All'erta, sentinella!/II
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II.
Sdraiato nella sua poltrona, dopo pranzo, il direttore del Bagno penale leggeva il giornale, attentamente, da cima a fondo, con tanta lentezza come se volesse imprimerselo nella mente: lo leggeva, assaporandolo e meditandolo, come fanno quelli che vivono lontano dai grandi centri, isolati ma non indifferenti, relegati da qualunque società, ma curiosi di qualunque movimento della vita. Ogni tanto, però, il buon direttore, sulla cui onesta faccia, in famiglia, si dileguava la freddezza e restava la naturale grande bontà, crollava il capo, come se leggesse delle cattive nuove. Egli era stato un patriota ardente, un soldato valoroso, e il suo coraggio, il suo entusiasmo rimanevano sempre vivi, in quel bagno penale dove lo avevano mandato ad occupare la sua energia: quei giorni, dopo le due fatalità di Lissa e di Custoza, erano molto cattivi per l’Italia, la cui stella pareva tramontare. Egli crollava il capo, malinconico, poichè non aveva potuto battersi nel 1866 come si era battuto nel 1860, pensando che tutto fosse buono per servire il suo paese, anche il vivere fra i galeotti, ma avrebbe preferito mettere la vita sul campo, questa volta, per la patria, anzi che fremere di collera magnanima ed impotente nell’isola di Nisida. Malinconico, come tutti quelli che sono nati per la guerra, candidamente e ferocemente innamorati di essa, e che debbono vivere fra le memorie marziali o fra le speranze lontane.
— Cattive nuove? — chiese la moglie, che, presso il balcone del salottino, lavorava a una camiciuoletta di bimbo.
— Cattive — rispose il marito, senz’altro.
Ella chinò il capo sul lavoro, senza domandare. Aveva chiesto così, non perchè s’interessasse alla politica o alla guerra, ma per rivolgere una parola d’interesse al buon marito, per spezzare quel silenzio che durava da troppo tempo. Era una giovanetta dal volto ovale e pensoso, un po’ impallidito dalla maternità; dal corpo sottile nel semplice vestito di lana nera: ogni tanto sogguardava teneramente verso il bambino che stava seduto in terra, sopra un pezzo di tappeto, tagliando quietamente le incisioni dell’Emporio Pittoresco. Era un pallido bimbo di tre anni, dai molli e ricciuti capelli castani, dall’aria dolce e pensosa come quelli di sua madre, assai tranquillo, innamorato delle immagini, felice quando poteva intagliarne qualcuna, con le sue piccole forbici, assai nitidamente, senza guastare le figurine, senza punzecchiarsi le dita. Restava quieto per ore intiere, solo, seduto in terra, circondato dai fogli sparsi dei giornali illustrati.
— Mario? — chiamò il padre, dopo averlo guardato un po’ con una affettuosa curiosità.
— Papà mio? — rispose il piccolo figlio, levando sul padre i suoi grandi occhi castani, lucenti di bontà.
— Che tagli?
— Certi soldati.
— Sono belli?
— Belli, papà.
— Vieni a darmi un bacio.
Il bimbo si levò subito: era grande per la sua età, ma sottile, sottile come suo padre. Venne a suo padre e gli tese le braccia per abbracciarlo; poi, disciolto, gli appoggiò la testa sulle ginocchia, come se fosse stanco o volesse dormire: il piccolo volto bianco posava, con la leggerezza di un fiore.
— È ammalato? — chiese il padre alla madre.
— No, no — disse lei, subito.
— Fallo uscire — suggerì lui. — Perchè non esci ogni giorno? Gennaro Campanile ha aggiustato la carrozzetta di Mario?
— Sì, sì — disse lei, con voce fioca.
— E ha portata la scansia dei libri, che doveva fare da tanti giorni?
— L’ha portata.
— Non la vedo.
— Grazietta e io non abbiamo avuto la forza di sollevarla e di sospenderla al muro. Non siamo mica molto forti — soggiunse lei, con un pallido sorriso.
