All'erta, sentinella!/I
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I.
Nella luminosa e calda ora pomeridiana, il paesaggio napoletano aveva dormito assai, deserto, silenzioso, immobile sotto il leonino sole di agosto. Nella lunga siesta, da mezzogiorno alle quattro, nessuna ombra d’uomo si era veduta, apparendo e sparendo, sulla gran pianura verde dei Bagnoli; sulla larga via bianca, a sinistra, che viene da Posillipo, rasentando l’ultimo spalto di quella collina che è anche un capo, larga via che è la delizia di quanti amano Napoli, stranieri e indigeni, non una carrozza, non un carretto; non una carrozza, non un carretto sulla dritta via, chiamata di Fuorigrotta, e che ai Bagnoli trova il suo primo angolo, voltando per andare a Pozzuoli, a Cuma, a Baia; non una nave sul mare, che sorpassasse il bellissimo capo di Posillipo, per andarsene lontano, linea nera filante, sormontata da un vago piumetto di fumo; non una vela bianca nel canale di Procida; non una barchetta intorno alla verde isola di Nisida, che prospetta, in tutta la sua lunghezza, la spiaggia dolce dei Bagnoli. Durante la siesta, il piccolo stabilimento di bagni marini, sulla spiaggia, era rimasto deserto, lasciando vedere, dalle porticine spalancate e battenti al ponente, i camerini vuoti; l’osteria dei Bagnoli, ritrovo di buontemponi, di duellanti, di amanti, aveva sbarrate tutte le sue finestre, sbarrate tutte le porte delle sue terrazze. Non un canto giungeva, non un grido, non una voce; il mare stesso, luccicante al sole, pareva immobilizzato nel grande sonno degli uomini e delle cose. Solo il ponente aveva soffiato, per qualche tempo, dal mare alla terra, sollevando dei turbini di polvere sulle due strade di Posillipo e di Fuorigrotta, piegando e sollevando i fitti papaveri delle coste verdi, facendo roteare delle picciole trombe di arena bigiastra della spiaggia, facendo agitare le persiane sospese delle case bianche e sfrondando le passiflore sui pergolati delle terrazze, nell’osteria dei Bagnoli. Ma il ponente, si sa, serve a cullare col suo rombo il paesaggio napoletano che dorme, è la canzone che concilia il sonno delle persone, delle case e degli alberi.
Ma l’ora pomeridiana declinava nel lungo crepuscolo estivo, diffondendo una grande dolcezza intorno. Una moglie di marinaio, alta, bruna, magra, dalle gambe color bronzo e dai piedi nudi, uscì dallo stabilimento dei bagni e si mise a raccogliere, dai pali di legno donde pendevano, le lenzuola che il sole aveva asciugate. Portava sul capo una larga paglia bagnata e sfondata, guarnita da un nastro rosso: e cantava allegramente:
E lacce songh’e seta
E buttune songh’e velluto
E o primmo nnamurato
M’a lassato e se nn’è ghiuto!
Ogni tanto, mentre andava raccogliendo un carico di lenzuola, sotto cui scompariva la sua lunga figura, guardava verso la villa Carrano, come se aspettasse. Infatti dalla villa uscì una torma di fanciulletti e di fanciullette, bellissime creature inglesi, condotte dalla governante e dalla cameriera, cariche di sacchi, di provvigioni, di borsette. La marinara si fermò, facendo solecchio con una mano, avendo buttato sopra una spalla tutto il carico delle lenzuola, e i bimbi che l’avevano raggiunta, la circondarono, saltando sulla piattaforma di legno; scuotendo i bei capelli biondi pioventi sulle spalle; sgambettando, malgrado le ammonizioni inglesi della governante, mentre la marinara rideva con la sua larga bocca, dai grossi denti rigati di nero: tre o quattro camerini si chiusero, e dopo dieci minuti, tutta la torma dei fanciulletti e delle fanciullette se ne andava nuotando, fra la dolce spiaggia dei Bagnoli e l’isola di Nisida, coraggiosamente, soffiando, gridando con certe curiose voci gutturali, tendendo le manine, perchè la marinara buttasse loro le ciambelle dall’alto della piattaforma di legno. Tutta la spiaggia parea ridesse, con la marinara e coi ragazzi.
