Vita e morte del Re Riccardo III/Atto quarto
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Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
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ATTO QUARTO
SCENA I
Dinanzi alla Torre.
Entrano da un lato la regina Elisabetta, la Duchessa di York, ed il marchese di Dorset; dall’altro Anna duchessa di Glocester, conducente Margherita Plantageneta, figlia del duca di Clarenza.
Duch. Chi incontriam noi qui? La mia nipote Piantageneta, condotta per mano dalla sua buona zia di Glocester? Per la mia vita! giurerei ch’ella va verso la Torre solo per amicizia; per salutarvi il giovine principe. — Figlia, ben trovata.
Ann. Iddio dia a voi entrambe tutte le felicità.
Elis. Ed anche a voi, buona sorella. Dove andate?
Ann. Alla Torre, e da quanto imagino pel fine stesso che voi qui conduce, per rallegrarci cioè coi giovani principi.
Elis. Grazie, gentil sorella: entreremo insieme, ed ecco appunto il luogotenente, (entra Brakenbury) Signore, vogliate dirci in grazia come sta il principe e il mio giovinetto figlio di York?
Brak. Bene, signora; ma sia con vostra licenza, io non posso permettervi di vederli; il re me lo divieta.
Elis. Il re! Chi è esso?
Brak. Intendo il lord Protettore.
Elis. Iddio lo preservi da questo titolo di re! Ha egli dunque innalzato una barriera fra la tenerezza de’ miei figli e me? Io sono loro madre, chi potrebbe impedirmi la via?
Duch. Sono madre del loro padre, e vo’ vederli.
Ann. Sono loro zia per legge, e loro madre per amore: conducetemi quindi dove essi sono: porterò io la colpa, e fin d’ora vi assolvo.
Brak. No, signora, no; non posso: son stretto per giuramento, onde vogliate scusarmi.(esce. Entra Stanley)
Stan. Signore, se vi incontro fra un’ora potrò salutar voi, duchessa di York, qual degna madre di due regine. — Venite, signora, (alia duchessa di Glocester) venite senza indugio a Westminster per vedervi coronare sposa e regina di Riccardo.
Elis. Oh! io vengo meno a questa mortal novella.
Ann. Sinistro evento! Notizia sciagurata!
Dor. Coraggio, mia madre: come state?
Elis. Oh! Dorset, non parlarmi, fuggi, fuggi: la morte ti è sopra; il nome di tua madre è fatale a’ suoi figli: se vuoi sottrarti alla morte che t’incalza, fuggi, traversa i mari, e va a vivere con Richemond, lungi da queste trame infernali; va, allontanati, allontanati da questo infausto luogo, se accrescere non vuoi il numero degli estinti, e lascia che in me si compia la maledizione di Margherita, e ch’io muoia nè madre, nè moglie, nè regina d’Inghilterra.
Stan. Pieno di saviezza è questo vostro consiglio, signora, — Dorset, approfittate rapidamente delle ore. Vi darò lettere commendatrici per mio figlio, e gli scriverò di venirvi incontro: non vi lasciate sorprendere con un’imprudente dimora.
Duch. Oh vento funesto, che semini le calamità! Oh mio seno maledetto! mio letto fatale! Io generai un serpente, il cui occhio inevitabile lancia la morte.
Stan. Andiamo, signora, degnatevi seguirmi; mi fu raccomandata la massima sollecitudine.
Ann. E con dolore vi seguirò. Oh! piacesse a Dio, che il circolo d’oro che mi attornierà la fronte fosse un ferro rovente, che mi abbruciasse il cervello! Potessi io essere coronata con un veleno corrosivo, che spirar mi facesse prima di udir le grida di viva la regina!
Elis. Andate, andate, sfortunata principessa; io non invidio la vostra gloria; e non vi auguro alcun male per amor di vendetta.
Ann. Ma io merito la mia sorte! — Allorchè quegli, che è ora mio sposo, venne ad incontrarmi mentre io seguiva il feretro di Enrico, allorchè appena egli aveva lavate le sue mani dal sangue che esciva dalle ferite del mio virtuoso consorte, uomo celeste, di cui accompagnava piangendo le spoglie inanimate; allora io alzai gli occhi sopra Riccardo, e gli dissi: sii maledetto per aver fatto di me, così giovine, una trista vedova; e se mai ti ammogli, il dolore e la disperazione assediino il tuo letto nuziale; e la tua sposa (se pur si trova una donna tanto disperata da accettar la tua mano) divenga più infelice per la tua vita, che infelice tu non m’abbia resa trafiggendomi lo sposo! E oimè! prima che io potessi ripeter questa maledizione, in quel breve intervallo di tempo il mio vil cuore si lasciò piegare dal suo astuto linguaggio, e mi fece oggetto e vittima della mia imprecazione. Da quel momento funesto i miei occhi non si son più chiusi al sonno: nel di lui letto non ho più gustato un’ora le dolcezze del riposo; e son sempre stata sveglia al suo fianco, a cagione dei sogni funesti che l’agitano durante la notte. So poi ch’ei mi odia per l’odio che portava al mio padre Warwick; e certo non tarderà a sfogare l’ira soa nel mio sangue.
Elis. Addio, cuore desolato; i tuoi patimenti compiango.
Ann. Io pare con tutta l’anima gemo su i vostri.
Dor. Addio, sfortunata, a cui sì infauste riescono le grandezze.
Ann. Addio, infelice, che da esse ti congedi così!
Duch. Va da Richemond (a Dor.) e la buona fortuna ti guidi! — Tu da Riccardo (ad Anna) e i santi angioli ti proteggano! — Tu al tempio, (a Elis.) e pensieri miti possano serenarti l’anima. Io andrò alla mia tomba, dove troverò pace! Ottant’anni di dolore son passati sopra il mio capo, ed ogni ora di gioia ho scontata sempre con cento di angoscio.
Elis. Fermatevi; gettiamo un ultimo sguardo su quella Torre. Abbiate pietà, o voi antiche pietre, di quei miserelli che l’invidia ha fatto rinchiudere nel vostro seno! Barbara culla per fanciulli così innocenti! Torre spaventosa, dura e selvaggia nutrice. Carcere sciagurata, abbi commiserazione de’ figli miei, tale è la preghiera che il mio insensato dolore ti fa lasciandoti(escono)
SCENA II.
Un'aula di Corte nel palazzo.
