Vita di Dante/Libro II/Capitolo XIII

Capo Decimoterzo - Fortuna, caduta d'Uguccione. Can Grande Della Scala, Dante in corte a questo.

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Capo Decimoterzo - Fortuna, caduta d'Uguccione. Can Grande Della Scala, Dante in corte a questo.
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O insensata cura de' mortali,
Quanto son difettivi sillogismi
Quel che ti fanno in basso batter l'ali!
Chi dietro a' iura e chi ad aforismi;
Sen giva, e chi seguendo sacerdozio,
E chi regnar per forza e per sofismi;
E chi rubare, e chi civil negozio;
Chi nel diletto della carne involto
S'affaticava, e chi si dava all'ozio:
Quand'io da tutto queste cose sciolto,
Con Beatrice m'era suso in cielo
Cotanto gloriosamente accolto.

PARAD. XI


Uguccione della Faggiola, signore di Pisa e Lucca, s’apparecchiava alla maggiore delle imprese per un capo ghibellino, quella contro Firenze. E sì, che costui, già dall’Autor del Veltro dimostrato importante alla vita di Dante, fu pur tale per la storia generale [p. 312 modifica]d’Italia. Vedémmolo finora uno dei più attivi ed arditi fra que’ podestà o capitani di popolo che cercavano fortuna in questa o quella città, e che così potrebbon chiamarasi magistrati di ventura; ed ora ci apparisce uno dei primi fra que’ capi di soldatesche straniere, o capitani pur di ventura, che servirono, talgieggiarono e tiranneggiarono poi a poco a poco le città e le province d’Italia nel corso di questo e del secolo seguente, fino al primo terzo del XVI. Le imprese anteriori di Uguccione in Romagna, e nelle sue prime podesterie e capitanerie in Arezzo o in Gubbio, furono fatte più nella prima che nell’ultima qualità; non apparendo che avesse séguito di venturieri più che gli altri podestà o capitani. Ma, alla morte di Arrigo VII, e al ritorno dell’oste col corpo di lui in Pisa, è rammentato dal Villani, che "tutti i caporali e baroni ch’erano coll’imperadore si partirono, et tornarono in loro paesi. Altri cavalieri tedeschi, brabanzoni et fiamminghi, con loro bandiere, rimasono al soldo de’ Pisani, intorno di mille a cavallo. E non potendo i Pisani aver altro capitano, si elessono Uguccione da Faggiuola [p. 313 modifica]di Massa Tribara, il quale era stato per lo imperadore vicario in Genova. Questi venne in Pisa, e prese la signoria, et appresso col séguito dell’Oltramontani fece in Toscana grandissime cose"1. Certo, vi furono bande assoldate ed anche straniere prima di questa. Ma questa, s’io non m’inganno, fu una delle prime e più grandi, ed Uguccione uno de’ primi che se ne giovasse a tener cittadi e ambir province. Ondechè, ed egli può dirsi il precursore di quello Akwood e quel Lodrisio Visconti che sogliono contarsi per primi de’ condottieri; e così di questa peste di più, se non introdotta almeno incredulita in Italia, possiamo esser grati alla discesa d’Arrigo imperadore.

Coll’ajuto di questa masnada di Tedeschi, che tal la chiama il Villani, e tal fu il nome che precedette quello di compagnie, aveva già Uguccione presa Lucca; con questa, poi, al fine del 1314 e al principio del 1315, cavalcava sovente sopra i Pistolesi infino a Carmignano, e sopra i Volterrani, e per tutta Maremma, e sopra i Samminiatesi; e per assedio ebbe il [p. 314 modifica]castello di Cigoli, e Monte Calvi e più altre castella2. E con questa finalmente trionfando per tutta Toscana, pose oste a Monte Catini in Val di Nievole; un castello de’ Lucchesi occupato poc’anzi da’ Fiorentini. Uguccione aveva seco "tutto lo sforzo di Pisa e di Lucca. et del vescovo d’Arezzo, et de’ conti di Santa Fiore, et di tutti Ghibellini di Toscana, et delli usciti di Firenze, et con aiuto de’ Lombardi di messer Maffio Visconti, et de’ figliuoli. Il quale Uguccione fu con numero di due mila cinquecento e più di cavalieri, et popolo grandissimo"3.

