Vita di Dante/Libro II/Capitolo IX
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E se il mondo sapesse il cor ch'egli ebbe
Mendicando sua vita a frusto a frusto,
Assai lo loda e più lo loderebbe.
Finito l’Inferno e lasciatolo a fra Ilario, partissi Dante, secondo ogni probabilità, nell’anno 1308, di Lunigiana per Parigi. Passò per le due riviere; di che è chiara reminiscenza quel passo in sul principio del Purgatorio, ove nomando i due punti estremi di quella marina, dice:
Tra Lerici e Turbìa la più diserta,
La più rotta ruina è una scala ec.;
e quell’altro dove accenna come una delle più scoscese, la discesa di Noli2. Quinci poi andando a Parigi, ei non potè passar altrove che per Provenza; e molto probabilmente per la via antica e nuova quasi sola di Avignone; la Babilonia allor tanto invisa ai buoni Italiani, la sede del Guasco Clemente V. Non se ne trova cenno nè reminiscenza nel Poema; ma immaginerà ciascuno facilmente la turba di pensieri e passioni, che dovettero, pur passando, destarsi nell’antico ambasciador fiorentino in corte pontificia, ora esule e ramingo; nel Poeta destinatosi oramai a correggere sua età. Ad ogni modo, così abbiamo, narratici dal Boccaccio, quel massimo viaggio, e poi il soggiorno dell’esule a Parigi. "Poichè vide da ogni parte chiudersi la via alla tornata, e più di dì in dì vana la sua speranza, non solamente Toscana, ma tutta Italia abbandonata, passati i monti che quella dividono dalla provincia di Gallia" (cioè gli Appennini delle due riviere fino a Provenza), "come potè se n’andò a Parigi. E quivi, tutto si diede allo studio e della teologia e della filosofia; ritornando ancora in sè dell’altre scienze, ciò che forse per gli altri impedimenti avuti se n’era partito. E in ciò il tempo studiosamente spendendo, avvenne che ec"3. Chiaro è qui; Dante riprese con nuovo ardore la vita studiosa, dirigendola alle opportunità delle due Cantiche restanti, nelle quali tante prove si trovano di tali studii. Ed altri particolari aggiugne il Boccaccio più giù. "Fu ancora questo poeta di maravigliosa capacità e di memoria fermissima e di perspicace intelletto; intanto che, essendo egli a Parigi e quivi sostenendo in una questione de quolibet che in una scuola di teologia si faceva, quattordici quistioni da diversi valentuomini e di diverse materie, cogli loro argomenti pro e contra fatti dagli opponenti, senza mettere tempo in mezzo raccolse, e ordinatamente come poste erano state, recitò quelle; poi quel medesimo ordine seguendo, sottilmente solvendo e rispondendo agli argomenti contrari: la qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti fu reputata"4. Ancora dice altrove, che in Parigi "spessissime volte entrò nello studio, e sostenne conclusioni sopra tutte le scienze contra tutti che seco voleano disputare o fargli opposizioni"5. E Benvenuto da Imola:"Avendo in gioventù vacato alla filosofia naturale e morale in Firenze; Bologna e Padova, in età più matura e già esule diedesi alla sacra Teologia in Parigi. Dove tanto splendore acquistò, che veniva dagli uni chiamato poeta, dagli altri filosofo, dagli altri teologo"6. Ne’ a tali testimonianze aggiungeremo una terza del Boccaccio7, o quelle del Villani8, od altre posteriori; tutte inutili dopo quella capitale del Boccaccio, nato pochi anni dopo nel 1313, e che intorno al 1320 fu condotto a Parigi dal padre, itovi per affari di mercatura. Frequenti erano allora in quella capitale i viaggi de’ mercanti italiani; dei quali pur resta memoria nel nome d’una delle vie più mercantili di essa, detta via dei Lombardi. E così Dante vi potè ritrovar molti compatriotti; ma che la vita di lui vi fosse molto diversa, e probabilmente disgiunta e solitaria, ei si può argomentare dallo scopo tanto diverso di suo viaggio; ed ancora per una particolarità aggiunta da un abbreviatore della vita del Boccaccio, che quegli studi di Dante in Parigi "furono non senza gran disagio delle cose opportune alla vita"9. Finalmente, una non dubbia reminiscenza di tutto ciò veggono tutti in quel luogo del Paradiso, dove San Tommaso, il maggior lume già esso medesimo della scuola di Parigi, additando a Dante i sommi dottori di quella scienza, gli dice:
Questi onde a me ritorna il tuo riguardo.