Squillo di trombe. Riccardo qual re sta seduto in trono; Buckingham, Catesby, un paggio, ed altri.
Ricc. Fatevi tutti a parte. — Cugino Buckingham...
Buck. Mio grazioso sovrano.
Rice. Dammi la tua mano; è pei tuoi consigli e per la tua assistenza che Riccardo è salito al trono. Ma godrem noi di tali glorie solo per un giorno, o saran esse invece durevoli?
Buck. Possano elle durare al par di noi.
Rice. Ah Buckingham! È in questo momento ch’io vo’ sottomettere il tuo cuore alla prova, per conoscere se è di tempra solida e sicura. — Il fanciullo Eduardo vive... pensa a quello ch’io vo’ dire.
Buck. Parlate, mio amato signore.
Rice. Io ti dico, Buckingham, che vorrei esser re.
Buck. Tale voi siete, mio illustre sovrano.
Ricc. Ah! sono io re? Sì; ma Eduardo vive.
Buck. Vero è, nobile principe.
Ricc. Oh verità funesta! Eduardo ancor vive? Ciò è vero, mi dici? Tu non solevi essere così lento altra volta, cugino, a concepire un’idea. Debb’io parlarti apertamente? Desidero la morte di quei bastardi, e vorrei veder tal cosa compiuta tosto; che rispondi tu ora? Parla subito, e con brevi parole.
Buck. Vostra Maestà può fare quel che le piace.
Ricc. No, no; tu sei di ghiaccio, la tua amicizia si raffredda per me: parla: ho io il tuo assentimento per la loro morte?
Buck. Datemi tempo di alitare; un momento di meditazione, caro signore, prima ch’io vi rechi la mia risposta. Fra un istante farò note le mie intenzioni a Vostra Grazia. (esce)
Cat. (a parte) Il re è sdegnato; ei si morde le labbra.
Ricc. Mi volgerò a qualcuno di costoro (discendendo dal trono) il di cui spirito inerte e pesante non pensa annulla. Chiunque cerca di scrutare il mio cuore non è l’uomo che mi abbisogna. — L’ambizioso Buckingham diviene ora cauto. — Paggio...
Pagg. Signore.
Ricc. Conosci tu alcuno, cui l’oro possa corrompere e determinare ad assumersi un’opera di morte?
Pagg. Conosco un gentiluomo crucciato, la cui miseria non si concilia colla sua anima altera. L’oro lo ridurrebbe meglio di venti oratori ad ogni cosa.
Ricc. Qual è il suo nome?
Pagg. Il suo nome, milord, è... Tyrel.
Rice. Lo conosco in parte; va, fallo venir qui. (il Pagg. esce) L’astuto e profondo pensatore Buckingham non sarà più d’ora innanzi il mio confidente. Egli ha dunque seguito sì lungo tempo i miei passi senza stancarsi, e si ferma ora per riposare? Bene; faccia il suo senno, (entra Stanley) Milord Stanley, quali novelle?
Stan. Si dice, mio amato signore, che il marchese Dorset sia andato a raggiungere Richemond.
Ricc. Ascolta, Catesby: spargi pel pubblico che lady Anna, mia sposa, è pericolosamente inferma. Adotterò i temperamenti necessari per tenerla intanto chiusa: cercami poi qualche infimo gentiluomo, con cui io possa, maritare la figlia di Clarenza. Rispetto al figliuolo, è un piccolo stolido da cui non ho nulla a temere. — Or bene, a che pensi? Te lo ripeto, fa correr voce che la regina è ammalata, e che par voglia morire. Pensa a ciò: perocchè mi è necessario di porre un termine a tutte le speranze. che, germogliando, mi potrebbero nascere. (Cat esce) Convien ch’io sposi la figlia di mio fratello, o il mio trono non poserà che sopra un fragile vetro. — Sgozzarle i fratelli e poi sposarla!... Incerto è il guadagno! Ma tanto avanti venni nel sangue, che forza è che un delitto ne generi un altro. La pietà lagrimosa non abitò mai in questi occhi. (rientra il paggio con Tyrel) È il tuo nome Tyrel?
Tyr. Giacomo Tyrel, vostro suddito obbediente.
Ricc. Lo sei infatti?
Tyr. Ponetemi alla prova, mio grazioso signore.
Ricc. Oseresti assumerti di uccidere un mio amico?
Tyr. Sì, solo volete; ma preferirei d’uccidere due vostri nemici.
Ricc. E questo potrai fare. Due mortali nemici che turbano il mio riposo, e mi privano delle dolcezze del sonno; tali son quelli a cui ti porrai contro. Io accenno, Tyrel, ai bastardi della Torre.
Tyr. Apritemi la via che guida fino ad essi, e in breve non temere più di loro.
Ricc. Tu canti una dolce musica. Odi, avvicinati, Tyrel, prendi questo segno: ascolta ancora (gli parla sommesso). Questo è tutto. Tieni a dirmi che l’hai fatto, ed io t’amerò e ti porrò in alto.
Tyr. Compirò le cose in un istante. (esce; rientra Buckingham)
Buck. Milord, ho pensato all’ultima vostra proposta.
Ricc. Bene sta; più non se ne parli. Dorset è fuggito da Richemond.
Buck. Ne udii la nuova, milord.
Ricc. Stanley, egli è figlio di vostra moglie. Attendete a ciò.
Buck. Milord, reclamo il dono che promesso m’avete, impegnandone onore e fede; io intendo la contea di Hereford che mi avete detto che possederei.
Ricc. Stanley, tenete l’occhio su vostra moglie; se ella manda lettere a Richemond, voi ne risponderete.
Buck. Che dice Vostra Altezza della mia giusta dimanda?
Ricc. Mi rammento che Enrico VI profetizzò che Richemond diverrebbe re, sebbene non fosse allora che un fanciullo caparbio. Re... forse...
Buck. Milord?
Ricc. E come avvenne che il profeta non predicesse nel medesimo tempo a me, che era presente, che l’avrei ucciso?
Buck. Milord, la vostra promessa per la contea...
Ricc. Richemond! Allorchè io fui l’ultima volta ad Exeter, il Prefetto per farmi la corte mi mostrò il castello che egli chiamava Rougemont a qnel nome io inorridii, perchè un bardo d’Irlanda mi disse una volta, che non vivrei lungo tempo dopo aver veduto Richemond.
Buck. Milord...
Ricc. Ah! che ora è?