I Fiorentini, quasi spettatori fin allora dei trionfi di Uguccione, avendo chiamato e avuto ajuto tre principi di Puglia, cioè Piero e il principe di Taranto fratelli di re Roberto, e Carlo figliuolo del principe, e poi molti altri alleati, mossero alla riscossa. "Furonvi Bolognesi, Sanesi, Perugini, de la città di Castello, d’Agobio, di Romagna, di Pistoia, di Volterra et di Prato, e di tutte l’altre terre guelfe, et [p. 315 modifica]amici di Toscana; in quantità, con la gente del prenze et di messer Piero, di tre mila dugento cavalieri, et gente a piè grandissima"4. Così, per confessione dello stesso cronachista fiorentino, i suoi avevano il vantaggio del numero. Ma il principe di Taranto che li capitanava, era, a dir del re suo fratello, uomo "più di testa che savio, et con questo non bene avventuroso in battaglia, anzi il contrario"5. Partironsi di Firenze addì 6 agosto 1315; e giunti dinanzi all’oste di Uguccione, più dì stettero affrontati, col fossato della Nievole in mezzo, facendo assalti e scaramucce, o, come dicevano allora, badalucchi. Finalmente Uguccione, o per tema d’un soccorso di Guelfi che veniva a’ Fiorentini, o per istratagemma, nella notte del 28 al 29, levò le tende, arse i battifolli, cioè ridotti fatti per l’assedio, e schieròssi sullo spianato tra le due osti "con l’intenzione, se il prenze et sua hoste non si dilungassero, di vallicare et d’andarsene a Pisa; et se ’l volessono contastare, d’havere il vantaggio del [p. 316 modifica]campo, et di prendere alla ventura la battaglia"6. Veduto ciò al mattino da’ Fiorentini e da lor mal avventurato capitano, allor infermo di quartana, e volendo impedir la ritirata d’Uguccione, stendarono anch’essi lor campo, e senz’ordine di schiera affrontarono i nemici, credendo ciò bastasse a farli dare in volta. Ma furono di tanto ingannati, che anzi Uguccione incominciò egli la battaglia, e fece investire i Fiorentini a guardia dello spianato, dal proprio figliuolo e da Gianni Giacotti Malespini, fuoruscito di Firenze, col pennone imperiale, a capo di cencinquanta cavalieri. Ruppero questi quelle prime guardie; ma giunti alla schiera di messer Piero, che era colla cavalleria fiorentina, ne furono rotti essi, e vi rimasero morti i due capi ed abbattuto il pennone imperiale. Allora Uguccione fece avanzare la schiera de’ Tedeschi, che erano da ottocento cavalieri e più; i quali rabbiosamente assalendo i nemici non bene schierati nè compiutamente armati, miserli in fuga facilmente quasi tutti, e con più difficoltà, ma pur alla [p. 317 modifica]fine anche i cavalieri fiorentini. Vi morì messer Piero, il fratello del re di Puglia, nè fu trovato il corpo di lui; e morìronvi l’altro Angioino, Carlo figliuolo del principe di Taranto, ed altri grandi guerrieri di tutte le città della lega fiorentina, e di quasi tutte le case grandi e popolane di Firenze. Duemila morti e cencinquanta prigioni furono in tutto, secondo il Villani. Fuggì il principe di Taranto co’ restanti. Monte Catini, e poi Monte Sommano s’arrendettero ad Uguccione7. Volterra ed altre città mandarono a fargli obbedienza. Ludovico il Bavaro, uno dei due imperadori eletti, gli mandò privilegi e donazioni di stati ne’ luoghi vicini al campo di battaglia, e in quelli del suo nativo Montefeltro di Massa Tribaria, di Borgo San Sepolcro tenuto da suo figlio, e di Castiglione Aretino. I Guelfi erano caduti di cuore, e resta una canzone di lor lamenti. Uguccione, all’apice della sua potenza, pareva presso ad effettuare le predizioni di Dante8.

Che questi fosse alla battaglia di Monte Catini [p. 318 modifica]col suo amico e presente protettore, insieme con gli altri fuorusciti fiorentini menzionativi, non ne resta memoria da affermarlo o negarlo; e forse la riverenza della patria ne lo ritenne questa volta, come già al tempo dell’assedio di Arrigo VII. Ma che partecipasse in qualche modo a questi eventi e alle speranze che ne sorgevano, appena è da dubitare; restando memoria di una quarta condanna confermante le antiche, pronunciatagli contro in ottobre 1315, e così poco più d’un mese dopo la battaglia, da Ranieri di messer Zaccaria da Orvieto, il vicario di re Roberto in Firenze9. Fors’anche fu causa di questa nuova condanna la pubblicazione della Monarchia, che potè esser fatta allora. Ad ogni modo, il Poeta se ne risentì a modo suo ne’ Canti del Paradiso, ch’egli stava allora scrivendo; dove dell’amato suo Carlo Martello fa pungere quasi tutta la schiatta Angioina, e principalmente Roberto, contro cui finisce quella amara riflessione:

E se 'l mondo quaggiù ponesse mente
Al fondamento che natura pone,
Seguendo lui, avria buona la gente.

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Ma voi torcete alla religione
Tal che fu nato a cingersi la spada,
E fate re di tal ch'è da sermone;
Onde la traccia vostra è fuor di strada.
Parad. VIII, 142-148.

Aveva allora Dante nella fortuna crescente di Uguccione miglior consolazione che non questa delle parole; ma quella gli durò poco. Chè tal passo, tra speranze e disinganni, tutta la vita di Dante; e tal passa agli esuli per lo più.

Uguccione, imbaldanzito dalle donazioni imperiali, dalle vittorie, dalle varie signori, e più di tutto forse dall’armi straniere, il miglior appoggio di tirannia, tiranneggiava Pisa e Lucca. Al marzo 1316, invece di spignere Firenze e l’altre città guelfe, fece pigliare in Pisa Banduccio Buonconte, e Piero figliuolo di lui, uomini di senno e autorità, che gli contrastavano; ed apponendo loro di tener trattato col re Roberto, li fece subitamente decollare. Levòssene contro a lui grande grande odio de’ Pisani; a capo de’ quali si posero Coscetto del Colle popolano, e il conte Gaddo di quei Gherardeschi tanto a noi noti come principali Guelfi Pisani. A Lucca parimente, in sul principio [p. 320 modifica]d’aprile, Ranieri della Faggiola, succeduto nella podesteria al fratello morto a Monte Catino, faceva prendere e condannare a morte Castruccio Castracani10; con più giustizia forse, perchè Castruccio avea posto a ruba in Lunigiana certe castella di Spinetta Malaspina amico de’ Faggiolani, ma con eguale imprudenza, essendo Castruccio de’ principali di Lucca, e tanto più amato, che erano odiati i Faggiolani. Quindi a levarsi i Lucchesi in favore di lui11. Ranieri mandava a Pisa per ajuti al padre; e intanto, così mal difendevasi contra il furor popolare, che il suo prigione era gridato signore, ed egli costretto a fuggire. Uguccione, sull’avviso di Lucca, partivasi di Pisa; dove subito Coscetto del Colle pur sollevava il popolo al grido di mora Uguccione, assaliva e saccheggiava il palazzo del podestà, e faceva gridar signore Gaddo della Gherardesca. Uguccione a mezza via, e già fuoruscito tra due città di che poc’ora addietro era signore, cercò scampo dall’amico Spinetta Malaspina; onde poi passò a Modena, [p. 321 modifica]alle sue terre di Montefeltro, e finalmente a Verona presso Can della Scala, che assoldò lui, e forse i suoi masnadieri tedeschi. Certo, questi non dovettero restare col nuovo signor guelfo di Pisa12. Se poi restasse Dante in Lucca col nuovo signore Castruccio, che è possibile, essendo questi ghibellino; o se seguisse i Faggiolani presso ai Malaspina comuni amici, e poi in Romagna, non è documento da congetturarne. Certo, verso questi tempi trovasi anch’esso a nuovo rigfugio in Verona appresso allo Scaligero.

