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ATTO QUARTO | 287 |
Mar. Io ti chiamavo allora, lo sai, vano fantasima della mia grandezza passata, regina in pittura, ombra di quello che un tempo io fui; prologo menzognero di un dramma d’orrore; donna innalzata al colmo delle fortune per esseme di subito precipitata; madre di due fanciulli, ma per poco; sogno passeggiero; insegna di grandezza; fragile bolla di sapone esposta a mille uragani; regina da teatro, fatta unicamente per entrare un momento sulla scena, e poi per sempre scomparirne. Dov’è ora il tuo sposo? dove i fratelli? dove i figli? Qual godimento ti rimane? Chi viene a pregarti inginocchiato, e a dirti: Dio salvi la regina? Dove stanno i grandi che ti adulavano? dove il popolo che si accalcava sulle tue orme? Rinunzia a quello splendido apparecchio, e vedi quel che oggi sei: anzi che sposa felice, vedova desolata; prima che madre gioiosa, donna che ne deplora il nome; di regina supplicata sei fatta umile supplicante; anzi, invece di regina, divenisti una infelice prigioniera coronata di mali e di miserie; di donna che disprezzava, sei ora disprezzabile a me: temuta da tatti, or di tutti temi: a tatti imperavi, e non hai più un solo che ti obbedisca. È così che la ruota della giustizia ha compiuto il suo giro e ti ha avventata nell’abito in cui rimani nuda e preda del tempo distruttore. Non ti resta più che la memoria di ciò che fosti, per maggiormente tormentarti nello stato in cui sei. Usurpasti il mio posto, ed ora la tua miseria usurpa la mia. Il tuo collo superbo porta la metà del giogo de’ miei dolori, ed io sciogliendo qui la mia testa stanca di tollerarlo, e alleviata dalla vendetta, ne rigetto il peso tutto intero sopra di te. Addio, sposa di York! regina di sventura! Questi mali dell’Inghilterra mi faran sorrìdere di gioia in Francia.
Elis. Oh! tu sì dotta in imprecazioni, fermati ancora un istante, e insegnami a maledire i miei nemici.
Mar. Digiuna i giorni, e passa le notti insonni; raffronta la tua perduta felicità coi tuoi mali presenti; imagina che i tuoi due figli fossero anche più vezzosi che non lo erano, e che quegli che li ha trafitti, sia mille volte più orrido che non è; amplifica le tue perdite, per vederne l’autore anche più odioso: è così che imparerai a maledire.
Elis. Non ho che espressioni deboli; animale coll’energia delle tue.
Mar. Tocca al sentimento de’ tuoi mali l’arrotare i dardi del tuo sdegno, e alle tue imprecazioni il renderli pungenti come i miei.
(esce)
Duch. Il vero dolore è forse così fecondo in parole?