Buck. Oso essere tanto audace da ricordare a Vostra Grazia la promessa che mi avete fatta.
Ricc. Bene sta; ma che ora è?
Buck. Le dieci in procinto di suonare.
Ricc. Bene, lasciate che suonino.
Buck. Che suonino? Che significa ciò?
Ricc. Che tu sospenda per un’ora la tua petulanza; non mi sento oggi d’umor liberale.
Buck. Degnatevi almeno dirmi se debba contare o no sulla vostra promessa.
Ricc. Mi annoii, ti dico; non sono in vena da ciò. (esce col suo seguito)
Buck. Così mi lascia? Con tal disprezzo ricompensa i miei alti servigi? Lo feci io re per questo? Oh! mi rammento di Hastings, e fuggirò a Becknok, finchè questa testa tremante sta ancora sulle mie spalle. (esce)
SCENA III.
La stessa.
Entra Tyrel.
Tyr. L’atto sanguinoso e tirannico è compiuto; il più barbaro macello di cui quest’isola si sia resa colpevole! Dighton e Forresty che subornai per accudire all’orrenda opera, sebbene scellerati avvezzi da lungo al delitto, commosso di tenerezza han pianto come fanciulli, raccontandomi i particolari della loro morte. — Oimè! mi disse Dighton, così stavano adagiati quei due infelici in un medesimo letto. — Abbracciati si tenevano, soggiunse Forrest, colle loro braccia innocenti e candide come l’alabastro. Le loro labbra sembravano quattro rose sopra uno stelo solo, che nel loro più vermiglio splendore si baciassero l’una coll’altra. Un libro di preghiere posava sul capezzale: quella vista, disse Forrest, mutò quasi la mia anima. Ma il demonio... lo scellerato si fermò a questa parola e Dighton continuò: «Noi abbiam distrutto la più bell’opera che la natura avesse formato dopo la creazione». Poi m’han lasciato, così compresi di dolore e di rimorso che non potevano parlare; io gli ho fatti partire per venire a recar la novelia a questo re truculento. — Eccolo (entra il re Riccardo) Salute al mio sovrano.
Ricc. Gentil Tyrel, son liete le tue nuove?
Tyr. Se lo aver compiuta la cosa che mi avevate commessa vi è di letizia, siate lieto, perocchè essa è fatta.
Ricc. Ma li vedesti tu morti?
Tyr. Sì, milord.
Ricc. E sepolti, gentil Tyrel?
Tyr. Il cappellano della Torre li ha sepolti; ma dove, a vero dire, non so.
Ricc. Torna da me, Tyrel, immediatamente dopo la mia cena, e mi narrerai allora tutte le circostanze della loro morte. Intanto pensa a quel che maggiormente desideri, e sii eerto d’ottenerlo fra breve. — Per ora, addio.
Tyr. Umilmente mi congedo. (esce)
Ricc. Chiuso ho il figlio di Clarenza; la figlia ho accoppiata ad un miserabile gentiluomo; i nati d’Eduardo dormono nel seno d’Abramo, e la mia sposa Anna ha lasciata la buona notte a questo mondo. Ora, sapendo che Richemond dalla Bretagna getta sguardi sulla giovine Elisabetta, figlia di mio fratello; e che con tal nodo spera di giungere alla corona, io andrò a trovarla, e le farò una corte da zerbino. (entra Catesby)
Cat. Milord...
Ricc. Son buone o triste le notizie che mi arrechi sì in fiotta?
Cat. Triste, milord: Morton è fuggito da Richemond; e Buckingham rafforzato dai Gallesi sta in campo, e le sue schiere crescono ad ogni momento.
Ricc. Ely congiunto a Richemond mi dà ben più da pensare che Buckingham e le sue genti raggranellate in fretta. — Andiamo; ho imparato che l’irresoluzione timida e cogitabonda striscia dietro ad indugi infingardi, che producono poscia l’impotente e sciagurata povertà. Impenniamo dunque le ali della rapida eseeazione che esser debbe l’araldo dei re! Partiamo, raduniamo un esercito, il mio scudo è il mio consiglio: la sollecitudine è necessaria, allorchè i traditori osano disprezzarci. (escono)
SCENA IV.
La stessa dinanzi al palazzo.
Entra la regina Margherita.
Mar. Così la prosperità della casa di York comincia a decrescere, e, quasi frutto che ha passato il termine di sua maturazione, sta per cadere nella bocca divoratrice della morte! Qui venn’io di nascosto per osservare la rovina de’ miei nemici: testimone fui di un infausto prologo, e ritornerò in Francia colla speranza che le scene che stan per compiersi siano del pari crudeli. Nasconditi, sfortunata regina, qualcuno viene a questa volta. {{Ids|(si ritira; entrano la regina Elisabetta e la Duchessa di York)
Elis. Ah miei poveri principi! miei teneri figli! amabili fiori nati appena da un giorno; se le vostre ombre innocenti errano per questi luoghi, se inghiottiti non siete stati nell’abisso dell’eternità, sospendete al disopra di me le vostre ali invisibili, ed ascoltate i gemiti della madre vostra.
Mar. Sì; fermatevi sulla sua testa, e ditele che fu la giustizia che vi ha immersi dal nascere nell’eterna notte.
Duch. Tanti mali han logorata la mia voce, che la mia lingua stanca di querelarsi rimane muta. — Eduardo Plantageneto, oimè, perchè sei tu morto?
Mar. Plantageneto vendica Plantageneto; Eduardo sconta, morendo, il debito che aveva contratto con Eduardo.
Elis. Potesti tu, Dio benefico, abbandonare si teneri agnelli e lasciarli in preda all’ira d’un lupo divoratore? dove era la tua giustizia allorchè fu compiuto tanto misfatto?
Mar. Dov’era essa, quando fu trafitto il mio virtuoso Enrico e il mio diletto figlio?
