fra due del dotto cielo astri minori
     Il litigio fatal prima si accese,
     L’un detto Zebedeo de’ Cavolfiori,
     L’altro Vattelappiglia Inquelpaese:
     Il primo avea con provvidi sudori
     E viaggi nel Nord fatti a sue spese
     Scoverto che Nason, senza alcun fallo,
     Nella pianta d’un piè ci aveva un callo.

Ma l’altro non men dotto e più paziente,
     Con le ricerche originali sue
     E con dottrina stupefacíente
     Provò che il suo collega era un gran bue;
     Che Ovidio a’ piè non avea calli niente,
     Ma tra le mele invece aveane due;
     E Ottavio, che volea mele sincere,
     Mandollo a Tomi a fare il sorbettiere.

Fu questa appunto la favilla, ond’ebbe
     Epica fiamma il letterario sdegno,
     Che tanto in poco divampando crebbe
     Da minacciar dall’ime basi il regno;
     Poi che non sol chi a fonti algide bebbe
     Storico umor perdette ogni ritegno,
     Ma quanti avean con vecchia dietetica
     Pasciuto il sen di spumeggiante estetica.

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Nè tra ’l vulgo, onde prima ebbe alimento,
     Restò la fiamma circoscritta e chiusa,
     Ma più d’un ch’avea fama e fondamento
     La metallica n’ebbe anima fusa:
     Arso ne fu dell’erudito armento
     Il celebre pastor Testadifusa,
     Ei mirabile dotto, anzi vivente
     Archivio di dottrina utile a niente.

E tu pur nei precordi imi la face
     Bieca sentisti dell’insana Aletto,
     O Babilonio insigne, a cui la pace
     Perder fa spesso l’etimo d’un detto;
     Ma tanto è il tuo pensiero acre e sagace,
     Che alfin rintracci il perseguito oggetto,
     Come ghiotto porcel con ingegnoso
     Grugno discopre il tubero odoroso.
     
Struggibuco, dantista audace e dotto,
     Salir sente sul naso anch’ei la muffa,
     E benchè sia molto acciaccato e rotto,
     I denti arrota e fa gli occhiacci e sbuffa:
     Ah! se non avess’io questo fagotto
     Penduto innanzi, entrerei tosto in zuffa,
     Come quando provai che il giovinetto
     Alighieri soggiacque a ser Brunetto.

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Nè di Gufo de’ Chiurli oggi la Fama
     Celar dee fra le gonne il nome e gli atti,
     Di lui che da più tempo alto proclama
     Che versi e civiltà son cani e gatti;
     La lirica è per lui squallida e grama,
     Anzi lì lì per dar gli ultimi tratti,
     La poesia d’amore in fin di vita,
     Crepato il dramma, l’epopea stecchita.

Prefica insigne, e chi ti può dar torto,
     Se da un pezzo sossopra è volto il mondo?
     Il Sol, come ognun vede, è bell’e morto,
     Più non torna alla terra april giocondo;
     L’uom dopo tanti inganni alfin s’è accorto,
     Che il sommo bene è delle tasche in fondo.
     Che l’albero d’onor non dà più frutto,
     E un nome è l’Ideal senza costrutto.
     
Come durar potrebbe in tal sublime
     Rivolgimento un esercizio vano,
     Qual’è la poesia, vero lattime
     Proprio del neonato ingegno umano?
     Che vale accozzar versi, intrecciar rime
     Dove il Calcolo è dio, l’Oro sovrano?
     Dopo l’eterna economia politica,
     L’arte che vuole il secolo è la Critica!

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È la Critica un’arte ideologica,
     Metodica, ermenèutica, liturgica,
     Un’occulta scienza filologica,
     Una pratica medico-chirurgica,
     Un’alchimia, una cabala astrologica,
     Una diavoleria taumaturgica,
     Che a forza di comenti e d’ammenicoli
     Le teste a trasformar giunge in testicoli.

Anche tu, Bulbo Rampichin, ventoso
     Ricostruttore e glossator di testi,
     Dall’erudito incendio il glorioso
     Cranio e l’intima stoppa arsa ne avesti;
     Tu che col capo dalle tarme roso
     All’Italia stupita e al mondo attesti,
     Che necessario al tuo dotto mestiere
     Il cervello non è, basta il sedere.
     