E' il lume d'uno spirto, ch'in pensieri
Gravi, a morire gli parve esser tardo.
Essa è la luce eterna di Sigieri,
Che leggendo nel viso gli strami,
Silloggizzò invidïosi veri.
Aggiungono i commentatori, questa via degli strami essere l’antica Rue de fouarres (presso alla piazza Maubert); così detta, perchè non v’essendo allora banchi alle scuole, gli studenti vi portavano paglia o fieno, e lo mutavano e portavano d’erbe odorose nelle solennità. Per quella via dunque andò, su quello strame sedette, impoverito e stentando, il nostro grand’esule studioso. Era avversario, era sdegnoso disertore della parte guelfa francese, e nemico personale de’reali di Francia, ch’ei si apparecchiava a vituperare e già vituperava scrivendo; ondechè non fa meraviglia quella povertà di lui, forse in parte volontaria. E certo la povertà vera, amara a tutti, più amara a chi non crebbe in essa, e più ancora in città attiva e doviziosa, dovette far sentire a Dante alcuna delle amarezze, delle quali sono probabile reminiscenza i versi recati in fronte al presente Capitolo. Ma vedesi ivi insieme quella consolazione di gloria sperata, che sorge naturalmente negli animi forti, e principalmente negli studiosi. Necessità prima e troppo superiore a quella d’ogni agio, erano per un Dante gli studii; e di questi, era fin d’allora liberale Parigi. Anche ai nostri dì vedemmo là rifuggire altri esuli; ed alcuni, come Dante, poveri uditori, là sedere ricevendo la medesima liberalità; altri, portati da una liberalità or maggiore a’ seggi di professore, distribuir quindi la scienza ed ai compatriotti e compagni, ed insieme agli ospiti loro.
Se fu, ei fu poi certamente di Parigi, che Dante andò in Inghilterra. Non ne abbiamo se non un cenno, pur del Boccaccio; il quale, in una epistola poetica a Petrarca dice, che Dante visitò Parisios dudum extremosque Britannos10. Aggiunse altri poi, ch’ei fu là all’università d’Oxford; ma è di quelle congetture in che non istà nulla per il sì e nulla per il no. Nè ci fermeremo noi qui, come abbiam fatto nei paesi d’Italia ove Dante ebbe interessi politici, a narrare lo stato dei principi o dei popoli di Francia od Inghilterra; non facendo noi una storia dei tempi, ma una vita di Dante. Basti, a guida di memoria, rammentare che regnavano allora, in Inghilterra Odoardo II fra’ Plantageneti, e in Francia sempre il medesimo Filippo il Bello, il nemico di Bonifazio e troppo amico di Clemente V. Nel 1307, ottenne quegli da questo la condanna de’ Templari, e li mandò sul patibolo appunto negli anni 1309 e seguenti; ondechè Dante dovette essere testimone di tutta quella tragedia, e (quantunque l’università da lui frequentata vi partecipasse) vituperarla in que’ versi contro Filippo il Bello, dove dopo aver narrato lo strazio di Bonifazio, egli aggiunge:Veggio il nuovo Pilato sì crudele,
Che ciò non sazia, ma senza decreto
Porta nel tempio le cupide vele11.
In tutto il Purgatorio è pieno di memorie di Francia, ed anche di parole francesi.