Duch. Spettro vivente, i di cui occhi sono estinti, e a cui non riman più che un soffio di vita; spettacolo di miseria; deplorabile oggetto d’orrore e di compassione: proprietà della tomba che la vita usurpa e ritiene ancora; monumento delle calamità dell’esistenza, riposa le tue stanche membra sulla terra di quest’isola bagnata d’innocente sangue, sparso dall’ingiustizia.(si assiede per terra)
Elis. Oh terra! perchè non puoi tu darmi una tomba, come puoi darmi un tristo seggio? Vorrei non riposare le mie ossa sulla tua superficie, ma asconderle nel tuo seno. Ah! chi è che nel mondo ha motivo di gemere fuorchè noi? (si asside ella pure)
Mar. Se il dolore più antico è il più rispettabile, ( avanzandosi) cedete al mio la preminenza; a’ miei mali spetta l’imperio e la superiorità su i vostri. (siede anch’essa) Se può stringersi fra noi qualche consorzio, i vostri dolori si rinnovellino veggenda i miei. Avevo un Eduardo, e Riccardo l’ha ucciso! Avevo uno sposo, e Riccardo l’ha assassinato! Tu avesti un Eduardo che Riccardo assassinò! Tu avesti un Riccardo che Riccardo uccise!
Duch. Ma il mio Riccardo fu da te trafitto; e un Rutland ancor ebbi che tu godesti di vedere estinto.
Mar. Il tuo Clarenza pure ucciso fu dall’autore di tanti delitti! Dai tuoi fianchi esci quel mostro infernale che morti tutti ne vuole! Quel tigre, le cui mascella portavano i denti prima che i suoi occhi fossero aperti alla luce, per squarciare le deboli vittime, e abbeverarsi del loro sangue innocente; quel flagello distruttore dell’immagine di Dio; quel tiranno, il primo e il più feroce dei tiranni della terra, che trionfa nel pianto degli sfortunati, è dal tuo seno che esci per scavarci a tutti la tomba. Oh! Dio supremo, quanto ringrazio la tua giustizia che permette che quel truce sanguinario eserciti le sue carnificine sui figli stessi di sua madre, e costringi lei ad associare il suo dolore e le sue lagrime a quelle degli altri infelici!
Duch. Ah! sposa di Enrico, non insultare a’ miei mali; Dio mi è testimonio che spesso ho pianto sui tuoi.
Mar. Compatiscimi, io era assetata di vendetta, ed ora me ne pasco. Il tuo Eduardo che aveva ucciso il mio, è morto; l’altro tuo Eduardo è pur morto, e la sua morte appaga più sempre l’Eduardo mio. Il giovine York non è che di addizione alla vendetta, perocchè gli altri due non giovano a compensare la grandezza della mia perdita. Il tuo Clarenza, che trafitto aveva il mio Eduardo, è spento, e lo sono con lui gli spettatori di quella tragica scena, l’adultero e perfido Hastings, Rivers, Vaughan e Grey, tutti precocemente cacciati entro la tomba. Riccardo solo è vivo, nero agente d’inferno, che lo lascia sulla terra per farvi traffico ancora d’anime ree, e popolarne i suoi abissi. Ma ecco giunge, s’avvicina pure il suo fine; e sarà deplorabile e incompianto. La terra s’apre, l’inferno fiammeggia, i demoni ruggiscono, gli angeli pregano, tutti chieggono che una morte subitanea lo tolga da questo mondo. Pietoso Iddio, rompi, te ne scongiuro, il filo de’ suoi giorni, ond’io possa vivere abbastanza per dire: il mostro è estinto!
Elis. Oh! tu mi avevi predetto che un tempo sarebbe giunto nel quale avrei implorato il tuo soccorso per maledire quella deforme creatura, quel mostro perverso.
Mar. Io ti chiamavo allora, lo sai, vano fantasima della mia grandezza passata, regina in pittura, ombra di quello che un tempo io fui; prologo menzognero di un dramma d’orrore; donna innalzata al colmo delle fortune per esseme di subito precipitata; madre di due fanciulli, ma per poco; sogno passeggiero; insegna di grandezza; fragile bolla di sapone esposta a mille uragani; regina da teatro, fatta unicamente per entrare un momento sulla scena, e poi per sempre scomparirne. Dov’è ora il tuo sposo? dove i fratelli? dove i figli? Qual godimento ti rimane? Chi viene a pregarti inginocchiato, e a dirti: Dio salvi la regina? Dove stanno i grandi che ti adulavano? dove il popolo che si accalcava sulle tue orme? Rinunzia a quello splendido apparecchio, e vedi quel che oggi sei: anzi che sposa felice, vedova desolata; prima che madre gioiosa, donna che ne deplora il nome; di regina supplicata sei fatta umile supplicante; anzi, invece di regina, divenisti una infelice prigioniera coronata di mali e di miserie; di donna che disprezzava, sei ora disprezzabile a me: temuta da tatti, or di tutti temi: a tatti imperavi, e non hai più un solo che ti obbedisca. È così che la ruota della giustizia ha compiuto il suo giro e ti ha avventata nell’abito in cui rimani nuda e preda del tempo distruttore. Non ti resta più che la memoria di ciò che fosti, per maggiormente tormentarti nello stato in cui sei. Usurpasti il mio posto, ed ora la tua miseria usurpa la mia. Il tuo collo superbo porta la metà del giogo de’ miei dolori, ed io sciogliendo qui la mia testa stanca di tollerarlo, e alleviata dalla vendetta, ne rigetto il peso tutto intero sopra di te. Addio, sposa di York! regina di sventura! Questi mali dell’Inghilterra mi faran sorrìdere di gioia in Francia.
Elis. Oh! tu sì dotta in imprecazioni, fermati ancora un istante, e insegnami a maledire i miei nemici.
Mar. Digiuna i giorni, e passa le notti insonni; raffronta la tua perduta felicità coi tuoi mali presenti; imagina che i tuoi due figli fossero anche più vezzosi che non lo erano, e che quegli che li ha trafitti, sia mille volte più orrido che non è; amplifica le tue perdite, per vederne l’autore anche più odioso: è così che imparerai a maledire.
Elis. Non ho che espressioni deboli; animale coll’energia delle tue.
Mar. Tocca al sentimento de’ tuoi mali l’arrotare i dardi del tuo sdegno, e alle tue imprecazioni il renderli pungenti come i miei.
(esce)
Duch. Il vero dolore è forse così fecondo in parole?
Elis. Il lamento che succede alla felicità perduta non è che un vano suono che si dissipa per l’aere; una voce impotente e inutile che si innalza per perorare invano la causa degli infelici; ma che, sebbene non dia alcun soccorso efficace, allevia nondimeno il peso del cuore.