S’avventò pur tra l’armi Ernio Beone,
     Che arricchì già di sue scoverte il mondo:
     Si sa per lui, che avea sul pettignone
     Semiramide un neo col pelo biondo;
     Che una voglia d’anguilla avea Didone
     Alla zona central del mappamondo;
     Che a Catilina fûr trovate addosso
     Due ova sode e un peperone rosso.

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Così d’uomini istrutta e d’armi nuove
     Tanto l’ira s’accresce e si dilata,
     Che doman le due schiere, anche se piove,
     Verranno in piazza a una campal giornata.
     Con gioia i Pellegrini odon le nuove,
     Certi omai che non fu vana l’andata;
     E impazienti di sentir le botte,
     All’Albergo del Chiù passan la notte.

Alle porte del ciel l’alba non era,
     Quando ognintorno un gran latrar di cani
     Diede l’annunzio che la prima schiera
     Scendea bramosa di menar le mani;
     Una all’aure sonante ampia bandiera
     Di carta, impressa di colori strani,
     Recava a cifre gotiche e contorte
     Il terribile motto: O Callo o Morte!

Una fanfara di corni e di nicchi,
     Di catube aspre e di flauti stridenti
     Riecheggiava per chiassi e crocicchi,
     Balzar facea la corata alle genti;
     Davano i prodi co’ tacchi tai picchi,
     Che le faville n’andavano ai venti;
     E a mezzo trotto, con ilare aspetto
     Correano all’armi siccome a banchetto.

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Un giornal con industre arte piegato
     Facea tricuspidale elmo alle teste;
     Quattro penne di gallo accapponato,
     Fossero emblema o no, servian da creste;
     Un cuojo di montone, abbottonato
     A le spalle, era insieme usbergo e veste;
     Pendulo da una stringa a' fianchi intorno
     Un calamajo avean chiuso in un corno.

Ma l’arma, che ciascuno, anche il più vile,
     A mo’ di freccia, in fiero atto bandisce,
     È una piccola penna, anzi uno stile,
     Cui l’Odio arrota e il Calcolo acuisce:
     D’atro veleno intinta ha la sottile
     Punta ch’a un tempo insudicia e ferisce;
     Nè usato mai fu con astuzia tale
     Dardo abissino ed indian pugnale.

Asterisco, erudito e cavaliero,
     Di sì nobile schiera è capitano,
     Ed erto se ne vien sopra un destriero
     Bardato ben, ma di sembiante strano:
     Chè il suo non è un caval, per dire il vero,
     Ma un buon puledro dell’armento umano,
     Anzi un alunno suo fido e robusto,
     Che a fare da somier ci ha proprio gusto.

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Bubbola è detto, e di sì bel portante
     Su le groppe ei si reca il suo maestro,
     Ch’è inver peccato ch’abbia uman sembiante
     Un che a fare da bestia è così destro;
     Ben talor fa il bizzarro e l’arrogante,
     E minaccia spezzar barde e capestro,
     Ma perchè torni al natural riserbo,
     Basta mostrargli un po’ di biada o il nerbo.

Non appena si fu schierata in piazza
     Questa legion del Callo o della Morte,
     Con immenso fragor, con furia pazza
     Dell’Ateneo spalancansi le porte;
     E qual delle loquaci oche la razza,
     Schiamazzando vien fuor l’altra coorte,
     Che morir vuol, pur di restar fedele
     Ai due calli d’Ovidio ed alle mele.

Ablativo, baron del Polpettone,
     Comanda a questi intrasigenti eroi:
     Armi ei non ha, ma sopra un carrettone
     L’opere sue gli portano due buoi;
     Con queste in mischia o in singolar tenzone
     Egli è il terror degli avversarj suoi,
     Che gli basta una d’esse, anzi un sol tomo,
     A franger l’ossa e a stritolare un uomo.

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Ma siccome ei non può tra la sua schiera
     Muover con armi tali agile e snello,
     Ha un ajutante armato alla leggera,
     Che gli serve a dar noja a questo e a quello:
     Costui ch’è furbo e che vuol far carriera,
     Benchè superbo sia, fa da corbello,
     E pur ch’abbia alla fine un po’ d’arrosto,
     Accetta le pedate anche in quel posto.