Ma noi siamo affrettati di rivolgerci anzi a Germania, la cui importanza in niuna storia italiana non cessa a lungo mai; ed all’elezione del nuovo imperatore, fatta poco prima o poco dopo l’arrivo di Dante a Parigi, e che gli fu cagione poi di partirne. Che se non abbiamo fin qui fatto quasi mai cenno degli imperadtri, ei fu perchè in niuna età del medio evo non si impacciarono eglino così poco d’Italia. Sarebbe egli per ciò, ch’ebbero agio a germogliarvi così bene le arti, le lettere, la poesia ed un Dante? Se così fu, ella fu fortuna reciproca alle due contrade; e tale fu giudicata da uno de’ maggiori uomini che sien saliti mai sul trono dei Cesari, Rodolfo, il prode stipite della stirpe austriaca. Il quale, semplice gentiluomo della casa di Thierstein e non più che conte d’Asburga per sua avola Ida, ma famoso nell’armi duranti le ultime vacanze e contese d’imperio, era stato, dopo le vane elezioni di Guglielmo d’Olanda, di Riccardo d’Inghilterra e di Alfonso di Castiglia, eletto egli re de’ Romani e di Germania nel 1273, ma non era sceso mai a farsi incoronare nè re d’Italia in Monza nè imperadore in Roma. Dicono ei dicesse:niuno mai de’ predecessori essere tornato d’Italia senza diminuzione di diritti e d’autorità. Tenendosi lontano, tennesi in buona pace con gli Italiani e co’ papi; cui lasciò indisputati i diritti contesi loro fin allora sulla Marca, sulla Romagna, e su tutta l’eredità dell’antica contessa Matilda. Da questa politica astemia d’Italia del gran Rodolfo, possono i papi riconoscere non il diritto, ma il fatto della loro potenza temporale; le città italiane, lo sviluppo di lor libertà; e la casa d’Austria, il suo salire dalla condizione di gentiluomini a quella di principi, eguali prima, superiori poi ad ogni potenza germanica. Imperciocchè, attendendo da Germania sola, potè e seppe Rodolfo farsi obbedire più che non gli stessi antichi potentissimi Sassoni, Franconi e Svevi; e più che niuno di essi, accrescere i proprii stati ereditarii, togliendo l’Austria al suo particolare avversario Ottocaro re di Boemia, e lasciando questa in retaggio e la corona regia romana per elezione ad Alberto figliuol suo, l’anno 1298.
E questi seguì la politica paterna, astenendosi d’Italia, e tutto adoprandosi ad aggrandir gli stati ereditarii. Ma troppo minor uomo che il gran Rodolfo, imperiò meno in Germania, e volle accrescere il retaggio non coll’arte larga delle conquiste a spese de’ vicini, ma colla stretta delle usurpazioni sui sudditi. Quindi quella immortal resistenza, onde nacque la libertà giusta, moderata, unita e perciò durevole, degli Svizzeri. Avvenne il gran fatto nel 1307, mentre Dante pennelleggiava gli eventi grandi di tutta Europa; nè egli tuttavia degnò d’uno sguardo quegli eroi alpigiani, tanto poscia venerati, ma allora oscuri, poveri e nascosti agli occhi de’ superbi, antichi e corrotti cittadini italiani. Certo, se fossero stati conosciuti que’ repubblicani montagnesi da Dante o da alcun altro de’ nostri maggiori, avrebber potuto esserne invidiati, se non altro, per la moderazione: la quale fu poi principalmente serbata, quando, addì 1 maggio 1308, fu Alberto ucciso a tradimento per privata vendetta da Giovanni suo cugino, e fu il traditore ributtato di soglia in soglia da que’ nemici mortali ma generosi dell’ucciso. E fu serbata la medesima moderazione dall’immortal cantore di questi fatti, Federigo Schiller. Troppo altrimenti, e quasi rallegrandosene, li rammenta Dante. Aveva Dante tal cuore in petto, da apprezzare quanto chicchessia qualunque generosità. Ma l’appassionato animo ghibellino non seppe perdonar mai ai due primi Austriaci quell’abbandono d’Italia, di che noi li lodiamo da lungi, ma a cui egli allora attribuiva il signoreggiare dell’invisa parte contraria. Ei pone, bensì, Rodolfo nella valle dei re in Purgatorio, ma così additandolo:
Colui che più sied'alto, ed ha sembianti
D'aver negletto ciò che far dovea,
E che non muove bocca agli altrui canti,
Ridolfo Imperator fu, che potea
Sanar le piaghe ch'hanno Italia morta,
Sì che tardi per altri si ricrea.
Ma ciò è un nulla, rispetto a quello che avea detto un Canto prima, di lui insieme e d’Alberto; e si vede che quando ciò scriveva, egli era fresco della morte dell’ultimo, e sperava nel successore. Dante, imprecator di tante città nell’inferno, si fa qui imprecator di tutta Italia. E prima, troppo giustamente le rimprovera le divisioni; ma poi appone queste al non esservi discesi i due imperatori: il che quanto sia vero, ne giudichi ognuno dalla storia di quelle divisioni, e dopo, fino alla distruzione dell’imperio. Ad ogni modo, Dante e Virgilio incontrano nel Purgatorio Sordello, il trovator mantovano; e Virgilio richiesto di sua patria, appena incomincia a dir Mantova, che Sordello, senza aspettar di saper meglio chi sia, l’abbraccia come concittadino. Ed allora prorompe egli Dante:
{{Centrato|Ahi serva Italia, di dolore ostello,
Nave senza nocchiero in gran tempesta
Non donna di province, ma bordello;
Quell'anima gentil fu così presta
Sol per lo dolce suon della sua terra,
Di fare al cittadin suo quivi festa;
Ed ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi; e l'un l'altro si rode
Di que' ch'un muro ed una fossa serra.