— Potevate lasciar fare a Gennaro Campanile, che è abile assai. Egli aveva fatta la scansia, egli la poteva mettere a posto.
La moglie guardò intensamente il marito e una vampa di rossore le salì alla fronte. Egli stesso la guardava, non intendendo.
— Cercheremo di metterla su noi — mormorò poi, come se fosse mortificata della sua trascuranza e del suo rossore.
— Ti stancherai inutilmente, figliuola — disse il marito, con paterna bontà. — Manda a richiamare Gennaro Campanile, oggi stesso: verrà subito e metterà la scansia, là, a destra.
— No, no, — disse lei, precipitosamente: — preferisco stancarmi io.
Egli la guardò, intendendo adesso, e una tristezza gli si diffuse sul volto affettuoso.
— Ti dispiace aver un galeotto per casa? — chiese poi, lentamente.
Ella gli rivolse gli occhi supplichevoli, come per farsi scusare di questo suo ribrezzo.
— Vengono sempre — mormorò con voce fioca, la giovinetta.
— Ti fanno ribrezzo?
— Sì — disse, anche più fiocamente.
— Hai poca carità — disse lui, facendo uno sforzo per parlarle severamente.
— È vero — replicò lei, abbassando il capo, umiliata.
— Sono uomini, sono cristiani, Cecilia.
— Hanno rubato, hanno ucciso!
— Sono uomini e sono cristiani — replicò lui, fermamente.
Ella tacque. Cuciva febbrilmente per celare la nervosità delle dita: e un rossore sottile come una vampa le abbruciava le guancie. Il bimbo, in quel levò la testina, guardò il padre e la madre, tese le braccia per attirare a sè la testa del padre e baciarlo.
— Anche tu odii i galeotti? — gli chiese il padre subitamente commosso, carezzandogli i capelli.
Il figliuoletto lo guardò, candidamente, non intendendo la domanda.
— I galeotti sono dei poveretti — gli disse il padre, sottovoce.
— Poveretti — ripetè il bimbo, con una intonazione di pietà.
Ora il padre aveva piegato e chiuso il giornale, rimettendolo al suo posto, metodicamente, come tutti quelli che fanno una vita isolata e monotona. Con una spazzola si spazzolava il soprabito: era l’ora di andare in ufficio. Il bimbo, macchinalmente, lo seguiva. Egli si accostò alla moglie per abbracciarla ed ella gli disse, precipitosamente:
— Fa pure venire Gennaro Campanile; fallo venire subito, per la scansia.
— No, no, se ti dispiace, cara — disse lui carezzandola come una fanciulla.
— Non mi dispiace, ti assicuro che non mi dispiace — soggiunse Cecilia, facendo un grave sforzo su sè stessa.
— Lascia stare, lascia.
— Uscirò, uscirò col bimbo per l’isola, e solo Grazietta lo vedrà.
— Bene, bene disse lui andandosene.
Ma quando il buon marito affettuoso se ne fu andato al suo penoso dovere, a vivere di nuovo, egli onesto e puro, fra quei ladri e quei micidiali, ella piegò il capo su quello del suo piccolo figlio, bagnando il collo del bimbo col suo pianto. Raro pianto: poche e brucianti lagrime. Quella vita di sposa, di madre, in quell’ambiente singolare, dove la solitudine profonda si alternava colla compagnia folta dei malvagi, ella l’aveva cominciata assai coraggiosamente. Infine, era una povera ragazza, senza parenti e senza dote, che viveva lavorando in casa di una vecchia zia, guadagnando assai scarsamente il proprio pane; e il capitano Gigli l’aveva sposata così, per lei, per affetto pietoso, perchè egli aveva un cuore grande. Non lo sapeva forse che sarebbe andata a vivere in un’isola, fra i galeotti? Lo sapeva, aveva accettato, pensando che si sarebbe isolata, che si sarebbe stretta a quell’uomo buono e generoso, che l’avrebbe consolata di tutto. Era un temperamento sensibile e delicato di donna, che fremeva subitamente di dolore e di tenerezza; ma aveva anche una forza spirituale nell’anima, la forza che hanno le anime, semplici e buone. Era venuta incinta, in quell’isola, negli ultimi mesi: e si era chiusa in casa immediatamente, per sottrarsi a una vista che le faceva ribrezzo. Ma nessuna chiusura di porta o di finestra aveva potuto liberarla dalle voci notturne delle sentinelle che vegliavano. Quante notti senza dormire, udendo quel lungo richiamo, lungo richiamo che si ripetea di quarto in quarto d’ora, insistente, continuo, immancabile! Nella sua casetta, che ella aveva adornata con un gusto semplice, nelle ore della sera, quando, tendendo l’orecchio, ascoltava il rumore del mare, ella poteva immaginare di essere in un’isola, proprio nella bella isola che abitava, fra il cielo e il mare, tra i fiori degli spalti e i profumi che salivano dalle rive: ma una voce, insistente, immancabile, disperdeva il suo sogno, dicendole:
— Bada, questo è un carcere.