Setto ha nome costui: chè del nativo
     In, che prefisso era al casato in pria,
     Con astuzia meschina egli s’è privo
     Per non dare a saper ciò ch’egli sia;
     Ma l’opre abjette, a cui soltanto è vivo,
     Accusan l’esser suo pur tuttavia,
     Anzi non pure un vile insetto ei resta,
     Ma il fa più vile il non aver la testa.

Insultare e schernir ciò ch’esso ignora,
     Non legger gli altrui libri e dirne male,
     È il mestier ch’alla buona e alla malora
     Qualche reo tozzo a sgraffignar gli vale;
     Ma del turpe mestier tanto si onora,
     E se ne vanta con grandigia tale.
     Da mostrar ben ch’egli è felice e baldo
     D’essere e di parer vile e ribaldo.

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L’armi di questa gente oltre ogni detto
     Bizzarre sono: han tutti il ventre ignudo,
     Ma fin sopra le orecchie hanno un berretto,
     E sul berretto un cardo ispido e crudo;
     Un’Enciclopedia lor fascia il petto,
     Un Calepino serve lor di scudo,
     Un arnese hanno in man lungo a due tagli,
     E un diploma di laurea in sui sonagli.

All’apparir di sì munita schiera,
     E più del carretton dei libri immani,
     Pallidi gli altri diventâr qual cera,
     E sciogliere sentîr ginocchia e mani:
     Selva così, che pria della bufera
     Sfidar parve di lei gli odj lontani,
     A un leggero alitar tremola tutta,
     E si piange in cor suo vinta e distrutta.

Ma il capitano lor, ch’era prudente
     E l’umor conoscea del suo drappello,
     Ordina d’occupar militarmente
     Un’osteria che val più d’un castello.
     Grato è il comando a quell’eroica gente,
     A cui scendeva il cor già nel budello,
     E che aver crede in quelle pingui mura
     La pancia insieme e l’anima sicura.

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Qui serrati e chiavati, alle finestre
     Si fanno audaci, e su la schiera avversa,
     Fatti ognun delle braccia archi e balestre,
     Quanto in mano gli vien fulmina o versa;
     Mordonsi gli altri per furor le destre,
     Anche il Baron la continenza ha persa,
     E perso il capo, a suo perpetuo scorno,
     Avrebbe ancor, ma non l’avea quel giorno.

Setto però, cui fa stillar l’ingegno
     Paura o fame e pullular le idee,
     Si sovvien che là presso un tal congegno,
     Detto l’Organo Magno esser ci dee:
     Una tromba che fuor tutta è di legno,
     Dentro di piombo e insaziata bee,
     E poi, da un orifizio ampio c’ha in vetta,
     L’onda bevuta con gran furia getta.

Con un prode drappello al noto loco
     Recasi in fretta, e la pesante mole
     Trovata, ancor che mal connessa un poco,
     La traggon fuori a via di corde al sole:
     Tentennando sui fianchi e con un roco
     Lamentio protestar certo essa vuole,
     Che a venir fuori a malincuor s’induce,
     Perchè fatta per lei non è la luce.

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Un tal Protocordone, uom di mestiere
     Incerto, e anfibio d’animo e di forme,
     È l’inventore, il fabbro ed il pompiere
     Della proboscidal macchina enorme;
     Maneggiare ei la sa come un clistere,
     Ben ch’ora il poverin, fra tante torme
     D’ira frementi e di vendetta ingorde,
     Non raccapezzi il sacco dalle corde.

Pur si fa core; ed al comando avuto
     Di puntarla ai nemici e di far acqua,
     Così le fa schizzar ciò c’ha bevuto,
     Che a più d’un di là entro il corpo sciacqua;
     Molti drizzano in lei lo strale acuto,
     Ma gelida, perpetua essa gli annacqua,
     Tanto che alfin, maledicendo al Callo,
     Sentono rammencir la cresta al gallo.