Can della Scala, detto il Grande13, era nel 1316 giovane d’anni venticinque, e non meno fiorente di potenza, di ricchezza e di liberalità. [p. 322 modifica]Aveva mostrata tal disposizione dell’animo fin dalla puerizia. Narra Benvenuto da Imola, che condotto dal padre suo Alberto al ripostiglio d’uno di quei tesori che erano il principal nerbo di tutte coteste potenze venturiere, e confortato il fanciullo a compiacersene, egli con rozzo atto puerile ne dimostrasse il suo disprezzo. Morto poi Alberto nel 1301, e poi Bartolommeo primo de’ figliuoli e successori nel 1304, e succeduto in lor potenza Alboino il secondo figliuolo (quello che, per qualunque ragione, fu ripreso da Dante di poca nobiltà), Cane il terzo de’ fratelli gli era stato associato verso il 1308. Amendue nel 1311, alla venuta di Arrigo imperadore, n’avevano avuto titolo ed ufficio di vicarii imperiali in Verona. Ma Alboino languiva già di mortale etisia, e Cane allor di 20 anni fu solo all’impresa con che tolsero Vicenza alla vicina Padova, mal obbediente all’imperadore, e poi all’importante assedio di Brescia, e poi a Genova onde, per la morte del fratello Alboino a’ 28 d’ottobre, ritornò a Verona, rimanendo solo vicario imperiale e signore14. [p. 323 modifica]Nel 1312, e più nel 1313 e nel 1314, dopo la morte d’Arrigo aveva avuto a difendere sua conquista di Vicenza e sua invidiata potenza contra Padova, Trevigi, il marchese d’Este e il vescovo di Feltre, ajutato egli dal vescovo di Trento, e secondo le occasioni dagli altri Ghibellini di Lombardia15. Finalmente, l’ardire personale di Cane terminò a suo onore e pro quella lunga lotta. Nel settembre del 1314, i nemici di lui raccolsero inattesi tutto il lor nerbo, campeggiarono improvvisi contra la contesa Vicenza, presero, saccheggiarono il Borgo San Piero, ed arrivarono alle mura. Ma avvisàtone Can Grande a Verona, con un solo famiglio cavalcò rapido a Vicenza, penetròvvi, rincorò i cittadini e il presidio di Tedeschi; e con subita sortita ai 17 settembre, al grido inaspettato di Viva Cane, piombò su’Padovani, li disfece e sbaragliò, molti uccidendo, più prendendone, e tutto predando. Fra’ prigioni eravi Albertino Mussato; scrittor latino elegante per quell’età, e, come a quell’età, uomo di spada e negozii [p. 324 modifica]non men che di lettere. Questi ed altri fra’ prigioni incominciarono trattati; onde seguì, a’ 20 ottobre, la pace tra Padova e Can Grande, a cui fu lasciata e confermata Vicenza16. Signore così di due potenti città, e Ghibellino costante, Can Grande con Passerino de’ Bonaccossi signor di Mantova e Modena, e Matteo Visconti vicario imperiale e signor della principale Milano, formarono in Lombardia come triumvirato ghibellino; che, negli anni 1315 e seguenti, guerreggiò e soverchiò quasi sempre i Guelfi di Brescia, Cremona, Padova, Treviso ed altre città. Nel 1317, nella disputa d’imperio tra Ludovico il Bavaro e Federigo d’Austria, sendo da papa Giovanni ordinato che nessuno s’intitolasse vicario imperiale senza licenza sua, il Visconti depose quel titolo, e si fece gridare dal popolo signore generale della città. All’incontro, lo Scaligero, addì 16 marzo, giurò fedeltà all’Austriaco, e n’ebbe conferma del vicariato in Verona e Vicenza. Finalmente, addì 16 dicembre del 1318, in parlamento a [p. 325 modifica]Soncino, fu Can Grande eletto a capitano generale della lega ghibellina in Lombardia, con mille fiorini d’oro al mese di stipendio17.