Cerca, misera, intorno dalle prode
Le tue marine, e poi ti guarda in seno
S'alcuna parte in te di pace gode.
Che val perchè ti racconciasse il freno,
Giustinïano, se la sella è vôta?
Sanz'esso fôra la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser divota
E lasciar seder Cesare in la sella,
Se ben intendi ciò che Dio ti nota!
Guarda com'esta flera è fatta fella,
Per non esser corretta dagli sproni,
Poi che ponesti mano alla predella.
O Alberto Tedesco, ch'abbandoni
Costei ch'è fatta indomita e selvaggia,12
E dovresti inforcar li suoi arcioni,
Giusto giudicio dalle stelle caggia
Sovra il tuo sangue; e sia nuovo ed aperto,
Tal che il tuo successor temenza n'aggia;
Ch'avete tu e il tuo padre sofferto,
Per cupidigia di costà distretti,13
Che 'l giardin dello 'mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi14, uom senza cura,
Color già tristi e costor con sospetti.
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura,
De' tuoi gentili e cura lor magagne,
E vedrai Santafior com'è sicura.15
Vieni a veer la tua Roma, che piagne,
Vedova, sola, e dì e notte chiama:
Cesar mio, perchè non m'accompagne?
Vieni a veder la gente quanto s'ama;
E se nulla di noi pietà ti muove,
A vergognar ti vien della tua fama.
Morto Alberto austriaco, pretendeva succedergli quel Carlo di Valois, troppo già da noi conosciuto. Ed era naturalmente favorito dal fratello re, ma combattuto da papa Clemente, già discostatosi da’ reali di Francia; il quale fece eleggere Arrigo di Lucimburga, e quindi innanzi più che mai barcheggiò tra le due parti francese ed imperiale, guelfa e ghibellina. L’elezione fu fatta in novembre 1308, e così verso il tempo del viaggio o dell’arrivo di Dante in Parigi. Ed è osservabile quel dir, come vedemmo, il Boccaccio, che Dante fu contro quest’elezione fatta in competenza del suo maggior nemico; se non che, per essere Arrigo piccolo principe germanico ancor esso, come già i suoi due predecessori, Dante ne sperò poco la discesa desiderata in Italia. E si vuol dire che tali desiderii fossero comuni non solo a tutti i Ghibellini, ma ancora ad altri Italiani e stranieri; e che una discesa d’imperadore non più fatta da sessanta anni, e così non veduta dalla generazione attiva, fosse oramai nei voti e secondo l’opinione dei più. Imperciocchè, appena eletto, vedesi Arrigo VII apparecchiarvisi nella state del 1310. E già era stato di pochi mesi preceduto in Italia da Roberto, nuovo re di Napoli, figliuolo e successore di Carlo II. E così in un anno scendevano i due principi più potenti della penisola, i due capi delle parti che la dividevano; e il papa barcheggiava.