Non tu, pro’ Zebedeo: Dunque daremo,
     Fra sè dicea, sì scandaloso esempio,
     Da mancare a noi stessi all’uopo estremo
     E ad un branco ubbidir maligno ed empio?
     Ed io, che nulla spero e nulla temo,
     Vedrò del Callo di Nason lo scempio?
     Basterà dunque un po’ di broda, o Dio,
     A sommerger l’ingegno e l’onor mio?

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In tal fiero pensier, furtivamente,
     Senza ad altri svelar l’arduo partito,
     Bieco lo sguardo, torbido la mente,
     Per le scale s’avvia lento e romito;
     Quindi un mesto pensiero alla dolente
     Sposa rivolto ed un cerin brandito.
     Prorompe in piazza: al risoluto aspetto
     Micca il diresti, all’alta face Aletto.

Qual per la tenebrosa onda Canari,
     Acquattato sul vindice brulotto,
     L’occhio intento, la man pronta, e del pari
     A guizzar fra’ nemici agile e dotto,
     Invocando nel cor gli eroi preclari,
     All’Ammiraglia osa cacciarsi sotto,
     Gitta l’igneo bitume, e in quel che rugge
     L’incendio sacro, si ritrae, non fugge;

Tal Zebedeo fra la nemica greggia
     Mescesi ardimentoso, e colà dove
     La tromba ippopotamica torreggia,
     Stoppie ammucchia e fascine all’ardue prove;
     Ecco accesa è la teda, ecco fiammeggia.
     Ecco audace ei l’avventa e volge altrove;
     Ma non si accorge, ahimè, che in quel momento
     Smorzata avea l’inclita face il vento.

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Ben s’accorser di lui le avverse schiere,
     Vider la teda ignicrinita nelle
     Sue mani, e indovinato il reo pensiere,
     Si sentîr tutti impaperir la pelle;
     Ma come pria potettero vedere
     (Certo fu grazia di benigne stelle)
     Spento il foco mortale, e l’omicida
     Già volto in fuga, andâro al ciel le grida.

Un correre, un urtarsi, un lanciar dardi,
     Un soqquadro successe, una ruina,
     Un di prodi guerrieri e di codardi
     Montar su’ palchi e chiudersi in cantina;
     Ma, se i fogli del dì non son bugiardi,
     Non avvenne una gran carneficina,
     Ben che il fiero Baron, perduto il lume,
     Scagliato avesse più d’un suo volume.

E aggiunger devo ancor, che nonostante
     Fosser molti venuti ad armi corte,
     E adoprasser quell’arma, onde il furfante
     Sempre si tien dell’onestuom più forte,
     Nessun morto restò, sia che di tante
     Birbe disdegno avesse anche la Morte,
     O fatti essendo al velenoso stile,
     Forza in lor non avesse il ferro ostile.

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L’attentato feral, l’alto scompiglio
     Il gran Protocordone accorto rese,
     Tal che gli crebbe in corpo un buon consiglio,
     Sì buon che meraviglia anch’ei ne prese:
     Devo, egli pensa, a sì mortal periglio
     Esporre ancora il mio vetusto arnese?
     O non potrebbe in quest’orrendo ballo
     Da pompa e da pompier far Baraballo?

Egli che tuttodì da noi riceve
     Sì grati ufficj e sta del regno in cima,
     Definir può la lite e l’aurea in breve
     Ridare a noi tranquillità di prima;
     Con un servigio più proficuo e lieve
     Che versi attorcigliar privi di rima,
     Può da lungi smorzar l’ire omicide,
     Tal che si dica poi: Vinse e non vide!

Il provvido consiglio ai duci esposto,
     Tanto se ne mostrâr contenti e grati,
     Che furon dalle due parti bentosto
     Quattro eroi scelti e a Barabal mandati.
     Lo trovarono assiso in un tal posto,
     Ch’effluvj concedea non troppo ambrati,
     E dove come un dio spesso egli gode
     Fra lampi e tuoni edificare un’ode.

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Qual cane intento a rosicchiare un osso,
     Senza l’opra lasciar digrigna i denti,
     Sol che un simile suo di lui men grosso
     Farglisi accosto e riguardar si attenti;
     Così non di pudor ma d’ira rosso
     Ai quattro araldi a riverirlo intenti,
     Senza punto lasciar l’opra interrotta,
     L’irsuto Barabal freme e borbotta.

