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tanto più se di qualche grandezza, aver conforto dall’una e dall’altra nella solitudine; ma è difficile serbarlo nelle compagnie de’ potenti e felici, troppo portati a trar merito dalla ventura, e ad incolpar le male riuscite. Nè perciò si corra precipiti a condannar Dante d’essersi messo a tal repentaglio; nè si creda nessuno d’aver cuor più alto o più superbo di lui. Ei v’ha una cotal semplicità propria degli uomini veramente grandi, che li dà vinti alle istanze ed alle prime accoglienze altrui, e non li lascia accorgere delle umiliazioni se non quando sono adempiute. Dante poteva tenersi per pari di chicchessia, e credere di dare in qualunque compagnia tanto o più che non ne riceveva. Ad ogni modo, di tali superbie altrui e disinganni di lui, abbiamo non poche memorie. E prima, una lettera di lui, seguente probabilmente di poco il suo arrivo presso Can Grande; al lettera con che rivolgeva a questo, tolta a Federigo di Sicilia, la dedica del Paradiso non finito, anzi nemmeno inoltrato.

Incomincia così. "Al magnifico e vittorioso signore, il signor Can Grande della Scala, Vicario1

  1. Manca questa parola, ma è chiara la mancanza della desinenza grammaticale del titolo che segue, e dall’epiteto di sacratissimo, che non può convenire se non al Romano imperio.