Che notti! Mentre il capitano Gigli dormiva placidamente, nel riposo dell’uomo che ha molto lavorato, ella vegliava, con gli occhi aperti, aspettando il richiamo delle sentinelle, guardando la fioca luce della lampada che le disegnava confusamente le più paurose visioni. Fu in una notte di queste, lunga, lunga, che il piccolo Mario era nato: un piccolo figlio gracile che portava in sè tutta la delicatezza del temperamento di lei e nel pallore tutte le tracce degli incubi, dei terrori notturni che ella aveva sofferti. E una parte della poesia che un figlio porta nella casa, fuggiva: il piccolino nasceva in un bagno penale, fra i galeotti: quando si buttava a baciarlo, la madre, vi era qualche cosa di desolato nei suoi baci, come se avesse voluto consolarlo di questo triste ricordo, di questo carattere doloroso! E invano, invano ella aveva cercato d’isolarsi, invano ella aveva studiato ogni mezzo per sottrarre sè e il fanciullo alla vista e al contatto dei galeotti. La culla dove Mario dormiva, era uscita dalla officina di falegnami dove quei disgraziati lavoravano; le prime scarpette, le benedette prime scarpe che fanno vibrare di tenerezza il cuore di ogni madre, erano uscite, le scarpette, dall’officina dei calzolai— galeotti. Come fare? Il capitano non aveva un grande stipendio e non li poteva mandare a Napoli, ogni momento; la roba, dalle officine, costava almeno il terzo di quello che spendeva a Napoli. E lei, per delicatezza, cercava nascondere, con grande premura, il suo ribrezzo, il suo scoramento le sue paure. Quando di dietro i cristalli ella sorrideva a suo marito che se ne andava e lo vedeva a un tratto circondato da un gruppo di galeotti, che andavano da lui per qualche reclamo, ella aveva uno schianto al cuore, stringeva fra le braccia il suo figliuolino, convulsamente.
I galeotti guardavano in volto il direttore, ansiosamente, implorandone la indulgenza, conoscendolo il migliore di tutti, freddo ma dolce, severo ma crudele mai, ed ella in quegli occhi leggeva la minaccia, il furore. Ahi, nulla poteva persuaderla che quegli uomini avessero persa l’abitudine del sangue, nulla la convinceva che non avessero un coltello nascosto nella manica! Non lasciava uscire il suo bambino con Grazietta, mai: le pareva sempre che per vendetta di essere carcerati, per desiderio bestiale di sangue, per l’istinto dell’omicidio, uno di quelli assassini, un giorno, glielo avrebbe ucciso. Usciva, portandoselo in collo, lei, come un’umile madre popolana, senza sentire stanchezza: e quando incontrava qualche galeotto, chinava gli occhi. Costoro la salutavano, cavandosi il berretto, fermandosi a guardare il bel piccolino, obbedendo all’istinto dolce paterno che è nel cuore dei più perversi. Ma ella affrettava il passo, intimidita, quasi fuggiva via col bimbo suo. Uno che incontrava sempre sulla sua strada, era un grande giovanotto robusto, dal volto bianco e dagli occhi azzurri molto femminili, dai capelli rossi: lo incontrava sempre, questo condannato in vita, dal berretto rosso. Parea quasi ch’egli la aspettasse, la giovane madre col bambino: e quando la vedeva passare, guardava, guardava il grande galeotto, coi suoi occhi teneri, guardava, fermato, finchè ella avesse svoltato l’angolo della lunga via. E il tempo che passava aveva potuto mitigare i suoi terrori, vincerli mai. Gracile, pensierosa, ella cercava di vincere con la dolcezza la sua malinconia e il marito trovava in casa una persona sempre affettuosa, sempre paziente. Ella si vergognava di palesare il suo disgusto, aveva vergogna della sua paura: temeva che fossero un rimprovero al buon uomo generoso che l’aveva tolta sì, alla miseria, all’avvenire incerto, ma per buttarla in un carcere. Egli intravedeva, talvolta, un senso di questo ribrezzo e cercava di vincerlo, addolorato, con un vago rimorso. Così il cuore di sua moglie si chiudeva, come soffocato.