E Dante, poc’anzi, tra i desiderii della discesa e il timore che non s’effettuasse, aveva scritte le sue imprecazioni poetiche ai predecessori quasi ammonizioni ad Arrigo, ora poi esprimeva la gioja sua e dei compagni d’esilio in una lettera che abbiamo senza data, ma che si vede dover essere del tempo che Arrigo era sulle mosse, e perciò d’intorno alla metà di quest’anno 1310. Scritta, come le altre in latino, ma anticamente volgarizzata, ella è diretta "a tucti, et ad ciascuno re d’Ytalia, et a’ sanatori di Roma, et duchi, marchesi, conti, et a tucti i popoli, lo humile Ytaliano Dante Allighieri di Firenze, et confinato non meritevolmente, priega pace". Ambiziosa direzione, per vero dire, e che fa credere fose questa epistola, come quella che vedemmo ai principi della terra dopo la morte di Beatrice, non più che uno sfogo, forse non pubblicato allora, de’ suoi pensieri; non più che una finzione letteraria e quasi poetica della propria fantasia. Certo, ella è piena di tali erudizioni e dotti argomenti, ch’erano bensì nel gusto dell’età, ma certo mal atte a muovere o il buono e rozzo imperadore, o i suoi non dissimili Tedeschi. Incomincia con espressioni bibliche della gioja dello scrittore; poi segue alquanto più precisamente:"Rallegrati oggimai, Italia, di cui si dee avere misericordia; la quale incontanente parrai per tutto il mondo essere invidiata eziandio da’Saracini; perocchè ’l tuo sposo ch’è letizia del secolo e gloria della tua plebe, il pietosissimo Arrigo, chiaro accrescitore e Cesare, alle tue nozze di venire s’affretta. Asciuga, o bellissima, le tue lagrime, e gli andamenti della tristizia disfà; imperocch’egli è presso colui che ti libererà della carcere de’malvagi, il quale percuotendo i perpetratori delle fellonie, gli dannerà nel taglio della spada, e la vigna sua allogherà ad altri lavoratori, i quali venderanno il frutto della giustizia nel tempo che si miete. Ma non avrà egli misericordia d’alcuno? Anzi, a tutti quelli perdonerà, che misericordia chiederanno; perciocch'egli è Cesare, e la sua pietà scende dal fonte della pietà; il giudicio del quale ogni crudelità avrà in odio, e toccando sempre di qua dal mezzo, oltre alla metà meritando, si ferma. Or dunque, inchinerallo frodolentemente alcun malvagio uomo? ovvero egli, dolce e piano, apparecchierà beveraggi presuntuosi? No! imperocch’egli è accrescitore; e s’egli è Augusto, non rivendicherà i peccati dei ravveduti, ed insino in Tessaglia perseguirà Tessaglia, ma perseguiralla di finale dilezione. “O sangue de’ Longobardi, pon giuso la sostenuta crudelità, e se alcuna cosa del seme dei Troiani e de’ Latini avanza, dà luogo a lui; acciocchè quando l’alta aquila discendendo a modo di folgore sarà presente, ella veggia i suoi scacciati aguglini, e non 1716veggia il luogo della sua propria schiatta occupato da giovani corbi. Fate dunque arditamente, nazione di Scandinavia, sicchè voi godiate la presenza (in quanto a voi appartiene) di colui, il cui avvenimento è meritevole. Non vi sottragga la ingannatrice cupidità, secondo il costume delle sirene, non so per qual dolcezza, mortificando la vigilia della ragione. Occupate, dunque, le facce vostre in confessione di soggezione di lui, e nel saltero della penitenza cantate; considerando che chi resiste alla podestà, resiste all’ordinamento di Dio; e chi al divino ordinamento repugna, è eguale allo impotente che ricalcitra, e duro è contro allo stimolo calcitrare.
Ma voi, i quali soppressi piangete, sollevate l’animo; imperciocchè presso è la vostra salute.... Perdonate, perdonate oggimai, o carissimi, che con meco avete ingiuria sofferta.... Da Iddio sì, come da un punto, si biforca la podestà di Pietro e di Cesare.... Vegghiate adunque tutti, e levatevi incontro al vostro re, o abitatori d’Italia; non solamente serbate a lui ubbidienza, ma come liberi il reggimento. Nè solamente vi conforto acciocchè vi leviate incontro; ma altresì che il suo aspetto abbiate in riverenza. Voi che bevete nelle sue fonti, e per li suoi mari navigate, e che calcate le reni dell’isole e le sommità delle alpi le quali sono sue, e che ciascune cose pubbliche godete, e che le cose private non altrimenti che con legame della sua legge possedete, non vogliate siccome ignari ingannare voi stessi.... Non riluce in maravigliosi effecti, Iddio avere predestinato il romano principe? E non confessa la chiesa con le parole di Cristo, essere poscia confermato in veritade?".