Dalla via di Fuorigrotta qualche carretto giungeva, andandosene a dritta, verso Pozzuoli: carretto di ortolano, vuoto, che aveva venduto in Napoli tutti i pomidoro e tutte le molignane di cui era arrivato carico, al mattino: carretto di vinaio dalle botti vuote, che aveva deposto il suo carico di vino del Monte di Procida, in città; e i carrettieri, seduti sopra uno stretto angolo anteriore del carretto, con le gambe sospese, la giacchetta buttata sopra una spalla, andavano trottando, col carro vuoto che trabalzava e il fischiettìo allegro della loro canzone, che accompagnava il leggero trotto. Passò anche un lungo carro stretto di anfore panciute, rotonde, di creta, chiuse da un tappo di sughero, le mummare napoletane, che erano ancora umide e odoranti acremente dell’acqua minerale, che avevano portata in città: il carrettiere era in camicia e calzoni di tela bianca, scalzo, con un berretto scuriccio e lungo, una corta pipetta da marinaio fra le labbra.
Anche dalla via di Posillipo qualche veicolo compariva: ma erano carrozze cariche di provinciali venuti in Napoli a fare i bagni e che visitavano scrupolosamente i dintorni, non pigliandovi nessun piacere, ma volendo aver l’aria di forestieri: il cocchiere si fermava sulla spiaggia, spiegando che quello era il poligono dei Bagnoli, dove la mattina, all’alba, i soldati venivano a fare le esercitazioni e che quell’isola si chiamava Nisida, Niseta.
— Bella, bella — esclamavano i provinciali, guardando l’isola verde che leggiadramente si specchiava nel mare, già diventato color di acciaio.
Il cocchiere crollava le spalle camminando avanti, voltando per la via di Fuorigrotta, portando i suoi provinciali sotto la grotta. Ovvero era qualche equipaggio padronale che spuntava dalla via di Posillipo, conducente qualche signora bella ed elegante restata a Napoli per combinazione, o per dispetto, o per capriccio, rinunziando ai piaceri del viaggio estivo; e il cocchiere andava lentamente, mentre l’ombrellino grande, bianco, foderato di rosso, circondava della sua aureola una testa pensosa: anche questa carrozza si fermava sulla spiaggia, per guardare la bella isola di Nisida, e mentre la carrozza continuava lentamente il suo giro, verso Fuorigrotta, per ritornare in città, la signora fantasticava che fosse quel punto luminoso, luminosissimo che i suoi buoni occhi acuti avevano scoperto fra il verde, sulla cima dell’isola di Nisida.
Tutte le finestre dell’osteria, adesso erano spalancate, sul mare, sulla pianura dei Bagnoli, sulla via di Fuorigrotta; e sulla grande terrazza coperta dal pergolato delle passiflore, due camerieri assai rustici, ancora sonnacchiosi, tiravano delle tavole greggie, dai piedi dipinti di nero, dove stendevano le tovaglie, mettevano la saliera in mezzo e dei bicchieri di grosso cristallo verdastro, capovolti. A una finestra, due guardavano il mare: una donna giovane, bionda, bianca e delicata, vestita di un semplice abitino di tela azzurra scura, e un uomo sui quarant’anni, bruno, bello, pensoso.
Due volte la donna si chinò verso l’uomo, chiedendogli qualche cosa, con un sorriso, poggiandogli lievemente la mano sul braccio, ed egli parve rispondere vagamente, come pensando ad altro. La donna lo abbandonò alla finestra, senza che egli dicesse nulla, e comparve sulla terrazza, guardando i bimbi inglesi che strillavano allegramente nell’acqua, strappando dal pergolato un largo fiore di passiflora, di cui tirava i petali, coi dentini; ma come affascinata, ritornò a lui, alla finestra, parlandogli sottovoce, indicandogli l’isola di Nisida, lungamente, mentre egli ascoltava, crollando il capo, sorridendo un poco, come consentendo al racconto bizzarro di un sogno.