Solo in qualche ora, Cecilia veniva assalita da un vago rimorso. In verità, ella era una creatura molto buona, devota piamente al suo dovere, compassionevole a tutti i mali, e quando arrivava a vincere il suo ribrezzo, la sua paura, chiedeva a sè stessa conto della propria ingiustizia, della propria crudeltà. Erano creature umane anche i galeotti, e ogni tanto quel cuore giusto di suo marito che era così severo con loro, diceva a lei dolcemente questa verità: erano uomini e cristiani, forse più disgraziati che colpevoli. E piena di dolore e di pentimento, Cecilia si decideva a sopportare pacatamente la loro vista, quando passeggiava nell’isola, e rendere il saluto quando si cavavano il berretto. Per poco, ahimè, solo per poco! Se sugli spalti erbosi, dove metteva a sedere sul prato il picciolo bimbo che tirava le margherite da terra con le manine innocenti ed ella s’incantava a guardare la vasta distesa di mare, mentre Mario ogni tanto dava in uno strilletto allegro perchè aveva trovato un insetto: se, in quest’oblio di sogno, improvvisamente compariva un uomo vestito di rosso mattone, trascinando penosamente una pesante catena, ella comprimeva un grido di spavento, tratta bruscamente dalla sua pace, dai suoi sogni, impallidendo come a un pericolo di morte, togliendo rapidamente da terra il fanciullo, portandoselo via. E quella campagna, quel mare, quei fiori, tutto quel paesaggio, improvvisamente infamati dalla presenza di un assassino, le facevano orrore. Che fare? Era più forte di lei. Solo, in presenza di suo marito, quanto più poteva, frenava le sue impressioni, sentendo di essere ingrata, sentendo di offenderlo indirettamente: lo venerava come la stessa forma della bontà e della giustizia, ma era una debole e povera donna, una povera donna senza coraggio, carcerata, chiusa in quell’isola, in quel paese di vergogna, di dolore, di punizione, dove tutto si deturpava per la terribile compagnia, il paese e la casa, il suo amore di sposa e il suo amore materno.
Ma quel giorno, proprio, ella era piena di rimorso più di ogni altra volta: innanzi a suo marito era stata sconoscente, quasi rinfacciandogli il suo beneficio. Egli le aveva parlato senza severità, ma seriamente. Quanto era migliore di lei! Le sue rare lacrime brucianti, lacrime di pentimento, avevano bagnato il collo del picciolino, e lui abituato a questi sfoghi solinghi di madre, egli stesso bimbo gracile e melanconico, andava ripetendo sottovoce, carezzandole il viso con le piccole mani fresche:
— Non piangere, mammà; non piangere, mammà.
— No, non piango, — diss’ella, asciugandosi gli occhi, levandosi su. — Ora la mamma sua conduce Mario a passeggiare.
— In carrozza, mamma, in carrozza, — gridò il bimbo attaccandosi alle gonnelle di Cecilia.