".... Costui è colui al quale Pietro, di Dio vicario, onorare ci ammonisce; il quale Clemente, ora successore di Pietro, per luce d’apostolica benedizione allumina, acciocchè ove ’l raggio spirituale non basta, quivi lo splendore del minor lume allumini"17. E così finisce, non senz’arte servendosi del consenso almeno apparente del Papa alla discesa, per unire in favore di essa gli animi guelfi insieme coi ghibellini. Certo, poi, avranno i leggitori osservato lo stile barbaro degli stessi squarci recati, più barbaro e intralciato ne’ lasciati. Nè è diverso lo stile di Dante nelle altre lettere sue; le quali tuttavia, come vediamo nel Villani, furono ammirate in questo secolo. Osservisi poi quella biforcazione delle due potenze temporale e spirituale, che era grande idea del tempo, e che fu quella su cui Dante scrisse poi il libro della Monarchia. Ma principalmente s’osservi quel bell’avvertimento dato qui a tutti gl’Italiani:"non solamente serbate a lui ubbidienza, ma come liberi il reggimento;" che sembra un ammonire le città a non sacrificare il proprio governo, la propria libertà; onde si scorge, che la devozione d’un Dante non fu nè poteva essere mai servilità. E se noi condannammo la parte ghibellina men buona, e il rivolgervisi di Dante dall’altra men cattiva; tengasi a mente tuttavia, che tutte e due furono certo seguite sinceramente da molti, tutte e due così probabilmente da Dante. Professavano i Guelfi non meno che i Ghibellini devozione all’impero; e la differenza stava solamente nella interpretazione e ne’ limiti di essa, e poi nelle speranze delle due parti sui destini futuri d’Italia. I Ghibellini miravano principalmente all’unità; i Guelfi alla indipendenza. Due idee, due speranze e due scopi, non che scusabili, lodevolissimi certamente. Dugento anni dopo, Machiavello invocando un principe qualunque che riunisse l’Italia, non era diverso molto da Dante, quando invocava il Veltro nell’Inferno, o il capitano che vedremo nel Paradiso, od ora Arrigo VII imperadore; ed anche dopo il Machiavello, molti furono ghibellini a questo modo, ed ebbero la bella idea propria di quella parte, la riunione d’Italia. Bella, dico, più ch’ogni altra, bella nelle speculazioni, ne’ voti; ma che il fatto di otto secoli almeno, contando non piu che da Corrado il Salico, ha dimostrata e fatta impossibile ad effettuarsi. Più felice l’Italia se fin da que’ tempi, o almeno nei posteriori, si fosse riunita in cercare, non una restaurazione d’imperio o di principato universale, ma il miglioramento delle condizioni sue effettive. Ma sempre il desiderio dell’ottimo impossibile nocque al bene possibile, sempre l’immaginazione al senno; e come il compiacersi in effetti immaginarii alla buona vita privata, così il perdersi in sogni politici alla pubblica efficace. I Guelfi hanno, se non altro, questo principal vantaggio nella storia, d’aver sognato meno che i Ghibellini.
La discesa d’Arrigo VII è uno de’ piu belli, de’ piu istruttivi, ed insieme de’ meglio narrati episodii della storia d’Italia; sendone trattato in parte da quel principe de’ nostri cronachisti Dino Compagni, che ritroviamo volentieri; in totalità da Giovanni Villani; e in modo speciale po, da un cotal vescovo in partibus di Butrinto. Era un buon Tedesco, di non si sa qual famiglia o città, amico e servitore amantissimo di Arrigo, servitor poi come vescovo pur del Papa; al quale ei rende conto di tutta la discesa, onde fu egli gran parte, con una sincerità che non s’astiene da alcuni rimproveri ad esso Papa, e con una semplicità che supplisce od è eleganza. Non iscomparirebbe tal narrazione se si volgarizzasse tra quelle de’ nostri Trecentisti, che sono a un tempo documenti e modelli di storia. Quindi, molto volentieri ci tratterremmo con tali guide; se non che l’assunto nostro è di quelli che, non badandovi, trarrebbe, quasi golfo che alletti a poco a poco allargandosi, nell’interminato mar della storia. Ondechè, pur confortando i nostri lettori a spaziarvi con quelle guide, noi ci sforzeremo di rimanere tra’ limiti che ci siam prefissi fin da principio18.
D’Arrigo imperadore abbiamo il vivo ritratto dal nostro Dino. Era "huomo savio, di nobile sangue, giusto e famoso, di gran lealtà, pro’ d’arme e di nobile schiatta; huomo di grande ingegno e di gran temperanza; d’età d’anni quaranta, mezzano di persona, bel parlatore, e ben fazionato, un poco guercio.... Parte guelfa e ghibellina non voleva udire ricordare. La falsa fama l’accusava a torto. I Ghibellini diceano:E’ non vuol vedere se non Guelfi. E i Guelfi dicevano:E’ non accoglie se non i Ghibellini"19. Vedesi, che se fosse stato possibile ancora un imperadore pacificatore d’Italia, questo certo sarebbe stato. Ma già era sogno.