Duch. Sia così; date un libero corso alla vostra lingua; seguitemi, ed esalando a gara il nostro dolore, carichiamo dei nostri rimproveri il mio detestabile figlio che fe’ morire quei due teneri fanciulli vostri, (suono di tamburi al di dentro) Odo il suo tamburo; siate libera nelle parole. (Entra il re Riccardo col suo seguito in marcia)
Ricc. Chi mi interrompe nella mia spedizione?
Duch. Quella che avrebbe potuto, soffocandoti nel suo seno maledetto, risparmiarti tutti gli omicidii che hai compiuti, scellerato.
Elis. Osi tu cingerti con corona d’oro quella fronte, in cui dovrebbero esser marchiati con un ferro rovente, se ti fosse renduta giustizia, l’assassinio del prìncipe che la possedeva, e il macello dei poveri figli miei e de’ tuoi fratelli? Dimmi, vile scellerato, dove sono i miei figli?
Duch. Mostro, mostro infernale, dov’è tuo fratello Clarenza? Dove il piccolo Plantageneto, suo figlio?
Elis. Dov’è il gentil Rivers, Vaughan e Grey?
Duch. Dove l’onesto Hastings?
Ricc. Squillate, trombe! Tamburi, battete! Il Cielo non oda il clamore di queste donne, che insultano l’unto del Signore: battete, dico. — (Allarme. Squillo di trombe) O calmatevi e parlate senza vilipendi, o continuerò a soffocare il remore delle vostre grida sotto il remore più forte d’una musica guerresca.
Duch. Sei tu mio figlio?
Ricc. Sì; ne ringrazio Dio, mio padre e voi.
Duch. Ascolta dunque paziente i miei rimproveri.
Ricc. Signora, io vi assomiglio alquanto, e i rimproveri non li so tollerare.
Duch. Lasciami parlare.
Ricc. Parlate; ma non vi ascolterò.
Duch. Sarò mite e cortese nelle mie parole.
Ricc. E breve, buona madre; perchè ho gran fretta.
Duch. Cos’è che t’incalza? Quanto tempo non ti ho io aspettato, e Dio lo sa, fra dolori orribili al momento della tua nascita?
Ricc. E non venni io alfine per confortarvi?
Duch. No, per la santa Croce! tu bene lo sai che venisti sulla vena solo per far di essa un inferno per me. La tua nascita fu un peso doloroso per la madre tua; la tua fanciullezza apparve bieca e dispettosa; la tua adolescenza feroce e forsennata, e riempo tua madre di timore e di disperazione; la tua gioventù fu temeraria, audace e senza freni, e nell’età che la seguì, divenisti orgoglioso, subdolo, falso e sanguinario, più mite in apparenza, ma più pericoloso in fatti: carezzevole ti festi, mentre col cuore odiavi. Qual’ora di conforto puoi tu rimembrarmi in cui goduto lo abbia della tua compagnia?
Ricc. In verità, nessuna. Ma se la mia vista vi è sì odiosa, lasciatemi continuare il mio cammino, e non mi soggettate al pericolo di offendervi. — Battete, tamburi.
Duch. Te ne prego, lasciami parlare.
Ricc. Parlate con troppa amarezza.
Duch. Lasciami dirti una parola, e sarà l’ultima volta che mi ascolterai.
Ricc. In qual guisa?
Duch. Perchè, o perirai in questa guerra per un giusto decreto del Cielo, ne ritornerai vincitore; e allora io morirò di dolore e di vecchiezza senza più vederti. Porta adunque con te la mia più fatale maledizione; e possa tu esserne più appresso nel giorno del combattimento, che nol sarai da tutto il peso di tutta questa tua armatura! Le mie preghiere combattono pei tuoi avversarii. Possano le ombre lievi dei figli di Eduardo infiammar l’animo de’ tuoi nemici e farli fidenti della vittoria! Tu vivesti sanguinario, e morrai nel sangue; l’infamia che accompagnò la tua vita seguirà la tua morte. (esce)
Elis. Sebbene io abbia maggior cagione per maledirti, ho minor forza; e non posso che dir amen! alle sue imprecazioni. (andandosene)
Ricc. Fermatevi, signora, ho una parola per voi.
Elis. Non ho più figli di sangue reale che tu possa sgozzare: quanto alle mie figlie, Riccardo, che diverranno suore supplicanti, piuttosto che regine in lagrime: non cercar quindi di toglier loro la vita.
Ricc. Voi avete una figlia chiamata Elisabetta, bella e virtuosa, la più amabile delle principesse.
Elis. E debb’ella morire per ciò? Oh! lasciala vivere, e ti giuro che farò appassire la sua bellezza, corromperò le sue virtù, mi disonorerò da me stessa, accusandomi d’infedeltà al letto d’Eduardo, e gettando sopra di lei un velo d’infamia. A questo prezzo, ch’ella viva in sicuro dal tuo sanguinoso pugnale; dichiarerò, se è necessario, ch’essa non è figlia d’Eduardo.
Ricc. Non oltraggiate la sua nascita, ella è verameute di sangue reale.
Elis. Per salvarle la vita dirò che non lo è.
Ricc. La sua nascita sola basta a guarentirla.
Elis. Ma tale guarentigia fu cagione della morte de’ suoi fratelli.
Ricc. Stelle nemiche presiederono alla nascita di quei fanciulli.
Elis. La malvagità degli uomini fu la sola nemica dei giorni loro.
Ricc. Quello che non può evitarsi è decretato dal destino.
Elis. Sì; quando è il malvagio che fa il destino. I miei figli erano destinati a morte più felice, se il Cielo ti avesse accordato vita più virtuosa.
Ricc. Voi parlate come se avessi io assassinati i miei cugini.
Elis. Questo festi; e hai loro tolto tutto, felicità, corona, parenti, libertà e vita. Quali che si fossero le mani che trafissero i loro teneri cuori, fu la tua testa che segretamente meditò quel colpo. Il pugnale omicida sarebbe rimasto impotente e inoffensivo, se aguzzato non fosse stato da te per essere immerso nelle viscere di que’ miseri. Ah! se la continuità d’un male alla fine nol scemasse, la mia lingua non nominerebbe i miei figli al tuo orecchio prima che le mie unghie non t’avessero strappati gli occhi, e che io, come fragile barca, in balìa di morte senza remi e senza vele, non mi fossi venuta a rompere contro il tuo seno di roccia1.
Ricc. Signora, così i successi della guerra che intraprendo e delle pericolose battaglie a cui mi commetto pendano dalla verità di quanto sto per dirvi, come vero è ch’io amo più voi e i vostri, che male non vi abbia fatto mai.