— Sì, figlio, in carrozza — rispose ella, reprimendo un sospiro.
Poichè era una grossolana carrozzetta da bimbo, fatta rozzamente da quei galeotti—falegnami e fabbri—ferrai più ferro che legno, stridente, con le catene che essi portavano attaccate alla caviglia del piede e alla cintura, una carrozzetta che era pesante e difficile a spingere e che ogni momento si guastava. Quando era lì dentro, il picciolo Mario era così felice, che non avrebbe mai voluto levarsene: era magro e un po’ debole di gambe, era felice di sdraiarsi su quei cuscini, che la madre stessa aveva imbottiti per renderli morbidi. Era felice di farsi portare in carrozza, per ore intiere, per tutta la vasta isola, socchiudendo gli occhi, sonnecchiando nel suo cappellino di feltro che gli dava caldo alle orecchie. La madre, gracile, dopo un certo tempo si stancava; ma il bimbo si svegliava subito, dal suo dormiveglia, e gridava:
— Spingi, mamma, spingi!
— Un momento, Mario — faceva ella, respirando profondamente.
E restava appoggiata con le mani alla barra di ferro, riposandosi; ma subito, con voce supplichevole, il bimbo ricominciava:
— Spingi, mamma, spingi, ti prego, ti prego.
Ella si rimetteva in cammino, coraggiosamente, senza sospirare. Non avrebbe mai osato mandare a passeggiare Mario solo, in carrozza, con Grazietta la serva; e andare in due ad accompagnarlo, non era possibile: vi era bisogno di lavoro, in casa, e anche temeva vagamente di lasciar sola la casa. Così, quel giorno, come tanti altri, ella si fece trasportare giù per le scale, innanzi alla porta, la pesante carrozzetta dove il bimbo entrò con un salto allegro, dove si buttò a sedere con un senso di delizia. La madre si era messo il cappellino e i guanti: aveva buttata una copertina sulle ginocchia del bimbo. Grazietta, una serva di quarant’anni, silenziosa, stava a guardare.
— Verrà Gennaro Campanile, a mettere la scansia — disse la padrona, con uno sforzo. — Sta attenta, sta attenta.
La serva abbozzò un lieve sorriso: conosceva i terrori della padrona. Era la moglie di un galeotto, Grazietta, di un omicida in rissa: e fedele tacitamente a lui, lo aveva seguito dovunque, da Portolongone a Ischia, da Ischia a Nisida, facendo l’impossibile per mettersi al servizio nella stessa isola, riuscendoci sempre bizzarramente, per un miracolo della volontà e dell’ostinazione. Così, quello che guadagnava, serviva per darlo a suo marito: così due grosse parti del suo cibo andavano a suo marito, e questo sacrificio era compito in silenzio quasi nascostamente, tanta era la paura di esser mandata via dall’isola. Il galeotto, un uomo tarchiato, dall’aria feroce, veniva cautamente alla ferriata terrena della cucina, portava via un piatto coperto, del pane, delle frutta, e se ne andava in un cantuccio a divorare voracemente. Ella rientrava, tutta felice, contenta del suo quasi digiuno; e quando la padrona, involontariamente, le mostrava la sua paura dei galeotti, Grazietta crollava il capo, come donna d’esperienza, compatendo la timida gioventù della signora, convinta che gli omicidii sono disgrazie e non colpe, convinta che questa disgrazia può capitare a tutti.
— Dove vuoi andare? — disse la madre al figliuolo, prima d’incamminarsi.
— Là, là — fece il bimbo, indicando innanzi a sè.
Le vie di Nisida erano larghe come quelle di una piccola città, coi marciapiedi sterrati, ombreggiati qua e là da alberi di acacie che in ottobre erano ancora verdi. Le case, dimore degli impiegati, dei fornitori, dei capifabbrica, dei carcerieri, a un piano, a due piani, avevano l’aria graziosa di piccoli, civettuoli nidi di provincia; il gran corpo del Bagno penale, dormitorii, refettorii, gallerie, infermerie, carceri, restava in mezzo, alto, bruno, come una rocca che dominava tutti quei villini. Ogni tanto a un gomìto della strada che circonda Nisida, fra le case e gli alberi, si aveva la lunga visione del mare soleggiato: una visione di sorriso e di freschezza. Il bimbo, disteso sulla carrozzetta, spalancava gli occhioni, quasi ridendo, e mormorava, vagamente:
— Là, là...