Anche il mare, nella molle ora del crepuscolo estivo, parea si fosse risvegliato dal sonno della siesta pomeridiana: presso a riva strideano le voci dei fanciulli che si bagnavano, ridendo e schiamazzando, mentre la marinara, rivolta verso la spiaggia, chiamava a distesa: Aniello, Aniello! Adesso tre paranze avevano passato il canale di Procida e venivano verso Pozzuoli, seguendosi, filando sotto la brezza della sera che si levava, senza che si vedesse il moto continuo con cui lasciavano andare in mare la sciabica, la grande rete di quelle fratellanze marinare e pescatrici che sono le paranze. A un tratto, dietro a due lavandaie che tornavano da Napoli per la via di Fuorigrotta, portando sul capo due grossi fardelli di biancheria, si udì il trotto sordo di un cavallo che levava i piedi in misura; veniva anche esso da Napoli, per la strada diritta e polverosa. Era una carrozza nera nera e lunga; un forgone tutto chiuso, che non rassomigliava nè a quello delle Regie Poste, col piccolo coupé innanzi, nè al forgone dove si conducono i soldati convalescenti: era un forgone nero nero, tutto serrato, con gli sportelli di legno sollevati, un forgone che somigliava al carrettone municipale, che porta al camposanto i morti in tempo di epidemia e che la buona gente napoletana non vede passare di giorno, non ode passare la notte, senza segnarsi, senza mormorare sottovoce una preghiera, o senza borbottare uno scongiuro. Ma non era il carrettone dei morti. Il forgone passò rapidamente sotto la villa Carrano, sotto l’osteria dei Bagnoli: una vecchia miss che leggeva sulla porta della villa, aspettando i nipoti che ritornavano dal bagno, inforcò meglio gli occhiali per vedere la negra carrozza; la donnina bionda alla finestra si tirò indietro, come sgomenta, ma la curiosità la vinse, si piegò di nuovo, seguendo con gli occhi la tetra carrozza, ma avendo infilato il suo braccio a quello del suo innamorato come per bisogno di protezione: la negra carrozza passò innanzi al picciolo stabilimento di bagni, dove la marinara, adesso, spazzava la viottola di legno innanzi ai camerini, e la meraviglia la fece restare immobile, col grosso bastone della granata fra le mani: i fanciulli che si erano sdraiati, nei loro vestitini da bagno, di maglia, sull’arena calda, si levarono su, sorpresi. Il negro forgone si era fermato sull’arena, poco lontano da loro; la porticina di dietro, l’unica sua porta, si era aperta, ne era sceso un carabiniere, poi un altro; nella penombra cupa del forgone si scorgeva un altro pennacchio rosso. Pazientemente i carabinieri aspettavano, fermi sull’arena, sogguardando cautamente, ogni tanto verso Nisida: uno di essi, l’appuntato, si piegò verso la porticina aperta sempre, come per discorrere con coloro che stavano ancora dentro il forgone; parlamentò per due o tre minuti, col capo abbassato nel vano nero, poi si scostò un poco. Un altro carabiniere discese; e infine discese un uomo, un giovane, con un salto solo senza toccar la predella, restando diritto, immobile e taciturno tra i tre carabinieri che formavano, intorno a lui, uno stretto triangolo. Dalla villa Carrano, dall’osteria, dalla via di Posillipo, di Fuorigrotta, dai bagnetti si guardava intensamente. Alla comparsa dell’uomo, improvvisamente, fu un grande silenzio intorno: e un pallore mortale scolorò tutte le cose sulla terra e sul mare, come se il gran paesaggio e i suoi abitanti fossero stati vinti da un profondo brivido di emozione.
