Un tal Protocordone, uom di mestiere
Incerto, e anfibio d’animo e di forme,
È l’inventore, il fabbro ed il pompiere
Della proboscidal macchina enorme;
Maneggiare ei la sa come un clistere,
Ben ch’ora il poverin, fra tante torme
D’ira frementi e di vendetta ingorde,
Non raccapezzi il sacco dalle corde.
Pur si fa core; ed al comando avuto
Di puntarla ai nemici e di far acqua,
Così le fa schizzar ciò c’ha bevuto,
Che a più d’un di là entro il corpo sciacqua;
Molti drizzano in lei lo strale acuto,
Ma gelida, perpetua essa gli annacqua,
Tanto che alfin, maledicendo al Callo,
Sentono rammencir la cresta al gallo.
Non tu, pro’ Zebedeo: Dunque daremo,
Fra sè dicea, sì scandaloso esempio,
Da mancare a noi stessi all’uopo estremo
E ad un branco ubbidir maligno ed empio?
Ed io, che nulla spero e nulla temo,
Vedrò del Callo di Nason lo scempio?
Basterà dunque un po’ di broda, o Dio,
A sommerger l’ingegno e l’onor mio?