A tal signore, di tale potenza e fortuna, e tra tali guerre, venne come capitano di lui Uguccione nel 1316, e intorno al medesimo tempo come esule il nostro Dante. Uguccione se ne dipartì per poco nel 1317 per Lunigiana; onde, con gli ajuti condotti da Verona, e con quelli datigli da Spinetta Malaspina, tentava di ricuperare Lucca o Pisa. Ma levatisi que’ cittadini al timore dello sperimentato tiranno, lo ricacciarono così, che ebbe a tornare a Verona, e fuvvi in breve seguito dal Malaspina. Là pure era Guido di Castello, già ospite di Dante in Reggio, or cacciàtone; e con lui, Sagacio Muzzio Gazzata, scrittore delle storie di quella città, e narratore delle magnificenze della corte di Verona. Qui era il rifugio apparecchiato a tutti cacciati Ghibellini; qui pure onorata stanza a’ Guelfi cedenti alla potenza di Can Grande o prigioni di lui, fra cui Giacomo di Carrara, Vanni Scorrazzano, Albertino Mussato; e qui poi, come [p. 326 modifica]alla corte più splendida d’Italia, guerrieri, scrittori, chierici, poeti, artefici, cortigiani e giullari. Narra il Gazzata, partecipe di quelle magnificenze, come avevano tutti questi al palazzo del signore quartieri forniti e distinti, con addobbi ed imprese adattate ad ognuno; trionfi per li guerrieri, i sacri boschi delle muse per li poeti, Mercurio per gli artefici, il Paradiso per li predicatori, la fortuna per gli esuli. A tutti era imbandito; ed erano or gli uni or gli altri invitati al desco del signore; più sovente che gli altri, Guido da Castello detto il Semplice Lombardo, e Dante18.

Ma questa è, forse, fra le varie fortune di Dante, una di quelle in che è più da compatirgli. Chè ben può ogni infelice, se conscio d’innocenza, e [p. 327 modifica]tanto più se di qualche grandezza, aver conforto dall’una e dall’altra nella solitudine; ma è difficile serbarlo nelle compagnie de’ potenti e felici, troppo portati a trar merito dalla ventura, e ad incolpar le male riuscite. Nè perciò si corra precipiti a condannar Dante d’essersi messo a tal repentaglio; nè si creda nessuno d’aver cuor più alto o più superbo di lui. Ei v’ha una cotal semplicità propria degli uomini veramente grandi, che li dà vinti alle istanze ed alle prime accoglienze altrui, e non li lascia accorgere delle umiliazioni se non quando sono adempiute. Dante poteva tenersi per pari di chicchessia, e credere di dare in qualunque compagnia tanto o più che non ne riceveva. Ad ogni modo, di tali superbie altrui e disinganni di lui, abbiamo non poche memorie. E prima, una lettera di lui, seguente probabilmente di poco il suo arrivo presso Can Grande; al lettera con che rivolgeva a questo, tolta a Federigo di Sicilia, la dedica del Paradiso non finito, anzi nemmeno inoltrato.

Incomincia così. "Al magnifico e vittorioso signore, il signor Can Grande della Scala, Vicario19 [p. 328 modifica]del sacratissimo e sereno principato in Verona e Vicenza20, il devotissimo suo Dante Allagherio fiorentino di nascita, non di costumi, desidera vita felice per lunghi tempi, e perpetuo incremento del nome glorioso.

La lode della vostra magnificenza, sparsa dalla vigile e volante fama, fa così diversa impressione su diversi, che accresce agli uni le speranze, ed altri mette in terrore. Ed io veramente tal grido comparando co’ fatti de’ moderni, lo stimava superiore alla verità. Ma, per non durare in più lunga incertezza, come quella regina orientale che venne a Gerusalemme, come Pallade venne ad Elicona, così io venni a Verona a giudicarne fedelmente co’ proprii occhi. Vidi le vostre magnificenze udite per ogni luogo. Vidi insieme e provai li vostri beneficii. E come prima io sospettava che fosse soverchio ciò che se ne diceva, così d’allora [p. 329 modifica]in poi conobbi essere questo superato dai fatti. Quindi avvenne, che dal solo udito essendo già stato fatto benevolo con certa soggezione d’animo, alla prima veduta poi io vi divenni devotissimo ed amico. Nè assumendo il nome d’amico, io penso, come forse alcuni opporrebbero, incorrer traccia di presunzione; connettendosi col sacro vincolo d’amicizia non meno i disuguali che i pari; e potendo tra quelli vedersi dilettevoli ed utili amicizie". Difende poi con parecchie ragioni le disuguali amicizie; dice aver cercato, qual dono fargli tra le proprie opere, e trovare adattata la Cantica più sublime della Commedia, cioè il Paradiso; e così, colla presente lettera dedicargliela, offrirgliela, raccomandargliela. Poi entra a dir di tutta l’opera, che chiama polisenza; ed entra in quella spiegazione delle allegorie, che recammo. Poi vuole che il titolo di tutta l’opera sua sia così: Incomincia la Commedia di Dante Allighieri, fiorentino di nascita, non di costumi; e spiega il nome di Commedia; e, indicata la divisione in tre Cantiche, e di queste in Canti, viene a dir della presente Cantica terza del Paradiso. Segue un’esposizione minuta a modo [p. 330 modifica]di quelle del Convito, che occupa la più lunga parte della lettera, ma che è del solo primo Canto. Anzi, diviso questo in due, prologo e parte esecutiva, e il prologo in due suddivisioni, non espone minutamente se non la prima parte del prologo, e più generalmente la seconda. Il che fatto, segue e termina così: "Questa è la significazione della seconda parte del prologo in generale. In ispeciale non si espone per lo presente. Imperciocchè mi preme la strettezza di mie facoltà (rei familiaris); cosicchè mi conviene lasciare queste ed altre cose utili al ben pubblico (rei publicæ)21. Ma spero dalla magnificenza vostra di avere altrimenti facoltà ad un’utile esposizione. Della parte poi esecutiva, che nella divisione opposi a tutto il prologo, non dirò nè dividendo nè spiegando nulla per lo presente, se non ciò: che quando si procederà ascendendo di cielo in cielo, allora si reciterà delle anime beate trovatevi e d’ogni [p. 331 modifica]sfera, e che quella vera beatitudine consiste nel principio di quella sentenza della verità che si trova in San Giovanni, Questa è la vita eterna, il conoscere te Dio vero; e per Boezio, nel III della Consolazione, Te cernere finis. Onde è, che a mostrare la gloria della beatitudine in quelle anime, da esse come veggenti ogni verità, molte cose di domanderanno, le quali hanno grande utilità e diletto. E perchè trovato il principio, o primordio, cioè Dio, altro non è da cercare ulteriormente, essendo egli α ed ω, cioè principio e fine, siccome è dimostrato nella visione di San Giovanni; si termina il trattato in esso Dio: che sia benedetto nè secoli dei secoli"22.