Egli era un giovanotto di venticinque anni, alto, forte, un po’ curvo di spalle: il suo volto era bianchissimo, di una bianchezza fitta, opaca, di latte, la muliebre bianchezza di coloro che hanno i capelli rossi: e nel bianco volto, dalla pelle intatta, senza un pelo, appena appena macchiata di qualche rara lentiggine, egli aveva un paio di occhi azzurri, di un azzurro tenerissimo, occhi grandi e sereni e quasi candidi, come quelli di un fanciullo innocente. Vestito di un vecchio calzone verdastro, tutto macchie e sfilacciato all’orlo, di una vecchia giacchetta di lanetta marrone, attraverso cui si vedeva la camicia bianca, non avendo egli panciotto, con un berrettino nero bisunto che lasciava vedere la criniera rossa, fulva, egli restava tranquillo sotto quella ignobile livrea della miseria, respirando fortemente la brezza marina, come se fosse felice di quell’aria. Solo le sue mani erano incatenate: non già con le manette, che si chiamano in volgare della polizia castagnole e che stringono i due pollici, non già con le semplici manette che uniscono i polsi, ma incatenato con una vera e propria catena, che girava due volte intorno ai polsi, e si chiudeva in un grosso lucchetto, una specie di gioiello lugubre carcerario. E tutti gli occhi di coloro che guardavano questa scena, vecchi e fanciulli, donne e uomini, invariabilmente si volgevano a quella catena. Pure, egli non pareva soffrirne; non si guardava le mani, non cercava di sollevarle, quieto, dandosi evidentemente al piacere di respirare, egli che veniva da un carcere di pietra, chiuso e soffocante. Se quella catena non fosse stata, forse, tutti intorno non lo avrebbero guardato più: mentre quel giro di ferro, solidamente saldato, che ne avvinghiava i polsi, affascinava tutti quanti. Poteva essere un uomo, come tutti quanti, libero, contento, venuto colà per qualche affare di carcere, coi carabinieri, poteva essere un impiegato, o un liberato, o un testimone, o un parente di qualcuno che abitasse colà. Ma la catena che lo legava nei suoi invincibili anelli di ferro, era la sua qualità, il suo nome, la sua storia; la catena che è la condanna, la catena che è la parola dell’orrendo mistero. Ah invano egli era forte, giovane, dal volto bianco e delicato, dagli occhi azzurri qual bimbo che ignora il male; invano se ne stava tranquillo senza guardare la gente e senza sfidarla, vinto dalla dolcezza del gran paesaggio; invano egli avea l’aria semplice e pacifica, sogguardando ogni tanto con ingenua curiosità l’isola di Nisida — invano, poichè quella catena era il dramma truce, sanguinolente, quella catena diceva a tutti che egli era un essere pernicioso, malvagio, condannato dalla giustizia degli uomini, condannato dalla legge.
La catena, la catena! Era quella che faceva tacere, in un profondo silenzio, le risa dei fanciulli, la voce grossa della marinara, il richiamo allegro dei pescatori, le parole d’amore della donnina bionda alla finestra, lo scoppiettìo della frusta dei cocchieri avviati a Pozzuoli, la canzone dei carrettieri di passaggio. La catena! Era l’incubo di tutti, quel ferro implacabile che immobilizzava l’uomo; e l’uomo era un ladro, un micidiale, forse. E tutta la gran campagna verde e fiorita, intorno, tutto il bel mare profondo e colorito che circonda Nisida, come un lago poetico, e l’isola istessa sorgente dalle acque come un fresco boschetto di verde e di fiori, sembravano, nella improvvisa tristezza che li aveva colpiti, soffrire l’oppressione di quel ferro incatenatore; e le cose sembravano da quell’apparizione della perversità, della crudeltà, deturpate, violate nella loro innocenza, per sempre turbate, per sempre corrotte dalla presenza infame di un micidiale.
