Vita di Dante/Libro II/Capitolo XIV
Questo testo è incompleto. |
◄ | Libro II - Capitolo XIII | Libro II - Capitolo XV | ► |
Alma sdegnosa,
Benedetta colei, che in te s'incise.
Vedemmo nel 1315 una quarta ed ultima condanna di Dante, pronunziata con altre dal vicario di re Roberto in Firenze, dopo la sconfitta sofferta a Montecatini. Cacciato poi, in sul principio del 1316, Uguccione di Pisa e Lucca, e diventata guelfa Pisa sotto Gaddo della Gherardesca, si conchiuse tra essa e Firenze ed altre città, addì 12 maggio 1317, una pace quasi generale in Toscana; restando sola nemica di Firenze, Lucca signoreggiata da Castruccio Castracani, già ambizioso, ma non per anco pericoloso. Quindi, finalmente, a moderarsi i timori e l’ire guelfe de’ reggitori di Firenze, e ad ammettersi alcuni fuorusciti. Ma, come era stata guastata la prima moderazione dalle eccezioni, così fu questa dale condizioni imposte a’ ripatrianti. Era costume antico, al dì festivo in Firenze di San Giovanni, graziare alcuni condannati, offerendoli al Santo con una candela in mano, e facendo lor pagare una multa. Si ammisero in quell’anno della pace, probabilmente per la prima volta, i condannati politici a questa grazia da malfattori. Un nipote di Dante ed altri suoi amici lo pressavano di accettarla egli pure. Un religioso, secondo l’uso de’tempi, facevasi intermediario della proposta; e noi siamo così fortunati d’aver la risposta di Dante. Altre lettere di lui abbiamo recate altrove, e non abbiam saputo ammirarle. Ma di quest’ultima, non saranno due giudizii tra’ leggitori. Lo stile stesso, bujo nell’altre lettere, diventa chiaro qui al chiaror de’ pensieri. "Dalle vostre lettere, reverentemente ed affettuosamente come si doveva da me ricevute, io ho con gratitudine e diligente considerazione inteso, quanto vi stia in cuore il pensiero del mio ripatriamento. E a voi tanto più strettamente m’avete con ciò obbligato, quanto più rara sorte è agli esuli il trovare amici. Ma al contenuto di quella lettera io rispondo; e se non forse nel modo che sarebbe voluto dalla pusillanimità di taluni, chiedovi affettuosamente, che, prima di giudicarne, voi esaminiate in vostro consiglio la mia risposta. Ecco, dunque, che per lettere del vostro e mio nipote1, e di parecchi altri miei amici, mi è significato: che, per un ordinamento testè fatto in Firenze sull’assoluzione degli sbanditi, se io volessi pagare certa somma di denari e patir la taccia della offerta, potrei esser assolto e tornare subitamente. Nel che, per vero dire, son due cose da ridere, e mal consigliate da coloro che tutto ciò espressero; imperciocchè le vostre lettere, con più discretezza e miglior consiglio formulate (clausulate), non contengono nulla di tale. Ed è ella questa quella rivocazione gloriosa, con che Dante Allegherio è richiamato alla patria, dopo quasi tre lustri di esilio sofferto? Questo ha meritato una innocenza patente a tutti, qualunque sieno? Questo, il sudore e la fatica continovata nello studio? Lungi stia da un uomo famigliare della filosofia, una così temeraria e terrena bassezza di cuore, da lasciarsi, quasi legato, e a modo quasi di un Ciolo2 e d’altri infami, offerire! Lungi da un uomo predicante giustizia, contare, dopo patita ingiustizia, a coloro che glie l’han fatta, il proprio danaro! Non è questa la via di tornare alla patria, o padre mio. Un’altra se ne troverà o da voi, o col tempo da altri, la quale non deroghi alla fama, non all’onore di Dante. Quella accetterò io, con passi non lenti. Che se per niuna tal via in Firenze non s’entra, non mai entrerò io in Firenze. E che? non vedrò io onde che sia gli specchi del sole e degli astri? Non potrò io speculare dolcissime verità sotto il cielo dovunque, senza prima arrendermi, nudato di gloria, anzi con ignominia, al popolo fiorentino? Nè il pane mi mancherà ...."3 E non abbiamo il restante. Ma la storia poi ci dà il risultato. Non pochi de’ compagni d’esilio e condanna di Dante, Tosinghi, Mannelli e Rinucci, accettarono e furono offerti il dì del Santo di quell’anno 1317.4E fecero bene questi; non erano grandi; non avevano la dignità d’un Dante da serbare; non diritti, doveri o forza eguali. Ma rimase fuori, per questo impegno o pettegolezzo da cittaduzza, per questa ignobile prepotenza municipale, il maggior cittadino ed onor di Firenze; e fuori egli morì, fuori rimasero e rimangon l’ossa, fuori la discendenza, il sangue di lui anche oggidì. Vero è, che a ciò sorrideranno forse taluni, e chiederanno: che danno sia? E il chiesero probabilmente que’ tirannucci plebei a quel dì di San Giovanni, mentre vedevano passarsi innanzi, la candela in mano, i raumiliati concittadini, e mancar tra ’l gregge colui che chiamavasi là, e allora, il dispettoso, il presuntuoso, l’arrogante Alighieri.