Quindi apparisce chiaramente, che già venuto, anzi stanziato Dante in Verona, e già sperimentate le prime beneficienze di Can Grande, gli volle dedicare il Paradiso; e che ciò facendo, non tutto, anzi nemmeno gran parte di esso non gli mandò colla dedica, ma solo il primo Canto, o poco più. E quindi viene [p. 332 modifica]naturalmente spiegato ciò che dice il Boccaccio:"Egli era suo costume, qualora sei o otto Canti fatti ne aveva, quelli, prima che alcun altro li vedesse, dove ch’egli fusse, mandare a messer Cane della Scala, il quale egli oltre ad ogni altro aveva in reverenza; e poichè da lui erano stati veduti, ne faceva copia a chi la voleva. E in così fatta maniera avendoglieli tutti, fuorchè gli ultimi tredici Canti, mandati; e quelli avendo fatti e non ancora mandatigli, avvenne ch’egli, senza avere alcuna memoria di lascarli, morì"23.

Veramente il Boccaccio, descrivendo siffatto modo di pubblicazione, accenna al Poema intiero; ma dicendo poche pagine appresso di quella dedica delle tre Cantiche ai tre, Uguccione, Moroello Malaspina e Federigo di Sicilia, ed aggiungendo "alcuni vogliono dire lui averlo titolato tutto a messer Cane"24 chiaro è che egli reca due voci pubbliche, sorte allora dal non sapersi la sostituzione fatta di Cane in luogo di Federigo; ed è probabile che quel [p. 333 modifica]modo di pubblicazione Canto per Canto, è da intendersi de’ venti primi soli del Paradiso. Ma di questa e d’altre dispute Dantesche, diciam pure col Boccaccio:"ma qual si sia di queste due la verità, ........... egli non è sì gran fatto, che solenne investigazione ne bisogni".25.

Più importante per noi è quella confessione di povertà che nell’ultime righe fa Dante. Confessione, anche questa, la quale contenendo quasi una domanda, scandalizzerà taluni, i quali altieri credendosi, nol sono abbastanza per far apertamente ciò a che la fortuna li costringe. Ad ogni modo, i medesimi sensi e quasi le medesime parole delle lettera sono poi tradotti in versi dal Poeta in quel lungo dialogo tra esso e Cacciaguida proavo suo, onde già togliemmo ciò che appartiene ad ogni periodo di nostra storia. Qui è primamente da osservare, che tutto quel suo vanto di nobiltà disdice meno assai tra la miseria in che si trovava. Poi, nella parte già riferita, che appartiene al suo primo rifugio presso Bartolommeo, il fratello di Cane, notisi ch’ei lo loda d’aver antivenute le sue domande; [p. 334 modifica]e così rimprovera Cane, a cui fu in qualunque modo costretto di domandare. Fra gli strali dell’esilio, si fa dire da Cacciaguida,

Tu proverai sì come sa di sale
Lo pane altrui, e com'è duro calle
Lo scendere e 'l salir per l'altrui scale;

che certo era altiera ammonizione al potente suo ospite. Ma ad ogni modo, ei lo loda poi direttamente e magnificamente, così:

Con lui26 vedrai colui che impresso fue,
Nascendo, sì da questa stella forte,
Che notabili fien l'opere sue.
Non se ne sono ancor27 le genti accorte,
Per la novella età, che pur nove anni
Son queste ruote intorno di lui torte.
Ma pria che 'l Guasco28 l'alto Arrigo inganni,
Parran faville della sua virtute
In non curar d'argento nè d'affanni.
Le sue magnificenze conosciute
Saranno ancora sì, che i suoi nimici
Non ne potran tener le lingue mute.29

[p. 335 modifica]

A lui t'aspetta ed a' suoi benefici;
per lui fia trasmutata molta gente,
Cambiando condizion ricchi e mendici;
E porteràne scritto nella mente}}
Di lui, ma nol dirai30 .....; e disse cose
Incredibili a quei che fia presente.
PARAD. XVII, 76-93.


Ma di nuovo son temperate queste lodi da ciò che segue. Noto è quanto sovente il Poeta morda i grandi; e dicemmo due tradizioni ce corrono di due vendette cadutene perciò su lui in Toscana ed in Genova. Nè perciò egli aveva degnato scusarsene mai, o mutar modi. Ma ora, in corte a Can Grande, gli potè venir a mente quel luogo de Purgatorio testè pubblicato, dove erano vituperati due Scaligeri; Alberto padre di Can Grande, e Filippo abate di San Zeno, fratello naturale di lui31. [p. 336 modifica]E forse Cane stesso od altri glieli rimproverarono. Ad ogni modo, certo è che qui ei sentì il bisogno, qui almeno gli venne il pensiero di scusarsene. Ma furono scuse da superbissimo, che cadono in minacce. Imperciocchè, finita appena la predizione di Cacciaguida:

Io cominciai, come colui che brama,
Dubitando, consiglio da persona
Che vede, e vuol dirittamente, ed ama:
Ben veggio, padre mio, sì come sprona
Lo tempo verso me per colpo darmi
Tal ch'è più grave a chi più s'abbandona;
Per che di provedenza è buon ch'io m'armi,
Sì che, se luogo m'è tolto più caro,
Io non perdessi gli altri per miei carmi.
Giù per lo mondo senza fine amaro,
E per lo monte del cui bel cacume
Gli occhi della mia donna mi levaro.
E poscia per lo ciel di lume in lume,
Ho io appreso quel che, s'io ridico,
A molti fia savor di forte agrume;

[p. 337 modifica]

E s'io al vero son timido amico,
Temo di perder vita tra coloro
Che questo tempo chiameranno antico.
La luce in che rideva il mio tesoro,32
Ch'io lo trovai lì, si fe prima corrusca,
Quale a raggio di sole specchio d'oro.
Indi rispose: coscienza fusca
O della proprio o dell'altrui vergogna,
Pur sentirà la tua parola brusca.
Ma nondimen, rimossa ogni menzogna,
Tutta la tua vision fa manifesta,
E lascia pur grattar dov'è la rogna;33
Che, se la voce tua sarà molesta
Nel primo gusto, vital nutrimento
Lascerà poi quando sarà digesta.
Questo tuo grido farà come 'l vento
Che le più alte cime più percuote;
E ciò non fia d'onor poco argomento.

[p. 338 modifica]

Però ti son mostrate in queste ruote
Nel monte, e nella valle dolorosa
Pur l'anime che son di fama note,
Che l'animo di quel ch'ode, non posa
Nè ferma fede per esempio ch'haia
La sua radice incognita e nascosa,
Nè per altro argomento che non paia.
PARAD. XVII, 103-142.

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Se s’avesse a fare un commento delle bellezze poetiche e morali che sono in questo passo, non basterebbero parecchie pagine. Ciò solo farò osservare in generale, che lor bellezza si accresce di gran lunga al pensiero del luogo e del tempo in che, e della persona a cui dicevasi tutto ciò. In particolare, si osservino i versi dal 106 al 111, dove si contiene una evidente previsione di dover lasciare la corte di Can Grande. Il luogo più caro del verso 110 è certo Firenze; e tra gli altri ch’ei prevede di perdere, è Verona stessa. E certo, poi, quel colpo più grave a chi più si abbandona del verso 108, che non veggo spiegato da nessuno, diventa chiarissimo, intendendolo [p. 339 modifica]per la respinta, per li cattivi, i freddi trattamenti temuti o incominciati, i quali appunto sono più gravi a chi più s’abbandona.

E la storia, le tradizioni, le date, i casi posteriori di Dante, il non aver esso mandati a Cane gli ultimi tredici Canti, tutto prova una rottura; una, se non inimicizia, ma mala intelligenza tra il superbo protetto, e il magnifico protettore. A chi la colpa? Io ne raccolgo le memorie superstiti; e crederànne ognuno poi a suo talento, o forse secondo la natura e la fortuna sua. E prima, avvertito il lettore, che il Petrarca, il secondo in tempo e in grandezza fra’ tre padri della lingua nostra, fu molto minor del buon Boccaccio nella venerazione al comune lor predecessore; prendiamo da lui la seguente narrazione:"Dante Alighieri, mio concittadino, fu uomo chiarissimo nel sermone volgare; ma nel costume e nel parlare alquanto per la sua contumacia più libero che non piacesse alle delicate e studiose orecchie, ed agli occhi dei principi dell’età nostra. Il quale dunque, esule dalla patria, dimorando appresso a Can Grande, universal consolatore e rifugio allora degli afflitti, fu [p. 340 modifica]prima veramente da lui tenuto in onore, ma poscia a poco a poco incominciò a retrocedere ed a piacere di dì in dì meno al signore. Erano nel medesimo convitto istrioni e parasiti d’ogni genere, come s’usa; uno de’ quali, procacissimo per le sue parole e li suoi gesti osceni, molta importanza e grazia otteneva appresso a tutti. E venendo Cane in sospetto, essere ciò di mal animo sopportato da Dante, fatto colui farsi innanzi, e grandemente lodatolo a Dante io mi meraviglio, disse, come si faccia che costui così scemo abbia pur saputo piacere a noi tutti e sia da tutti amato, che nol puoi tu, il quale sei detto sapiente! E Dante, non te ne meraviglieresti, rispose, se sapessi che la causa dell’amicizia sia nella parità de’ costumi, e nella somiglianza degli animi".34

Narrasi poi, che a quella mensa troppo largamente ospitale, dove con un Dante sedevano giullari e facevansi tali celie, scortesi in ogni gentile persona, ma vili da superiore a inferiore, fu una volta nascosto sotto al desco [p. 341 modifica]un ragazzo, che raccogliendo le ossa là gettate, secondo l’uso di que’ tempi, da’ convitati, le ammucchiasse a’ piedi di Dante. E levate le tavole ed apparendo quel mucchio, il signore facendo vista di meravigliarsene:cetto, disse, che Dante è gran divoratore di carni.A cui Dante prontamente: Messere,disse, voi non vedreste tant’ossa se cane io fossi.35

Ma, oltre la magnificenza scortese del signore, e la superbia difensiva od offensiva del rifugiato, ci è accennata dal sagace Autor del Veltro, una più seria cagione di dispareri che potè essere tra i due. Vedemmo Cane aver riconosciuto Federigo d’Austria come imperadore; ed all’incontro, Dante colla dedica della Monarchia, ed Uguccione col farsene dar concessioni, aveano fino dal 1314 e 1315 riconosciuto Ludovico il Bavaro. In quei tempi, e tra tali uominidi parte, dovette essere almeno occasione di dispute. Tuttavia, noi veggiamo Uguccione rimanere collo Scaligero dopo ciò; nè è probabile che Dante per ciò solo se ne partisse. Bensì potè essere una delle cause [p. 342 modifica]del pungersi reciproco, e il pungersi della partenza poi dell’intollerante Poeta.