Ma una barca si distaccò dalla riva dell’isola fiorita e venne vogando verso la spiaggia dei Bagnoli: la conducevano due barcaiuoli vestiti di un turchiniccio scuro con berretti neri. Quieti, taciturni, i due barcaiuoli si piegavano sui remi che aprivano le onde, quasi senza rumore; e approdarono presto, con un urto sordo. Imbarcarono prima due carabinieri, poi il condannato con passo sicuro e con aria disinvolta, poi il terzo carabiniere: appena la barca si distaccò dalla spiaggia dei Bagnoli, il nero forgone che aveva aspettato l’imbarco voltò e sparve rapidissimamente per la via di Fuorigrotta, verso Napoli. Ora la barca, col suo carico, se ne andava a Nisida: più lentamente andava, mentre più profondamente si chinavano i barcaiuoli sui remi, come se assai pesante, assai pesante fosse il carico. Per quel mare bello, sospiro di amanti e di poeti, felicità dei marinari dei pescatori, per quel bel mare che è la lietezza dei fanciulli e dei poveretti, la barca del condannato andava, tetra, silenziosa, più tetra e più silenziosa che se portasse un cadavere. I carabinieri fedeli, seduti intorno a lui, non gli levavano un minuto l’occhio di dosso, più attenti, più zelanti, temendo di quel pericoloso tragitto di mare, sopra una barca, donde egli, forse, poteva tentare di buttarsi in mare: lo guardavano negli occhi, quasi che la pratica avesse loro insegnato, a quei semplici soldati, che la più nascosta volontà dell’uomo ha sempre un rapidissimo fulgore negli occhi. Ma il condannato, certo, non pensava a fuggire: sul mare conservava la sua tranquillità, come quando era sceso dal forgone. Anzi, si guardava intorno, con un certo piacere, come se fosse contento di quel viaggio per mare, all’aria libera, in quel cullante moto della barca. Teneva in grembo le mani incatenate, così, come se le avesse incrociate per un moto naturale: solo, taceva, fra il silenzio dei carabinieri e dei barcaiuoli del carcere. Ogni barca che attraversa il bel mare, barca di diporto rossa, per le cupole fiammanti degli ombrellini muliebri, o rude barca di lavoro, è piena di voci gioconde, di donne, di fanciulli, di pescatori; solo questa, cupa, taceva, portando con sè il condannato e la sua scorta, muta, tetra, portante via al castigo una tragedia umana.
— Eccoci — disse come fra sè, il condannato.
La barca aveva urtato contro il piccolo approdo di pietra dell’isola: i barcaiuoli la tenevano ferma, tenendola stretta a un forte piuolo dell’approdo. La scorta scese, sempre nell’ordine come era salita, tenendo fra sè il condannato.
— Fra poco — disse l’appuntato al primo barcaiuolo.
— Va bene.
E la salita all’isola cominciò, sopra la larga via saliente fra gli alberi, un gran viale ombroso, pieno del canto degli uccellini al tramonto. Mentre giù, all’approdo, già imbruniva, come salivano in su, in su, continuamente, trovavano ancora la luce delle sfere superiori. Il condannato levava il capo come se tutte quelle voci della natura lo inebbriassero. La via era lunga ma saliva senza sforzo all’alta sede dell’isola, saliva con dolce ascensione, come il largo viale di un parco, come se conducesse a un castello, sede del lusso e dei piaceri. Solo, ogni tanto, fra i boschetti d’alberi e le siepi delle rose, qualche cosa luccicava, ma il condannato non lo vedeva, guardava innanzi a sè, felice di quella lunga passeggiata, nella campagna, egli che aveva tanto girato, fra quattro pareti di pietra, come una bestia in gabbia. Solo, a un certo punto, come egli andava, quasi senza curarsi della scorta, udì un lieve movimento fra gli alberi: l’orecchio acuto del prigioniero lo colse, indovinò che fosse: ed egli impallidì, intendendo che era una sentinella, intendendo che quel luccicare era la canna di un fucile. Impallidì mortalmente e crollò il capo, come se gli fosse sfuggita una grande illusione. Forse, un momento, malgrado la catena, malgrado la scorta, ingannato da quel paesaggio campestre, aveva creduto di essere libero: un istante.