Venne a Losanna nella state del 1310, con poca gente, e dimoròvvi più mesi ad aspettarvi il suo sforzo, e ricevere le ambascerie delle città italiane. E vennervi di quasi tutte, o tutte, tranne Firenze; dove i reggitori, sempre più Guelfi Neri, temeano il ritorno de’ fuorusciti. "L’imperadore domandò, perchè non v’erano? fu risposto, che i Fiorentini avean sospetto di lui. All’hora disse lo imperadore:Male hanno fatto; che nostro intendimento era di volere i Fiorentini tutti, e non partiti, e buoni fedeli; e di quella città fare nostra camera,e la migliore di nostro imperio. E di certo si seppe, da gente che erano appresso a lui, che egli era infino all’hora con puro animo"20.
Di Losanna, per le terre del conte di Savoja, ei varcò Moncenisio, scese a Susa e fermòssi a Torino nell’ottobre di quell’anno 1310. Accorsevi Guelfi e Ghibellini, signoreggianti e cacciati, con sèguito e soli; non attendendo a una provvisione fatta da molte città guelfe, per impedire questo ingrossamento dell’oste imperiale: che niun cittadino potesse uscire dal proprio territorio, o, come dicevasi ancor allora, dal proprio comitato, o contado. Consigliavano molti degli Italiani accorsi, che niun ripatriamento di fuorusciti si facessero prima dell’incoronamento; ma gli oltramontani più imparziali consigliavan l’opposto. E così fece via via il buon Tedesco, il quale s’era prefissi e incominciò subito per ogni dove due provvedimenti: far rientrare i fuorusciti d’ogni parte, e metter vicarii imperiali in ogni città. Antico era questo tentativo di metter vicarii imperiali, od anche regii, nelle città; e l’avea fatto massimamente Carlo di Napoli al tempo della gran potenza Angioina, prendendo la signoria delle città, ed esercitandola poi per tali magistrati senza podestà, o con podestà sottoposti. Ma i vicarii imperiali erano diversi in ciò, che l’imperadore avendo diritto d’imperio, non avea bisogno che gli si desse signoria. Quindi questi vicarii imperiali erano più e meno che quelli regii; più in diritto, come si vede, meno in fatto; perchè esercitavano non un’autorità nuova e data volontariamente, ma solo quella vecchia e diminuita dell’imperio. Quindi è, che questa novità la quale potè allora spaventar molti, non fu in realtà guari più che mutazione di titoli per quelli che, già potenti nelle città sotto nomi di podestà o capitani del popolo, presero ora il nuovo di vicario, e ressero poi con questo come avean fatto con gli altri. Anche Federigo Barbarossa aveva voluto metter consoli approvati da esso, invece di quelli liberamente eletti dalle città; ma i consoli così confermati da lui, operarono da consoli più cittadini che imperiali. Anch’egli talora, e poi Federigo II, avevano ai consoli fatto sottentrare i podestà; ma i podestà erano diventati anch’essi, prima magistrati cittadini contro gl’imperatori, poi più o meno tiranni per sè. E nei secoli che seguirono, i titoli di duca dati dagli imperadori a parecchi principi nuovi, fecero il medesimo effetto, ebbero il medesimo risultato, nè più nè meno. Facile è sempre trovar chi accetti; ma i facili accettanti sogliono accettar negli stili, e non aver durevol riguardo ai donatori.