La madre spingeva lentamente la carrozzetta, presa da un infiacchimento, da uno sfinimento, che le veniva da una soverchia eccitata sensibilità; salutava macchinalmente qualche moglie di impiegato, qualche figliuola di fornitore, le sei o sette signore che abitavano l’isola, insieme alle mogli degli ufficiali e passava avanti sempre lentamente, guardando anch’ella il mare che era il sogno del suo bambino. Ogni tanto anche qualche soldato passava: e passava qualche galeotto, di quelli che circolavano liberamente. Ella rispondeva al saluto, chinando un poco il capo: il bimbo, sorridendo, salutava con la mano. Ma ad un certo punto, proprio, il suo sfinimento la vinse: dovette lasciare la sbarra della carrozzetta, sedersi sopra un banco di pietra, pallida, quasi svenuta. Era un posto quasi deserto, dove le case finivano e cominciava la campagna di Nisida. Il bimbo guardava la madre, dal volto sbiancato, dagli occhi socchiusi, e appena osava mormorare, un po’ intimidito, un po’ spaurito:
— Spingi... mamma... spingi.
— Ora... ora... — diceva ella a voce così bassa che pareva un soffio, e il figliuolino non la udiva.
— Vostra eccellenza, posso spingere io la carrozzetta — disse una voce maschia, ma umile.
Donde era sorto quel galeotto dal volto bianco e dai teneri occhi azzurri, così, improvvisamente? Che chiedeva, che voleva? Essa lo guardò, trasognata, sgomenta, come se egli fosse una visione.
— Il piccerillo pesa — mormorò più umilmente il galeotto — la carrozzetta pure. Vostra eccellenza, posso spingere io.
Ella capì, allora. E, pallida di nuovo, con le labbra strette, disse:
— No.
Egli la guardò, tacque per un momento, poi riprese, umilmente, ostinatamente:
— Non è fatica per le vostre mani. Lasciatelo portare a me, questo piccerillo:
— No — disse lei, ancora, incollerita.
— Scusate, scusate l’ardire. Io lo saprei portare senza fatica, il piccerillo. Non abbiate paura — finì di dire con tale tenerezza che la voce pareva piena di lacrime.
— Io non ho paura di niente — disse lei seccamente, levandosi. — Ma non voglio che portiate il piccerillo.
Si alzò, risolutamente, ricominciando con uno sforzo eroico, a spingere la carrozzetta. Egli fece un gesto largo con le braccia; la catena sospesa alla cintura tintinnì sinistramente, ma egli tacque guardando allontanarsi la madre e il figlio. Ella fremeva ancora di collera, come se la medesima umiltà con cui quel galeotto le aveva offerto i suoi servigi, le fosse d’ingiuria. Adesso erano in piena campagna, in una viottola fra i prati, dove venivano a pascere i cavalli di due o tre ufficiali e quelli delle carrette che servivano a trasportare i viveri, dalla spiaggia in su.
— Mamma — disse il bimbo riflettendo.
— Che vuoi?
— Perchè hai detto di no a quel galeotto?
— Perchè così.
Il bimbo tacque sentendo che la voce di sua madre era turbata.
— Ora sei stanca di spingere la carrozzetta, mamma — osservò lui dopo un poco.
— No, caro.
— Levami su, mamma, fammi scendere.
— Resta, caro, resta; andiamo più innanzi, mi riposerò più innanzi.
Camminarono ancora un pezzetto in silenzio; avevano già passate due o tre garitte di sentinella. Il bimbo guardava sempre i soldati, sorridendo loro.
— Mamma — disse il bimbo.
— Che vuoi, caro?
— Quel galeotto voleva portarmi attorno, lontano, sai?