Elis. Qnal bene nascosto ancora nel Cielo può avvenirmi che valga a rendermi felice?
Ricc. L’innalzamento dei vostri figli, gentil signora.
Elis. Su qualche patibolo forse, onde perdervi la testa?
Ricc. No, ma alle dignità e al colmo delle fortune, in seno alle grandezze supreme della terra.
Elis. Culla il mio dolore col racconto di tali fole. Dimmi quali onori, quale dignità, qual fortuna riserbare tu puoi ai miei figli?
Ricc. Tutto quello ch’io possiedo, non escluso me stesso, io vo’ donare all’uno dei vostri figli: e voglio che la vostra anima sdegnosa sepellisea in un profondo obblio la trista ricordanza dei mali di cui mi credete autore.
Elis. Parla presto, per tema che l’esposizione dei tuoi disegni benefici non duri più tempo che la tua buona volontà.
Ricc. Sappi dunque che con tutta l’anima io amo tua figlia.
Elis. La madre di mia figlia lo pensa con tutta l’anima.
Ricc. Che cosa?
Elis. Che tu ami mia figlia di quell’amore che portasti a suo fratello: il solo amore di cui il tuo cuore sia capace.
Ricc. Non siate sì sollecita in volgere a male i miei intendimenti: amo, lo ripeto, con tutta l’anima vostra figlia, e intendo di farla regina d’Inghilterra.
Elis. Bene, ma chi ne sarà il re?
Ricc. Quegli che la fa regina: chi altro dovrebb’essere?
Elis. Oh! forse tu?
Ricc. Se ciò fosse, che ne direste, signora?
Elis. Come potresti tu amoreggiarla?
Ricc. Questo potrei apprenderlo da voi, a cui è meglio nota la di lei tempera.
Elis. Lo vuoi apprendere da me?
Ricc. Sì, con tutto il cuore.
Elis. Mandale dunque, pel deputato che uccise i suoi fratelli, due cuori sanguinosi, in cui abbi fatto incidere i nomi d’Eduardo e di York; forse vedendoli ella piangerà; allora presentale, come altravolta Margherita presentò intrisa nel sangue di Rutland a tuo padre, una pezzuola che le dirai aver bevuto il più puro sangue de’ suoi fratelli, ed esortala a tergere con essa i suoi occhi bagnati di lagrime. Se un tal dono della tua tenerezza non la fa prona ad amarti, inviale una lettera che contenga i più minuti particolari sui tuoi nobili fatti: dille che sei tu che facesti morire suo zio Clarenza, suo zio Rivers, e che è per amore di lei che hai sprofondata nella tomba la sua povera zia Anna.
Ricc. Voi mi schernite, madonna; questo non è il modo di captivare gii affetti di vostra figlia.
Elis. Non v’è altro modo; a meno che tu non vestissi differente forma, e non fossi Riccardo che ha commesso tutti questi misfatti.
Ricc. Ditele ch’io li commisi per amore di lei.
Elis. Ed ella non mancherà di amarti, avendo comprato il suo amore con tante stragi.
Ricc. Pensate, signora, che il male compiuto è irrimediabile. L’uomo commette qualche volta imprudenze che nelle ore che vengono dopo gli cagionano lunghi martori. Se tolto ho il regno ai vostri figli, a farne ammenda lo darò alla figlia vostra. Se ho fatto perire i frutti del vostro seno, vo’ risuscitare la vostra posterità col mio imeneo, generandone una egualmente formata del vostro sangue. Il nome di avola è dolce al pari di quello di madre: i miei figli, figli vostri diverranno, quantunque d’un grado più lontani da voi, e vi saranno costati le medesime pene, tranne una notte di dolori che soffrirà di più di voi quella, il di cui amore mi ha indotto a causarvi tante ambascie. I vostri figli formarono la sventura della vostra gioventù, i miei faranno la consolazione della vostra vecchiaia. La perdita che voi dolorate è quella di un figliuolo che oggi sarebbe re; ma è per questa medesima perdita che la figlia vostra divien regina. Non posso risarcirvi interamente come vorrei, e perciò accettato le offerte che stanno in mio potere. Dorset, vostro figlio, preso da timori è andato ad errare tristamente in terre straniere: tal felice alleanza lo richiamerà tosto, e lo farà ascendere ai più alti onori. Il re che chiamerà vostra figlia sposa, darà del pari familiarmente al vostro Dorset il titolo di fratello: voi ridiverrete madre di un sovrano, e tutte le sciagure d’un tempo infelice riparate verranno dai godimenti di una maggior felicità. Noi possiamo vedere ancora trascorrere giorni fortunati. Le lagrime che avete sparso si cambieranno allora in lucide perle, e voi ne raccoglierete il ricco frutto nel possedimento di una gioia dieci volte più grande che nol fossero i vostri dolori. Andate, voi ch’io chiamo di già mia madre, andate da vostra figlia. Valetevi della vostra esperienza per ispirare fiducia alla sua timida giovinezza; preparate il suo orecchio ad udire i voti d’un amante; infiammate il suo cuore col nobile desiderio della sovranità; fatele presentire le dolcezze dell’amore e la placida gioia dell’imeneo; e dopo che questo braccio avrà punito quel ribelle insensato Buckingham, io andrò a lei cinto di allori vittoriosi, e la condurrò al letto di un vincitore: a lei darò onore delle mie conquiste, ed ella sarà la sola signora e la dominatrice sola del re d’Inghilterra.
Elis. Che potrei io dirle? Che il fratello di suo padre vorrebb’essere suo sposo? O le dirò invece suo zio? Ovvero quegli che le ha ucciso i fratelli e gli zii? Sotto qual nome posso io annunziarti alla sua tenerezza, onde Iddio, le leggi, il mio onore e l’amor suo valgano a renderti a lei gradevole?
Ricc. Falle intendere che con quest’alleanza si tutela la pace all’Inghilterra.
Elis. Ella dovrà comprare tal pace con una guerra eterna.
Ricc. Dille che il re, che potrebbe comandare, la prega.
Elis. Per una dimanda che vieta il Re dei re.
Ricc. Dille che diverrà un’alta e potente regina.
Elis. Per deplorarne il titolo, come sua madre.
Ricc. Dille che io l’amerò sempre.
Elis. Ma quanto tempo durerà il tuo titolo?
Ricc. Infine al termine della sua bella vita.