Nè più potette rifare questo sogno. Erano giunti a un muro di cinta, a una grande porta di ferro, sbarrata, guardata da una sentinella. L’appuntato mostrò un foglio: la sentinella depose il fucile e andò aprendo tutti i grandi catenacci della porta di ferro: essa si schiuse con un sibilo metallico, si richiuse pesantemente, dietro la scorta e dietro il condannato. Ora si trovavano in una piazzetta, circondata da piccole case a un piano, gli uffici del Regio Bagno Penale di Nisida. L’appuntato, che era pratico, si diresse verso una casa del centro a due piani, questa, ed entrò in un ufficio al pianterreno. Era magramente mobiliato, con due scrivanie, un divano, qualche sedia, il crocifisso, il ritratto del Re. Uno scritturale scarno, pallido, con la testa già spiumata, vestito miseramente, scriveva in un suo grande registro.
— Non vi è il direttore? — chiese l’appuntato.
— Ora viene — rispose lo scritturale.
E riprese a scrivere, senz’aver degnato neppure di uno sguardo il condannato. Entrò il direttore. Era un uomo sui quarant’anni, forte, alto, con una fisonomia bonaria ma seria. I carabinieri fecero il saluto militare. Egli salutò, diede un’occhiata di sfuggita al condannato e andò a sedersi alla seconda scrivania. L’appuntato gli diede il foglio di consegna.
— Come vi chiamate? — chiese il direttore al condannato, per la verifica.
— Rocco Traetta, — rispose colui a voce bassa.
— Non avete un soprannome?
— Mi chiamano Sciurillo.
— Di dove siete?
— Di Napoli.
— Anni?
— Ventisei.
— Del fu? — disse il direttore, levando il capo.
— Del fu Gennaro — disse, senza tremare, il condannato.
— Condannato per parricidio — soggiunse il direttore, chinando un po’ il capo, come se avesse rabbrividito.
Rocco Traetta non rispose. Aspettava qualche altra domanda. Intanto lo scritturale aveva registrato questo nuovo galeotto.
— In vita? — chiese lo scritturale al direttore, con indifferenza.
— In vita, — costui rispose brevemente.
— Numero 417, berretto rosso — scrisse sopra un suo foglio lo scritturale.
Il direttore suonò un campanello. Un uomo vestito di grigio, con un berretto nero, si presentò.
— Alla vestizione — gli disse il direttore, consegnandogli un foglio e indicandogli il condannato.
Rocco Traetta uscì dietro il carceriere: i carabinieri restarono in direzione. Ora era solo col carceriere, ma questo andava innanzi, leggendo il foglio, quasi non curandosi del condannato. Passavano fra le strade del Bagno, strade larghe, coi marciapiedi e con qualche albero di acacia, già fiorito. Da una parte e dall’altra sorgevano degli edifici di uno o due piani, non più alti. Finestre adorne di qualche vaso di fiori, dietro le graticciate di ferro. Voltarono due o tre volte, il carceriere sempre dinanzi. Alla fine entrarono in un camerone già scuro, dove, in fondo, un gran fuoco di cucina ardeva e due fabbri battevano sopra una incudine. Un altro carceriere sedeva sopra certi sacchi. La vestizione di Rocco Traetta fu fatta in un momento: camicia grossa di tela, calzoni, panciotto, giacca di un filato color mattone scuro, berretto di un rosso vivo, tutto ciò stampigliato al numero 417. Gli avevano, per vestirlo, levata la catena dalle mani e l’avevano buttata in un cantuccio. Ma la saldatura della catena di galeotto, al collo del piede, fu un affare lungo piuttosto. Accovacciato per terra, i due fabbri martellavano il ferro caldo alternativamente.
— Non è stretta? — chiese uno di loro, a Rocco Traetta.
— No, è giusta — disse lui, che già si sentiva un peso insopportabile.
La catena era lunga più di un metro.
— Mi legheranno con un altro? — chiese lui, fingendo indifferenza.
— No — gli rispose il carceriere. — La catena puoi sospenderla alla cintura.
Difatti vi era un uncino nella cintura dei calzoni: pure, sospesa così, la catena pesava molto e il suo anello di ferro, saldato intorno al piede, dava un senso acuto, continuo d’intolleranza.