Ma, oltre a tutto ciò, abbiamo una memoria del soggiorno di Dante in Verona, che mi pare aprir campo a nuove spiegazioni, e forse compierle tutte. Sembra che questa volta facesse Dante non un semplice soggiorno, ma uno stabilimento fermo, e con intenzione che fosse durevole. Certo, v’ebbe seco Pietro il figliuolo suo primogenito, il quale vi continuò a vivere poi dopo la morte del padre, e v’ebbe discendenza che vi dura anche oggidì. Forse anche altri figliuoli di Dante si ricongiunsero allora a lui. E narrasi, apparisse un dì dalle stesse scritture di lui, aver esso esercitato in Verona l’ufficio di giudice36. Ora, tal ufficio doveva insieme, e molto preoccupare il tempo del Poeta, e non piacergli, per la nota antipatia di quelle due occupazioni; e perchè poi all’antico ambasciadore, al priore della potente Firenze, dovea parer minuto ed inferiore tal ufficio, simile a quello di que’ giudici condotti dai podestà, dei quali è frequente menzione e celia nelle antiche [p. 343 modifica]novelle. Vedemmo e vedremo fino all’ultimo, Dante pospor sempre rettamente la vita contemplativa all’attiva, i suoi studii ai carichi carichi datigli dalla sua Repubblica, dalla sua parte, ed anche da’ suoi protettori d’esilio. Ma gli altri, datigli prima e dopo, furono ufficii adeguati a lui: questo non era, nè dovea parergli tale; ed è a dir de’ carichi ciò che dicemmo delle compagnie, che i superbi infelici s’adattan meglio a non averne, che ad averne d’indegni. Ora, di tal sentire di Dante noi abbiamo, non una traccia, ma una prova in quel passo della dedica testè recata; dove si lagna che le strettezze di sua facoltà gl’impediscono gli studii ulteriori; e spera dalla magnificenza di Can Grande d’essere sollevato da tali impedimenti. Furono passate senza attendervi nè spiegarle tali lagnanze e speranze dagli interpreti; ma non potendosi spiegar altrimenti che per qualche carico che usurpasse in modo ingrato il tempo e i pensieri del Poeta, ei debbe spiegarsi per questo di che abbiamo memoria. Adunque, parmi appena da dubitarne: Dante fu fatto giudice in Verona dalla magnificenza del signor Can Grande, che vedemmo così poco [p. 344 modifica]sagace o gentile apprezzator di uomini. E Dante, dopo aver qualche tempo morso il freno, e provato questo strale di più dell’esilio, il superbissimo Dante se ne liberò senza badare se offendesse, ed offese. Uno de’ Canti del Paradiso fatti colà e mandati a Cane, l’XI, che non è così ne’ de’ primi nè degli ultimi, incomincia con quegli ammirabili versi che sono in fronte al presente capitolo; e che introdotti senza necessità da una spontanea ispirazione, accennano la condizione dell’animo dello scrivente, e debbon dirsi uno sfogo, un canto d’allegrezza dopo aver rimosso da sè, o di fatto o almeno scrivendo, tutte quelle cure de’ mortali ch’ei chiama insensate. E notisi quel riporre fra essi i iura e quel regnar per forza e per sofismi, che inteso o no contro al signore, doveva almeno lasciare un sospetto d’ingiuriosa applicazione nell’animo di lui.

In tutto, qualunque più generale o più precisa interpretazione diasi alle parole di Dante, elle s’accordan troppo colle memorie e co’ documenti, per lasciare il menomo dubbio sulle mutue offensioni, e sul caduto favore dell’esule in corte. Ma Dante n’avea compenso in [p. 345 modifica]quel favor pubblico, che va e viene sovente in senso opposto; e in quell’applauso della gente volgare, che è solo segno di larga gloria. Così vedesi da una narrazione del Boccaccio, tanto più preziosa per noi, che ella pur ci dà il ritratto della persona di Dante all’età appunto del suo presente soggiorno in Verona, che era d’oltre a’ 50 anni. "Fu, adunque, questo nostro Poeta di mediocre statura; e poichè alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto; ed era il suo andare grave e mansueto, di onestissimi panni sempre vestito, in quello abito che era alla sua matura età convenevole. Il suo volto fu lungo, e ’l naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi; e dal labbro di sotto era quello di sopra avanzato. Il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi; e sempre nella faccia malinconico e pensoso. Per la qual cosa, avvenne un giorno in Verona (essendo già divulgata per tutto la fama delle sue opere, e massime quella parte della sua Commedia la quale egli intitolò Inferno, ed egli conosciuto da molti uomini e donne), che passando egli davanti a una porta, dove più donne sedevano, [p. 346 modifica]

una di quelle pianamente, non però tanto che bene da lui e da chi con lui era non fusse udita, disse alle altre donne: Vedete colui, che va nell’inferno e torna quando gli piace, e quassù reca novelle di quelli che laggiù sono? Alla quale una di loro rispose semplicemente:In verità, tu dei dire il vero. Non vedi tu, com’egli ha la barba crespa, e il color bruno, per lo caldo e per lo fumo che è laggiù? Le quali parole egli udendo dire dietro a sè, e conoscendo che da pura credenza delle donne venivano; piacendogli, e quasi contento che esse in cotali opinioni fussino, sorridendo alquanto, passò avanti. Ne’ costumi pubblici e domestici mirabilmente fu composto e ordinato; e in tutti, più ch’alcun altro cortese e civile. Nel cibo e nel poto fu modestissimo, si in prenderlo alle ore ordinato, e sì in non trapassar il segno della necessità quello prendendo; nè alcuna golosità ebbe mai, più in uno che in un altro. Li dilicati cibi lodava, e il più si pasceva di grossi; oltremodo biasimando coloro, li quali gran parte del loro studio pongono, e in avere le cose elette, e quelle fare con somma diligenza apparare.... Niuno altro fu più vigilante