Elis. E la sua bella vita sarà molto protratta?
Ricc. Tanto quanto il Cielo e la natura lo concedono.
Elis. Tanto quanto l’Inferno e Riccardo lo reputeranno conveniente.
Ricc. Dille che io, suo sovrano, divengo ora suo umile soggetto.
Elis. Ma ella, suddita vostra, abborre una tal sovranità.
Ricc. Siate eloquente in mio favore.
Elis. Una proposizione onesta riesce meglio esposta semplicemente.
Ricc. Annunziatele con schiette parole il mio amore.
Elis. Schiette e non oneste è cosa ardua.
Ricc. I vostri argomenti son troppo leggieri.
Elis. Oh! no; procedono invece da un sentimento profondo e mortale; ricorda i miei due figli che ora stanno nella tomba.
Ricc. Non toccate questa corda, signora; dimenticate il passato.
Elis. La toccherò, finchè le fibre del mio cuore si rompano.
Ricc. Ah! per san Giorgio, per la mia giarrettiera e la mia corona.....
Elis. Hai profanato l’uno, disonorata l’altra, usurpata la terza.
Ricc. Giuro.....
Elis. È inutile; cotesto non è un giuramento. Il tuo san Giorgio profanato ha perduto tutto il suo sacro splendore; la tua giarrettiera contaminata non conserva alcuna cavalleresca virtù; la tua corona usurpata è priva di ogni real gloria: se giurar volessi per qualche cosa a cui si potesse credere, giura sopra di chi non abbi mai oltraggiato.
Ricc. Per tutto il mondo...
Elis. Egli è pieno de’ tuoi misfatti.
Ricc. Per la morte di mio padre.....
Elis. La tua vita l’ha deturpato.
Ricc. Per me stesso.....
Elis. Lordo d’ogni colpa tu sei.
Ricc. Alla fine per Dio
Elis. È Dio che hai offeso di più; se avessi temuto di violare il tuo giuramento, fatte al Cielo, non sarebbe stata rotta l’unione che il re, mio sposo, avea formata, nè mio fratello sarebbe stato sgozzato. Se tu avessi rispettati i tuoi voti, l’oro che ti cinge la fronte avrebbe decorata quella dei miei figli, ed io vedrei ora qui vivi i due principi, che, vittime del tuo spergiuro, giacciono insieme preda dei vermi nella polvere del sepolcro. Sopra che puoi tu giurare?
Ricc. Sul mio avvenire.....
Elis. Bruttato lo hai col tuo passato, ed io stessa ho ancora ben molte lagrime da spargere nell’avvenire a cagione di un passato pieno de’ tuoi delitti. Figli, a cui tu hai uccisi i parenti svolgono ora una giovinezza senza consiglio e senza guida, o deploreranno tanta sventura nel corso dell’età. Non giurare per l’avvenire; l’abuso odioso del tuo passato prepara ancora giorni tristi e funesti.
Ricc. Se non è vero ch’io desideri riparare i miei falli ed espiarli, ogni successo m’abbandoni nella ardua impresa che tenterò contro i miei nemici armati! ch’io mi perda da me stesso e sia il fabbro della mia ruina! il Cielo e la fortuna si frappongano ad ogni mia contentezza! Giorno, rifiutami la tua luce; notte, ricusami il tuo dolce riposo; astri di felicità, abbandonatemi e recate le vostre influenze a’ miei nemici, se vero non è ch’io ami la bella e real figlia di costei, coll’amore di un cuor puro, l’affezione più virtuosa e i pensieri più santi! È in lei che è riposta la mia felicità e la vostra. Senza di lei io vedo cadere sopra di me, sopra di voi, sopra essa medesima, sull’Inghilterra e sul popolo, morte, ruina e distruzione! Tanti disastri non possono essere prevenuti che con questo imeneo; con questo imeneo solo io vo’ impedirli: onde, tenera madre, perocchè è il nome che debbo darvi, degnatevi perorare presso di lei la causa del mio amore. Dipingetele quel che io sarò per l’avvenire, e non quello che fui: non le parlate del mio merito presente, ma di quello che intendo acquistarmi. Insistete sulla necessità dei tempi, sull’interesse dello Stato, e non vi ribellate follemente contro sì grandi disegni.
Elis. Mi lascierò io dunque tentare così da questo demonio?
Ricc. Sì, se il demonio vi tenta per il bene.
Elis. Dimenticherò a tal punto me stessa?
Ricc. Sì, se la rimembranza di voi vi fa tanto danno.
Elis. Ma tu uccidesti i miei figli?
Ricc. Nel seno di vostra figlia io gli ho deposti, e di là rinasceranno per vostra consolazione e mia.
Elis. Andrò io a pregare mia figlia perchè ceda a’ tuoi desiderii?
Ricc. Siate madre obbedita in ciò.
Elis. Vado. — Scrivetemi nna lettera brere, e conoscerete da me i suoi sentiinenti.
Ricc. Recatele il bacio del mio tenero amore, o addio. (abbracciandola. Esce Elis.) Oh, donna insensata! Oh, sesso mutabile e incostante! Ma chi viene ora? (entra Ratcliff; Catesby lo segue)
Rat. Potente sovrano, un naviglio formidabile si fa vedere su la costa occidentale. Una folla di popolo accorre, e s’incalza sulle rive; ma sembrano clienti incerti e male intenzionati: senza armi stanno, e molto proclivi non sembrano ad opporsi alla discesa dei nemici. Si crede che Richemond sia l’ammiraglio della flotta, e che stiano ancorati sulla costa, aspettando che Buckingham venga a prestar loro il suo appoggio, e a riceverli.
Ricc. Si mandi qualche sollecito corriere al duca di Norfolk; tu stesso, Ratcliff, oppure Catesby: dov’è egli?
Cat. Qui, mio buon signore.
Ricc. Catesby, vola dal duca.
Cat. Lo farò, milord.
Ricc. Ratcliff, avvicinati: vanne a Salisbury, di dove venisti... Oh! stolto, scellerato, (a Cat.) sei anche qui? Perchè non vai dal duca?
Cat. Aspetto gli ordini di Vostra Altezza, potente sovrano. Che debbo io dire al duca?
Ricc. Hai ragione, buon Catesby. Digli che raccolga le maggiori forze che può, e venga a raggiungermi tosto a Salisbury.
Cat. Vado. (esce)
Rat. Che debbo io fare a Salisbury?