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Quando suonò il silenzio, alle nove, sopra l’isola di Nisida e il mare, era una profonda e molle notte stellata. Quella folla di galeotti a cui Rocco Traetta si era mescolato macchinalmente lo aveva accolto con una invincibile diffidenza, scostandosi da lui, non rispondendo a qualche sua rara domanda, guardandolo biecamente; alcuni lo avevano accolto con una gelida indifferenza: le due grandi note istintive di quelle folle di colpevoli, le due note bestiali, brutali sono appunto la paura, una paura vaga, indistinta, grande, di tutto, di tutti, e un egoismo basso, cupo, crudele. Egli era andato con loro alla cappella, una grande chiesa nuda, imbiancata di fresco, dove quella folla si era messa su certe panche di legno: e metà di essi, in vero, pregavano, alcuni con un fervore di fede, levando talora la voce, come se li premesse una emozione soverchiante, alcuni con un ardore d’ipocrisia, che si leggea sui volti pallidi, sulle bocche sottili, negli sguardi obliqui. Nella chiesa i berretti verdi e i berretti rossi, con quel numero cucito in bianco, che è il solo nome del galeotto, erano tutti via, e le prime ore della sera cadevano su quelle centinaia di difformi teste di delinquenti. Ma i custodi, malgrado la misticità del luogo e dell’ora, stavano ritti sogguardando così acutamente, temendo sempre la sorpresa: e nel grande silenzio, alla sottile voce del prete vecchio, che dava la benedizione, si udiva unirsi solo il mormorio di quelli che pregavano, e uno scricchiolìo monotono, incessante, quello delle catene smosse ogni momento, rialzate penosamente, alle volte cadenti con un gran rumore di ferro.
Raggricchiato in un angolo, Rocco Traetta era stato vinto da una grande timidità: e senza pregare, senza parlare, non sentiva altra sensazione acuta che il peso insopportabile di quell’anello di ferro, al collo del piede, e per non fare stridere la sua catena, per non udirne il tormentuoso suono, teneva la mano alla cintura dove l’aveva sospesa. Una oppressione crescente scendeva sulla fibra di quel giovane tranquillo e forte, che era stato così felice di lasciare il carcere di S. Francesco di Napoli, un carcere di pietra, per essere condotto in un’isola fresca, aperta, ridente. Che gli importava di quella preghiera? Acutamente lo feriva soltanto il rumore di tanto ferro scosso; sentiva che ogni galeotto era oppresso da quella che era parte della sua vita, indivisibile; sentiva che ogni galeotto si muoveva, tormentato da quel peso, quasi ad alleviarne la pena; e preso da un gran dolore ignoto, Rocco Traetta, il parricida, stava immobile, inabissato nell’accasciamento, non udendo del suo corpo giovane e robusto che il collo del piede legato dal ferro. A un tratto, dopo due o tre minuti di silente aspettativa, il prete levò su il Santissimo Sacramento, a benedire quei ladri e quei micidiali: e i galeotti tutti si buttarono giù, inginocchiati. Fu tale un fracasso di ferro, come se rovinasse una forgia, e, trascinato dal movimento, Rocco Traetta si buttò giù anche lui, e la catena, ribattendo, cadde su lui, sulla gamba, sul fianco, pesante, fredda. Ah no, non era fantastico Rocco Traetta, era una creatura primitiva e crudele, ignorante e feroce; ma mentre il Salvatore, dalla sua spera scintillante d’oro, girava nelle mani tremanti del prete, egli si sentì coperto da quella catena, preso, vinto, tutto, sempre, sino alla morte. E la imperante idea della fuga, quella idea che è in fondo a tutte le coscienze, anche dei più disperati, gli sgorgò dall’anima come una preghiera.