Note

  1. Villani, p.489.
  2. Vill., LXXXVII, p.475.
  3. Vill., pag.476.
  4. Vill., pag.476.
  5. Vill., pag.476.
  6. Vill., pag.477.
  7. Vill., pp.477 e 478.
  8. Veltro, p.149.
  9. Pelli, pp.109, 130.
  10. Ved.Muratori,an.1316.
  11. Vill., pp.479,480.
  12. Veltro, pp.150,151.
  13. Di Can Grande, vedi: Ferreti, Vicent. Hist., lib.VI e VII, Rer.It. IX, p.1122; - Eiusd., Carmen in laudem Canis Grandis, Rer.It. IX, p.1197; - Cronica di Verona, Rer.It. T.VIII.; - Girolamo della Corte, Storia di Verona; Sagacio Mussio Gazzata, Storia di Reggio, Rer.It. XVIII; - Pelli, p.120; - Arrivabene I. 224, 1443; - Mussato, Rer.It. Tom.VIII; - Boccacc., Dec.Giorn.Nov.7.
  14. Murat. an.1311; Veltro, 119,120,128; Arriv.I, 225,226.
  15. Murat. an.1312,1314; Veltro, 133,136,138.
  16. Murat. an.1314.
  17. Murat. an.1315-1318.
  18. Queste notizie lasciate già da Sagacio Muzzio Gazzata, e raccolte poi dal Pancirola, furono pubblicate dal Muratori nel Rer.It., XXIII, p.2, nella prefazione alla Cronica di Sagacio Gazzata, la quale poi non contiene nel testo siffatte notizie. Onde si vuol dire, o che questo sia solo una parte delle cronache dI Sagacio; od anzi (se mi sia lecita una congettura non venuta in mente a un editore come il Muratori), che il Sagacio citato dal Pancirola fosse un altro, e probabilmente il padre di quello di cui è il testo Muratoriano. E tanto più, che questi pur trovasi chiamato Sagacino, solito modo diminutivo di chiamare a que’ tempi i figliuoli omonimi al padre.
  19. Manca questa parola, ma è chiara la mancanza della desinenza grammaticale del titolo che segue, e dall’epiteto di sacratissimo, che non può convenire se non al Romano imperio.
  20. In urbe Verona, et civitate Vicentia, così distinguendo la capitale di Cane, con una locuzione che non è possibile volgarizzare.
  21. La parola repubblica nel medio evo è sovente presa per imperio. Quindi potrebb’essere che Dante accennasse qui l’opera sua della Monarchia, fatta ad utile dell’imperio; della quale sarebbe così fissata la data, non anteriore alla venuta a Verona e all’anno 1316.
  22. Vedi Opere di Dante, Venez.1758, Tom.IV.,P.I.,p.400; e meglio corretta in Witte, Dantis Epistolæ, p.73.
  23. Boccacc., Vita, p.88.
  24. p.93.
  25. Boccacc., Vita, p.94.
  26. Bartolommeo Scaligero, fratello di Cane.
  27. Nell'anno 1300, epoca del Poema.
  28. Papa Clemente V.
  29. Sono quasi le parole del principio della lettera.
  30. Qui c'è una bella intrruzione non osservata dagl'interpreti (ch'io sappia), simile a un'altra sola in tutto il Poema. E nota quanto parcamente usassero di tal figura Dante e i nostri antichi; chè credo Tasso non l’usasse mai, e due volte sole Ariosto; ora poi se ne usa ed abusa.
  31. Tutte queste osservazioni già furono fatte dall’Autore del Veltro, p.150 e seg. Ei vi aggiugne, che Dante pur doveva temere dell’ingiurie dette ad Alboino nel Convito. Ma fu egli il Convito pubblicato mai da Dante? La dedica del Paradiso si ripetono le spiegazioni sull’allegorie ec. date già nek Convito, accenna che questo non doveva esser conosciuto da Cane, a cui si facevano, come nuove, tali spiegazioni.
  32. Ne' commenti della Minerva intepretasi quasi il mio tesoro fosse il trisavolo Cacciaguida; che sarebbe sciocca espressione. Ma si confrontino i versi 31-39 del Canto XV, e si vedrà che il viso di Beatrice era quello che rideva alla luce di Cacciaguida, e così resta da lui chiamata suo tesoro la sua donna, e non il suo nonno.
  33. Questo verso tanto vituperatom, si fa per la sua stessa bassezza , se non poeticamente, ma sotricamente bellom, siccome dispressantissima risposta ai risentimenti de' cortigiani maggiori o minori.
  34. Petrarca, Rer.Memorab.Lib.11,Cap.IV,p.427 dell’ediz. di Basilea.
  35. Cinzio Giraldi, Hecatomiti, Deca VII, nov.6.
  36. Veltro, pag.174. E vedi Maffei e il Landino.