Ma coloro, che il san lubrico all’ira
     E san che l’oro i più ribelli acqueta,
     Tratta fuori di sacca un’aurea lira,
     Fan ciò che a Tebe il Niobeo poeta;
     Come il suon ode e il buon metallo ei mira,
     Non pur la ghigna spiana e il core allieta,
     Ma sorge lesto dall’olimpio trono,
     E allegro sculettando accetta il dono.

Saputo poi, che nell’orrenda lite
     Egli è dalle due parti arbitro eletto,
     Rimasticando le proposte udite,
     Il ciglio aggronda, e mugghia alfine: accetto;
     Poi confortato il sen con l’acquavite,
     Narra la fama, egli si pose a letto,
     E il cervel si stillò con tale ardore,
     Che quel dì non russò più di dieci ore.

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E la sentenza sua, circa al gran callo,
     Ridotta in brevi termini fu questa:
     Considerato ben, che polpa e callo
     Son sinonimi, e Plinio anche l’attesta;
     Visto ch’anco le mele hanno il lor callo,
     Cioè la polpa, è cosa manifesta,
     Che se Ovidio nei piedi e nel sedere
     Ebbe polpa, anche calli ebbe ad avere.

È perciò sua precisa opinione,
     Che se lo stesso è il dire o calli o polpe,
     Tutti e due gli avversarj hanno ragione,
     E se colpe han, son d’ambedue le colpe.
     Così l’alto dissidio egli compone
     Con parer mezzo ciuco e mezzo volpe:
     Chè fra due pronti a sbudellarsi, è bue
     Chi non dà la ragione a tutti e due.

Come il responso dodoneo fu udito,
     La città tutta, a cui non parea vero
     Che il litigio feral fosse finito,
     D’un gaudio gongolò pieno e sincero;
     Ritornò a tutti il sonno e l’appetito,
     Mutossi il tosco in latte, il fiele in siero;
     Tutti sentian salir fin sopra gli occhi
     Un dolce umore e scendere ai ginocchi.

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In memoria del fausto avvenimento
     Un novo ordin creò Testadilegno,
     Che sanzionato poi dal Parlamento,
     Fu conferito a chi ne fu più degno:
     I cavalieri in tutto furon cento,
     Un medaglione al collo era il lor segno,
     Una bacchetta con un bussolotto
     L’impresa; Ingegni e non Ingegno il motto.

Al saper questa nuova istituzione,
     Che fu chiamata l’Ordine del Callo,
     E della quale il primo gran cordone,
     Come suppor si può, fu Baraballo,
     Si sviluppò per entro alle persone,
     Ch’erano più o meno entrate in ballo,
     L’impetuosa malattia secreta
     D’incoronar l’altissimo poeta.

Secreta ho detto, ma bentosto esplose,
     Occupò, dominò tutte le menti;
     La Fama tra le chiappe il trombon pose
     E soffiò la notizia a’ quattro venti;
     Ci fu chi ’l trionfale inno compose,
     Chi ammannì gli ammenicoli occorrenti;
     Molti imbastiron versi in vario stile,
     Stile barbaro intendo, e non civile.

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Apparecchiata alla pomposa scena
     E ornata d’orifiamme e di ghirlande
     Della città fu la più vasta Arena,
     Che chiamata fu poi dell’Atto Grande;
     Piantârvi in mezzo, a renderla più amena,
     Una quercia, ch’avea maschie le ghiande,
     Ed un alloro che tra’ rami belli
     Più paja avea di penduli baccelli.

L’alba sacra alla festa alfine è chiara,
     Se più chiara dell’altre ognun se ’l pensi,
     Ed all’Arena, o per dir meglio all’ara,
     Tutti accorron dovunque in flutti immensi;
     Molti per aver posto, in aspra gara
     Tra ’l pigiare e il lottar perdono i sensi;
     Molti a suon di pedate e di cappiotti
     V’entrano a calli pesti e a musi rotti.