Ricc. Che vorresti farci prima ch’io vi andassi?
Rat. Vostra Altezza mi disse ch’io corressi là.
Ricc. Ho mutato consiglio, (entra Stanley) Stanley, quali novelle?
Stan. Niuna buona, milord, perchè voi poteste ascoltarla con piacere; niuna cosa così cattiva da dovervi essere taciuta.
Ricc. Quest’è un enigma. Nè buone, nè cattive! A che tante frasi prima di venire al fatto? Una volta ancora, quali notizie?
Stan. Richemond è sui mari.
Ricc. Lo possano essi inghiottire! E che fa quel vil rinnegato?
Stan. Non lo so, potente sovrano, ma lo immagino.
Ricc. Che cosa immaginate?
Stan. Che spinto da Dorset, Buckingham e Merton, egli approda in Inghilterra per dimandare la corona.
Ricc. È vuoto il real seggio? La reale spada non ha chi la brandisca? È morto il re? È senza capo l’impero? Qnal altro erede di York respira fuori di noi? Chi è il re legittimo d’Inghilterra, se non l’erede del gran York? Dimmi dunque, che fa egli sopra i mari.
Stan. Se questo non è il suo disegno, io non saprei a che appormi.
Ricc. A meno ch’ei non venga per esser vostro sovrano, voi non potete indovinare perchè quel Gallese qui venga? Ma voi vi ribellerete e fuggirete da lui, io temo.
Stan. No, potente sovrano; non diffidate di me.
Ricc. Dove son dunque le vostre schiere per respingerlo? dove i vostri vassalli e i vostri seguaci? Non son essi sulla sponda occidentale per difendervi i ribelli?
Stan. No, mio buon lord, gli amici miei stanno nel nord.
Ricc. Freddi amici per me: che fanno essi nel nord, allorchè servir dovrebbero il loro sovrano nell’occidente?
Stan. Questo ad essi non fu comandato, signore: piaccia a Vostra Maestà di darmene il permesso, ed io radunerò i miei amici, e raggiungerò Vostra Grazia, dove e in quel tempo che vorrete indicarmi.
Ricc. Sì, sì, tu vorresti unirti a Richemond; non mi fiderò di voi, signore.
Stan. Potente sovrano, voi non avete motivo per dubitare della mia amicizia: io non mai fui, nè mai sarò spergiuro.
Ricc. Ebbene, andate e radunate il vostro esercito. Ma pensate a lasciar meco vostro figlio Giorgio. Siate fermo nella vostra, fedeltà, o il di lui capo sconterà il vostro tradimento.
Stan. Trattatelo in ragione della mia fede.(esce; entra un Mesaaggiere)
Mess. Mio grazioso sovrano, dalla notizia che mi hanno data alcuni fidi amici, pare che sir Eduardo Courtnay e quell’altero prelato vescovo di Exeter, suo maggior fratello, siano attualmente nel Devonshire alla testa d’un esercito poderoso. (entra un altro Messaggiere)
2° Mess. Nel Kent, mio sovrano, Guildford sta in armi; e ad ogni ora affluiscono a lui schiere di ribelli. (entra un altro Messaggiere)
3° Mess. Milord, l’esercito del grande Buckingham...
Ricc. Via di qui, gufi di morte, (lo percuote) Abbiti queste fino a che mi redii migliori novelle.
3° Mess. Le novelle ch’io ho da dire a Vostra Maestà sono che per una violenta tempesta e uno straripamento di acque, l’esercito di Buckingham è stato disperso e sparpagliato, e ch’ei medesimo erra ora solo senza che si possa sapere dove sia.
Ricc. Ti chieggo perdono: eccoti la mia borsa per curare il colpo che ti diedi. Qualche saggio amico ha egli bandita una ricompensa per quegli che mi condurrà il traditore?
3° Mess. Tal bando è stato fatto, signore. (entra un altro Messaggiere) 4° Mess. Milord, si dice che sir Tommaso Lowel e il marchese Dorset scorrano da ribelli la provincia di York. Ma una buona novella ho da recare a Vostra Altezza. La tempesta ha disperso la flotta di Bretagna. Richemond ha mandato un palischermo alla riva per sapere se i soldati di Dorset seguivano le sue insegne; essi han risposto di sì, e che là si trovavano per ordine di Buckingham, onde assecondarlo: ma egli, diffidandone, ha rimesso alla vela, e ha ripreso il suo corso verso la Bretagna.
Ricc. Andiamo, andiamo; dappoichè siamo in armi. Se non troviamo nemici stranieri da combattere, adopreremo le nostre forze contro i ribelli del regno. (entra Catesby)
Cat. Milord, il duca di Buckingham è preso; quest’è la miglior nuova. Ve n’è poi una sinistra che conviene nondimeno dirvi. È che il conte di Richemond è approdato a Mìlford con un numeroso esercito.
Ricc. Andiamo a Salisbury; intanto che qui gettiamo il tempo, una battaglia decisiva avrebbe potuto esser vinta o perduta. Qualcuno di voi pensi a far condurre Buckingham a Salisbury: il resto venga con me. (escono)
SCENA V.
Una stanza nella casa di lord Stanley.
Entra Stanley e sir Cristoforo Urswick.
Stan. Sir Cristoforo, fate noto a Richemond, per me, che mio figlio Giorgio sta chiuso nell’antro sanguinoso del nostro tigre. S’io mi dichiaro contro il tiranno, la testa di mio figlio cade: è questo timore che mi rattiene e m’impedisce di prestargli apertamente aiuto. Ma, ditemi, dov’è ora l’illustre Richemond?
Cris. A Pembroke o ad Hereford, nel paese di Galles.
Stan. Quali uomini un po’ chiari stanno con lui?
Cris. Sir Gualtiero Herbert, famoso soldato; sir Giliberto Talbert, sir Guglielmo Stanley; Oxford il formidabile, sir Giacomo Blunt, Tommaso Rice con molte schiere di prodi, e molti altri di gran fama e merito. Essi verranno a Londra, se rattenuti non sono da qualche battaglia.
Stan. Bene; affrettati verso il tuo signore; raccomandami a lui; digli che la regina acconsente di cuore ch’egli sposi Elisabetta sua figlia. Queste lettere lo istruiranno delle mie intenzioni. (dandogli alcune carte) Addio.(escono)
Note
- ↑ Abbiamo tradotta letteralmente.