Perchè no? Mentre andavano alla cena, nel grande camerone, mentre mangiavano avidamente quelle patate bollite nel pomodoro, prese dal grande mastello nelle scodelle di latta, avidamente, come tante bestie affamate, egli pensava che avrebbe dovuto fuggire, necessariamente, trovare un mezzo, una astuzia, nella notte, e buttarsi giù, nel mare, fuggire. Le vie di Nisida pareano così poco guardate, e il senso dell’altezza gli era sfuggito, in quel primo giorno, tanto che il sogno della fuga gli andava crescendo nella mente, come se non potesse essere difficile a lui giovane e forte, a lui astuto, tentare, con l’audacia e la furberia, la liberazione. Preso dal suo ardente desiderio, mentre passeggiavano, dopo la cena, in un grande cortile, egli andava attorno attorno, trascinando la sua catena, senz’accorgersi della sua furiosa passeggiata, divorato dalla sua visione di fuga. In alto, sul cortile, brillava la molle notte stellata; e lui vi volgeva gli occhi, sentendo più acuta, più folle la smania della libertà.
Suonava il silenzio. Per isquadre, attraversando le deserte vie di Nisida, guardando la campagna dai Bagnoli e Pozzuoli tutta brillante di lumicini, i galeotti tornavano ai loro dormitorii. Giusto, il grande camerone, dove aveva avuto assegnati una pancaccia, uno strapunto e due grosse lenzuola, Rocco Traetta, aveva un finestrone largo, donde si vedeva il cielo stellato e il mare fosforescente; un finestrone, che restava sempre aperto, troppo essendo insopportabile, col caldo, l’odore di quei corpi umani. Come il gas fu abbassato, come fu suonata la campana seconda del silenzio e già molti dei galeotti di quel camerone russavano, Rocco Traetta guardava quel pezzo di cielo e di mare, dal suo letto. Stridevano, come sempre, a ogni movimento dei galeotti, le catene, le indivisibili catene, glaciali compagne di letto, e il loro rumore eccitava la fantasia di Rocco Traetta. Come sarebbe stato facile fuggire, da quel finestrone.
Ma, ad un tratto, da lontano lontano, una voce si udì, fievole, ma precisa:
— All’erta, sentinella!
Meno lontano, dopo un minuto, un’altra voce disse:
— All’erta, sentinella!
Ancor meno lontano, una terza voce, sonora, forte, chiamò:
— All’erta, sentinella!
Prossimamente, una voce chiamò:
— All’erta, sentinella!
E infine la voce scoppiò sotto il camerone dove non dormiva Rocco Traetta, e dopo se ne udirono delle altre, più lontane, più fioche, facenti il giro dell’isola. E di nuovo, per la risposta, e voci si rimandarono, sonoramente, questa risposta:
— All’erta sto!
Poi, tutto tacque. Rocco Traetta, avvilito, andava riordinando i lembi lacerati del suo sogno. Ma non appena aveva cercato, nella notte, di riprendere coraggio, dopo quindici minuti, di lontano lontano la prima voce ricominciò:
— All’erta, sentinella!
E le lunghe, sonore, quiete voci si andarono alternando, passarono di nuovo sotto il finestrone di Rocco Traetta, si allontanarono; di lontano, dopo aver fatto il giro dell’isola, la risposta risuonò, chiara, squillante:
— All’erta sto!
Ogni quarto d’ora, ogni quarto d’ora. Come un incubo. Quando quelle voci si chiamavano e si rispondevano, si udiva il rumore delle catene, i galeotti si agitavano, nel sonno, sui duri letti loro. Ma Rocco Traetta non dormiva, no; trabalzava ogni quarto d’ora. Le buone voci fedeli dei soldati dicevano: — Noi vegliamo, noi siamo qui, armati, pronti, con l’occhio acuto; noi non faremo fuggire nessuno, mai; noi vegliamo, nulla può far tacere la nostra voce. Egli fremeva, nella notte, di collera impotente: l’incubo l’opprimeva. Ogni quarto d’ora, era terribile. Nella notte stellata, sul mare, le voci si prolungavano, chiare, forti, fedeli. Egli non sarebbe fuggito mai, mai. E a metà della notte, vinto, prostrato, udendo di nuovo, sempre, le voci, il duro cuore del micidiale, del parricida, si spezzò, ed egli pianse.