Campo non fu che in quel mattin solenne
     Sentì del duro agricoltor la mano;
     Sciolto da’ consueti oblighi venne
     Perfino il bue dall’avido villano;
     Dal prender volo ogni cassier s’astenne,
     S’astenne dalle cacce il pio sovrano,
     Dall’erba i tauri, dalle pere gli orsi,
     E i tribuni plebei dal far discorsi.

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Un rullio di tamburi, un suon d’evviva,
     Uno scoppio d’applausi e di petardi
     Annunzia al mondo, che il gran vate arriva:
     È il tocco appena, e già parea sì tardi!
     La curiosità divien sì viva,
     Di tanto desiderio ardon gli sguardi,
     Che nelle autorità nasce il sospetto
     Non l’abbiano a squartar per troppo affetto.

Da quattro alunni suoi portato a braccia
     (Oh gloriosa gioventù latina!)
     Il monocolo mostro ecco s’affaccia
     In costume gentil di ballerina:
     Un corpettin celeste il sen gli allaccia
     Guernito a’ lembi d’un’aerea trina;
     L’anche gli adombra un gonnellin di velo,
     Il resto è nudo, ma lo copre il pelo.

A far più memorabile il successo
     Della festiva cerimonia e insieme
     A dimostrar che a lui tutto è permesso,
     Ch’ei fa ciò che gli pare e nulla teme,
     Appena entrato, ei dà l’ordine espresso,
     Che sia del Circo alle due parti estreme
     Legata, non però troppo in tirare,
     Una corda su cui vuol manovrare.

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Su la punta dei piè, con cadenzato
     Passo a mezzo l’Arena indi s’avanza,
     E facendo uno scoscio un po’ arrischiato,
     Riverisce la nobile adunanza;
     Poi con bel garbo d’orso ammaestrato
     Fatte due pirolette e una mutanza,
     Un salto spicca alla distesa fune,
     L’afferra svelto, e su vi adagia il clune.

Con lieta faccia e con modesto orgoglio
     Si dondola da pria tranquillamente,
     E par dica: ti voglio e non ti voglio,
     Conosco l’arte di gabbar la gente;
     Poi sorge in piè, come un sovran sul soglio,
     Squassa la fune, e lanciasi repente,
     Ed or salta, or s’accoscia, or dà un tal crollo,
     Che grida ognun: s’è scavezzato il collo!

Ma, non che scavezzarsi alcuna cosa,
     Il destro saltator spicca una coppia
     Di capriole, e in furia turbinosa
     Gira così, così la furia addoppia.
     Che non sol l’arte sua meravigliosa,
     Ma meraviglia par s’egli non scoppia,
     E meraviglia più, ch’ei non ha l’ali:
     Apprendete a girar quindi, o mortali!

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Alfin ristette, e al convenuto segno
     Saltabellando usciron due donzelli
     Per porgli in capo il lauro, ond’egli è degno
     Assai più che le anguille e i fegatelli;
     Ma perso l’equilibrio ed il contegno,
     Ei fa in quel punto un giro tal, che quelli
     Gli assettano l’alloro in modo strano
     Su la sede central del corpo umano.

Un urlo alzâr le ammiratrici torme,
     S’indignò l’alto popolar consesso;
     Ma Baraballo con modestia enorme
     Dichiara, che per lui torna lo stesso,
     Ch’ogni parte del corpo è in lui conforme,
     Che più grato anzi gli è l’onor concesso,
     Ch’essendo ei novatore e all’uso opposto,
     È ragion che l’alloro abbia in quel posto.

I concenti, le danze, i fuochi, il carro,
     Sopra cui Barabal fino alla notte
     Fu portato in trionfo, io non vi narro;
     Dirò solo, che il carro era una botte;
     E aggiungerò ch’ei non avea tabarro,
     Ma in cambio del tabarro avea tre cotte.
     E tornando ad Esperio ed all’amica,
     È necessario ch’al lettore io dica,

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Che verso sera s’avviâr bel bello
     Alla riva soggetta; e qui d’un salto
     Rimontati sul magico battello,
     Sciolser la doppia fune e preser l’alto.
     Scivolava il legnetto agile e snello,
     Sul mare che parea purpureo smalto,
     Fin che fûr presso a un’isoletta strana,
     Mobil sull’onda e di sembianza umana.