Come vedesi, ogni probabilità è che tal lettera del principio del 1317 fosse scritta dal soggiorno di Verona, che durò fino entro il 1318. Ma trovandosi poi tradizione antichissima di un soggiorno fatto da Dante nel 1318 nel monistero di Fonte Avellana presso a Gubbio, di cui era priore un fra’ Moricone, non è improbabile che questi fosse il buon monaco, il quale avea trasmesse a Dante le proposizioni da lui rigettate; e che ora, o per gratitudine, o dietro qualche speranza, a lui venisse Dante. Vediamo le plausibili congetture, e la bella descrizione d’un testimonio de’ luoghi: «S’innalza il monistero sui più difficili monti dell’Umbria. Gli è imminente il Catria, gigante degli Appennini; e sì l’ingombra, che non di rado gli vieta la luce in alcuni mesi dell’anno. Aspra e solinga via tra le foreste conduce all’ospizio antico di solitarii cortesi, che additano le stanze ove i loro predecessori albergarono l’Alighieri.5 Frequente sulle pareti si legge il suo nome; la marmorea effigie di lui attesta l’onorevole cura che di età in età mantiene viva in quel taciturno ritiro la memoria del grande Italiano. Moricone priore il ricevè nel 1318; e gli Annali Avellanesi recansi ad onore di ripetere questo racconto. Che se lo tacessero, basterebbe aver visto il Catria e leggerne la descrizione di Dante6, per accertarsi ch’egli vi ascese. Di quivi egli, dalla selvosa cima del sasso, contemplava la sua patria, e godeva di dire che non era dessa lungi da lui.7E combattea col suo desiderio di rivederla; e, potendo ritornarvi, si bandiva egli stesso di nuovo per non soffrire l’infamia. Disceso dal monte, ammirava i costumi antichi degli Avellaniti; ma fu poco indulgente co’ suoi ospiti, che gli sembrarono privi delle loro virtù.8 A quei giorni, e nei luoghi vicini a Gubbio, sembra che si debba porre l’aver egli dettato i cinque Canti oltre il vigesimo del Paradiso. Imperciocchè nella menzione che fa di Firenze, allorchè nel vigesimo primo parla del Catria, ed in ciò che dice nel vigesimoquinto del voler prendere sul fonte del suo battesimo la corona poetica, ben si ravvisa la sua speranza di riavere la patria ed il suo bell’ovile9, superate che il tempo avesse le difficoltà intorno alla maniera del ritornarvi".10
Il Canto XI del Paradiso, primo di quelli che l’Autor del Veltro congettura scritti in questa solitudine, primo poi certamente di quelli non mandati a Cane, incomincia:
Già eran gli occhi miei rifissi al volto
Della mia donna, e l'animo con essi,
E da ogni altro intento s'era tolto;
e tanto concorda il senso, anzi l’intimo sentimento ispirator di questi versi, con tutte le congetture precedenti, che se non fossero vere, sarebbe quasi un miracolo quel concordare: onde parmi da dubitare che fosse incominciato questo primo de’ Canti non mandati a Cane, dopo lasciata da Dante la corte di lui. Ancora il Canto intiero celebra la vita contemplativa de’ santi solitarii, posti (senz’altra ragione apparente che dall’occasione) nel cielo di Saturno. Tra questi solitarii pone San Pier Damiano, il contemporaneo di Gregorio VII, e compagno di lui nella prima guerra mossa alla corruzione ecclesiastica, abitatore già di quel medesimo monistero di Fonte Avellana; il quale dimandato da Dante chi egli sia, risponde:
Tra due liti d'Italia surgon sassi,
E non molto distanti alla tua patria,
Tantoche i tuoni assai suonan più bassi;
E fanno un gibbo, che si chiama Catria,
Dissotto al quale è consecrato un ermo,
Che suol esser disposto a sola latria.
Così ricominciommi il terzo sermo;
E poi continuando disse: quivi
Al servigio di Dio mi fei sì fermo,
Che pur con cibi di liquor d'ulivi
Lievemente passava e caldi e gieli,
Contento ne' pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
Fertilemente, ed ora è fatto vano,
Sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu' io Pier Damiano;
ec. ec.
Parad. XXI, 106-121.
Del resto, due secoli e mezzo dopo, fu in certo modo confermata la sentenza di Dante da Pio V, che soppresse que’ monaci per la decaduta disciplina, e diè il lor monistero a’ Camaldolesi.<ref>Pelli, p.135, n°14.</
no match
modificaref>
Note
- ↑ O forse: di voi, e del mio nipote.
- ↑ Nome, probabilmente, di qualche malfattore famigerato a quel tempo.
- ↑ Pelli, p.204. Witte, Dantis Ep. VIII, il qualela pone così prima di quella a Can Grande. Ma, non ostante la riverenza dovuta a questo, quasi italiano, cultore di letteratura Dantesca, parmi dover seguir le ragioni che mi fecero porre al 1316 la lettera a Cane e al 1317 questa al religioso.
- ↑ Veltro, p.160, Foscolo.
- ↑ Vedi pur Giuseppe Bencivenni Pelli, pp. 134 e 135, che cita un libretto intitolato: Cronistoria dell’antica, nobile ed osservante Abbadia di s. Croce della Fonte Avellana nell’Umbria dell’Ordine Camaldolese. Siena 1723 — 4º.
- ↑ Parad. XXI, 106-111.
- ↑ Ibid. 107.
- ↑ Ibid., 113-120.
- ↑ Parad. XXV, 1-12.
- ↑ Veltro, pp.165, 166.