— Sì, sì.
— È un poveretto — osservò il fanciullo, guardandola in volto.
— Chi ti ha detto questo?
— Papà, lo ha detto — rispose lui, trionfalmente.
Ella abbassò il capo, senza ribatter nulla.
— Anche i soldati sono dei poveretti, mamma? — chiese il bimbo, dopo aver pensato, di nuovo.
— I soldati sono galantuomini — rispose subito lei.
— Ecco — disse il piccolo — i galeotti sono poveretti e i soldati sono galantuomini. Io che sono, mamma? Il piccerillo.
— Il piccolo figlio caro caro — disse lei, abbracciandolo, baciandolo, teneramente.
Erano giunti in un campo tutto verde, tutto fresco, tutto fiorito: un muretto che saliva a mezza persona lo divideva da un altro campo, accanto. La madre si fermò e irrimediabilmente stanca si buttò a sedere sull’erba. Il bimbo guardava l’erba e i fiori e il mare, come pensando, troppo pensoso, troppo serio, per la sua età. Un acuto odore di rose era nell’aria, quelle rose delle quattro stagioni che germogliano in un giorno, intensamente vivono per un giorno solo, insieme a un odore di menta, l’erba selvaggia che più si trovava nell’isola di Nisida. Cecilia si rinfrancava dalla stanchezza, mentre il bimbo, in carrozza, quasi sonnecchiava.
— Che profumo di fiori — diss’ella, come fra sè.
Ve ne erano in quel campo, dove stavano, ma più ve ne dovevano essere in quel campo accanto, da cui un muretto la divideva: era forse un orto, che ci avevano messo una divisione? Presa dalla curiosità, si levò su. E ai suoi occhi prima meravigliati, poi sgomenti, uno spettacolo prima doloroso, poi terribile si offrì.
Era un grande campo in declivio: malamente lo chiudeva un muretto di fabbrica, qua e là rovinato e diventato un monticello di sfabbricina, mangiato dall’erba che vi si abbarbicava, corroso dalla pioggia, battuto dal vento, infine una barriera miserabile che si opponeva più al passaggio degli uomini e degli animali e che forse non segnava neppure più il confine di quel campo. Nel campo l’erba cresceva a cespugli ineguali, sul terreno bizzarramente ineguale; un terreno che qui si gonfiava, altrove si abbassava, con ondulazioni come di mare in collera; fra l’erba crescevano a fasci le rose delle quattro stagioni, dopo che vi si erano appassiti i papaveri estivi, lasciando sullo stelo sottile la bacca nera e crocchiante della soporifera. Acuto profumo di erba selvaggia, di rose selvaggie: il profumo violento dei campi abbandonati, dove nessuno va, da mesi e da anni, dove la vegetazione s’inasprisce e si espande solitariamente, morendo, rinascendo, illanguidendosi di nuovo, libera, dimenticata, abbandonata, forse maledetta. Con gli occhi meravigliati Cecilia guardava, cercando bene, cercando meglio, volendo indovinare il mistero di quel campo bizzarramente mosso, come le onde del mare, circondato da un muro, ma pure abbandonato dagli uomini. Vide: vide che ogni tanto, in quattro o cinque punti del campo abbandonato, sorgeva una piccola croce di legno che era stato nero, ma che il tempo e le intemperie avevano scolorito, contorto; alle croci, ad alcune, era attaccato un cartellino giallastro, sporco, su cui eran scritte a mano, con grossi caratteri, incerti, due iniziali e una cifra, quella che il morto aveva portato da vivo, la cifra che la giustizia degli uomini gli aveva dato, in cambio del suo nome. Le croci parevan gettate alla rinfusa, così, come per il capriccio del vento o per l’oblìo degli uomini; forse, caduta una volta, trovate per terra, erano state piantate a caso, dove forse non esisteva più il corpo che dovevano coprire della loro piccola ombra sacra.