Partendo di Torino e venendo ora a questa ora a quella città, il buono Imperatore metteva dunque vicarii, e faceva rientrare fuorusciti guelfi in città ghibelline, ghibellini in città guelfe, quasi per ogni dove. Venne a Chieri, ad Asti, a Casale, a Vercelli, a Novara e a Milano. Dove, non ostante alcune nascoste o piccole opposizioni de’ Torriani capi di parte guelfa, prese poi la corona ferrea il dì dell’Epifania del 1311. Ricèvettevi giuramenti da quasi tutte le città, tranne Genova, Firenze e Venezia; e mandò vicarii e fuorusciti ghibellini in Como e Mantova, guelfi in Brescia e Piacenza; e così in tutte da Bologna in su, tranne Verona, dove i Ghibellini (probabilmente mossi dagli Scaligeri) non vollero i San Bonifazio, antichi capi guelfi21. E così credendo pacificata Lombardia, e volendo tenerla durante suo viaggio a Roma, il re prendere statichi guelfi e ghibellini, venticinque d’ogni parte nominati dalla parte contraria, e far un vicario generale di Lombardia, che fu il conte di Savoja. Ma nacquero dispute dispute da quelle elezioni, e difficoltà per levare le paghe del vicario generale; e vennero in sospetto a un tempo i Visconti capi de’ Ghibellini, e i Torriani capi de’ Guelfi in Milano. Ma purgatisi quelli, e rivoltosi tutto il sospetto contro questi, furono assaliti e cacciati della città, ove avevano sovente signoreggiato nel secolo precedente, per non tornarvi più mai. E succedendo loro i Visconti nella potenza oramai indisputata e costantemente ghibellina, questa fu la più durevole mutazione che seguisse dal viaggio d’Arrigo. Ma, intanto, ella gli sollevò contro le città lombarde più guelfe22. Sollevaronsi, cacciando vicarii e ripatriati, Cremona, Brescia e Crema. Lodi cacciò solamente i Ghibellini, ritenendo il vicario23. Allora fu forza sostare in Lombardia; e, perchè Milano era interdetta, celebrando in Pavia la Pasqua del 1311 a dì 11 Aprile, disposesi il nuovo incoronato re d’andar contro alle città ribellate, Brescia principalmente. Ma allora fu un grande gridare di tutti i Ghibellini e fuorusciti toscani che l’aspettavano in questa provincia; e di pochi giorni dopo, addì 16, troviamo una nuova lettera di Dante, che lo dimostra già tornato in Toscana, dopo avere, dove che si fosse, salutato anch’esso il buon Imperadore, speranza ultima, quasi nuovo Messia, d’ogni fuoruscito.
Note
- ↑ Vedi nell'Ediz.Miner. la ragione della lezione qui seguita.
- ↑ Purg. IV, 25.
- ↑ Bocc.,Vita di Dante, pag.36.
- ↑ Vita di Dante, pag.58.
- ↑ Geneal. degli Dei, XIV, 11.
- ↑ Murat.Ant.Ital., Tom.I,1036,C
- ↑ Lett. a Petr., Ediz.Min.V, 133.
- ↑ Rer.Ital., XIII, p.508.
- ↑ Jacopo Filippo da Bergamo, Cron.L.XIII (cit.da Arrivab. p.161) che prolunga il soggiorno di Parigi fino al 1313; che vedremo impossibile. Domenico di messer Bandino d’Arezzo citato dal Pelli, p.132.
- ↑ Ed. Min., V.133.
- ↑ Benchè, quel senza decreto sembra riferirsi più alle usurpazioni sulle decime, che non a questa, autorizzata dal papa.
- ↑ Nota come Dante ponga sempre questo epiteto in senso di rozza, opposta a civiltà. - Ma era ella pure una reminiscenza contro la parte selvaggia da lui abbandonata?
- ↑ La cupidigia di potenza germanica, la quale, con pace di Dante, era più naturale e legittima che quella di potenza italiana.
- ↑ Famiglie ghibelline, le due prime di Verona e già oppresse, le due ultime di Orvieto e tementi d'esserlo. I Montecchi e Cappelletti, divisi poscia fra sè, sono quelli le cui gare furono immortalate già dalla poesia di Shakespeare, ed ultimamente dalle note di Zingarelli e di Bellini.
- ↑ Castello e famiglia in su quel di Siena, dicono gli espositori, senza spiegar in modo certo questo verso.
- ↑ (17) Ho aggiunto questo non, quantunque non sia nell’Ediz. del Witte; ma il senso non mi par correre senz’esso.
- ↑ Witte, Lett.di Dante, Ep.V, pag.17.
- ↑ Abbiamo speranza che molta luce su questa discesa d’Arrigo, e in generale sui tempi di Dante, sarà sparsa dal sig.Döenniges, un giovane tedesco che sta illustrando e scrivendo le storie di tutti questi imperadori; e già per Arrigo di Lucimburgo raccolse preziosissimi documenti dagli archivi di Torino. Il sig. Döenniges favorì cercare, ma non trovò il nome dell’Alighieri fra quelli numerosi, che veggonsi in quelle carte, de’ fuorusciti fiorentini in varie città.
- ↑ Din.Comp., pp. 524,525.
- ↑ Villani, p.447.
- ↑ Ep.Butr., 887-895.
- ↑ Murat., An.1311.
- ↑ Ep.Butrint., 896-898.