Ma Cecilia guardava ancora, come se un ignoto presentimento di dolore, di terrore le dicesse che ancora altro doveva vedere. Ebbene, aguzzando gli occhi, ella vide, vide precisamente, fra il giallore del terreno e il verde dell’erba, biancheggiare, come pezzo di avorio, qualche osso umano. Mal seppelliti, mal coperti di terra, nelle loro casse disgiunte, per il movimento naturale del terreno che germoglia, per il movimento terribile della decomposizione, quei morti uscivano di nuovo sulla terra e le bianche ossa dei morti scintillavano al sole. Il camposanto dei galeotti non aveva becchini. Accanto alla fioritura odorosa della menta selvaggia, fra le rose larghe, a petali cadenti, delle quattro stagioni, germogliavano quegli strani sterpi umani; nè pietosa vanga li ridonava alla terra, se ne vedevano qua e là, un po’ dappertutto, così prepotenti che parevano aver bucata la terra di violenza, così soverchianti che l’occhio spaurito temeva quasi vedersi disegnare e sorgere dalla terra l’intiero scheletro. Cecilia guardava, con gli occhi sbarrati, questa orrenda vegetazione dei morti, questo castigo del mondo che punisce anche dopo la morte, che non concede al cadavere dell’assassino neppure la pietà della tomba profonda, neppure la cura che si ha di qualunque altro cadavere, neppure il riposo estremo alle ossa che hanno spogliato la loro carne. Il camposanto dei galeotti non aveva neppure l’opera di un galeotto ortolano, i cadaveri erano messi giù in fretta, fra quattro assi disgiunte, e nessuno ci veniva a lavorare, a pregare: i morti venivano fuori, quasi che un ultimo, acre desiderio di libertà fosse rimasto in quelle ossa di forzati. E a Cecilia, insieme alla pietà più straziata, un’orribile visione apparve in quella solitudine, la visione di sè, di suo marito, del suo bimbo, morti, seppelliti in quel campo che parea maledetto da Dio, e dagli uomini, seppelliti senza pietà e senza cure, fra la selvaggia vegetazione, in quella terra battuta dal sole e dal vento, la visione di tre cadaveri abbandonati, che risorgevano, portando le loro ossa alla luce fra quelle dei ladri e degli assassini. E un altissimo grido di dolore, di paura le si formò nel petto, ma non uscì, strozzato: ed ella cadde giù, di piombo, lungo il muretto, col viso fra l’erba.
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Quando si riscosse e aprì gli occhi, fra il gran silenzio udì solamente un fruscìo. Il suo bambino era sempre disteso nella sua carrozzetta, ma aveva aperto gli occhi e sorrideva, dagli occhi e dalle labbra sorrideva a quel galeotto grande, alto, dai capelli rossi e dal volto bianco, che sdraiato per terra, gli agitava sul volto, per fargli fresco, per cacciarne le mosche, una larga foglia di vite. Come la foglia di vite passava, il fanciulletto socchiudeva gli occhi e li riapriva, facendo un risolino silenzioso. Due volte, guardando sua madre, lungo distesa, aveva detto:
— Zitto! mamma dorme.
E più piano il galeotto aveva agitato la foglia larga innanzi al volto del bambino, per non far rumore. Quel grande corpo vestito di tela rossastra, sdraiato sull’erba, pareva quello di un colosso bonario, infantile; più lontano, fra i fiori, era buttato il berretto rosso che portava il numero 417 e pareva un papavero, un grosso papavero in ritardo.
Cecilia non sentiva altro, svegliandosi, che una immensa debolezza; appoggiata sul gomito, guardava suo figlio e il galeotto, senza collera, senza paura. Rocco Traetta si era levato su, in piedi, e restava imbarazzato, rotolando la foglia di vite fra le dita. Il ricordo di ciò che aveva visto, le ritornò integralmente, ma senza farla tremare; solo un lieve brivido le passò sulla pelle.
— Andiamo, — disse, levandosi.
E con un garbo dolce indicò la carrozzetta a Rocco; egli raccolse il suo berretto, rapidamente, e si mise a spingere la carrozza, allegramente. Ella andava dietro, fiaccamente, lasciandosi andare, vinta, domata.