Vita di Dante/Libro II/Capitolo X
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Libertà van cercando ch'è sì cara,
Come sa chi per lei vita rifiuta.
Il Boccaccio, dopo aver detto della dimora di Dante in Parigi, continua a narrare, che:"sentendo Arrigo della Magna partirsi, per soggiogarsi Italia alla sua maestà1 in parte ribella, e già potentissimo braccio tenere Brescia assediata, avvisando lui per molte ragioni dover essere vincitore, prese speranza colla sua forza e colla sua giustizia di potere in Firenze tornare, comechè a lui la sentisse contraria. Perchè, ripassate le Alpi, con molti nemici de’Fiorentini e di lor parte congiuntosi, e con ambascerie e con lettere s’ingegnarono di trarre lo ’mperadore dallo assedio di Brescia, acciocchè a Fiorenza il ponesse, siccome a principale membro de’suoi nimici; mostrandogli che superata quella, niuna fatica gli restava, o picciola, ad avere libera ed espedita la possessione e ’l dominio di tutta Italia"2. Così il Boccaccio pone il ritorno di Dante al tempo dell’assedio di Brescia; che non può essere, poichè questi già scriveva dai fonti d’Arno addì 16 d’aprile, quando appena Arrigo si partiva di Pavia. Ma noi possiam quindi probabilmente inferire, ch’ei fosse poco prima tornato; che in una delle città di Piemonte o Lombardia fin allora visitate da Arrigo, egli ’l vedesse e si congiungesse co’suoi compagni di esilio, come apparisce dalla lettera. Della quale, a noi pervenuta e nell’originale latino e in un antico volgarizzamento, la direzione è così:"Al gloriosissimo e felicissimo trionfatore e singolare signore messer Arrigo, per la divina provvidenza re de’Romani, e sempre accrescitore, i suoi devotissimi Dante Alighieri fiorentino, e non meritamente sbandito, e tutti i Toscani universalmente che pace desiderano, mandano baci alla terra dinanzi a’vostri piedi". E qui non par dubbio (concordando colle parole del Boccaccio), che Dante scrivesse non solo in nome ma per commissione de’ fuorusciti toscani.Dic’egli, in sostanza, tra le citazioni anche qui ammontate, che lor cacciata era stata ingiusta, e che già avevano riposte in lui le loro speranze; ma ora dicevasi, ei si fermasse o rivolgesse indietro:"nientedimeno, in te speriamo e crediamo affermando, te essere ministro di Dio, e figliuolo della Chiesa, e promovitore della romana gloria. Imperò, io che scrivo così per me come per gli altri, siccome si conviene all’imperial maestade, vidi te benignissimo e udii te pietosissimo, quando le mie mani toccarono i tuoi piedi, e le labbra mie pagarono il lor debito, quando si esultò in me lo spirito mio. Ma che non sì tarda pigrezza dimori, noi ci maravigliamo, quando già molto tu vincitore nella valle del Po dimori non lungi, Toscana abbandoni, lascila e dimèntichila. Che se tu arbìtri che intorno a’ confini di Lombardia, siano intorniate regioni da difendere imperio, non è così al postutto, come noi pensiamo. Perciocchè la gloriosa sigoria de’Romani non si stringe colli termini d’Italia, nè collo spazio d’Europa, in tre parti divisa. E s’ella, la quale ha sofferta forza contradia, contraerà quello ch’ella regge da ogni parte; di ragione non corrotta, aggiungendo l’onde del mare Anfitrito, appena degnerà d’essere cinta colla non util’onda del mare Oceano". E torna quindi agli esempi, e fra gli altri cita le parole di Curio a Cesare per muoverlo a passare il Rubicone; quelle medesime parole in pena delle quali, egli Dante avea posto quel medesimo Curio in inferno3. Poi riprende:"Tu, così vernando come tardando, a Milano dimori, e pensi spegnere per lo tagliamento de’capi la velenosissima idra..... Che, o principe solo del mondo, annunzierai tu aver fatto? Quando avrai piegato il collo della contumace Cremona, non si volgerà la subita rabbia in Brescia o in Pavia? Sì, farà certo. La quale altresì quando sarà stata flagellata, incontanente un’altra rabbia si rivolgerà in Brescia o in Vercelli o in Bergamo o altrove; ed infino a tanto andrà facendo così, che sia tolta la radichevole cagione di questo pizzicore, e divelta la radice di tanto errore. Col tronco i pungenti rami inaridiscono. Signore! tu eccellentissimo principe de’ principi sei, e non comprendi nello sguardo della somma altezza, ove la volpicella di questo puzzo sicura de’ cacciatori rigiaccia. In verità, non nel corrente Po nè nel tuo Tevere questa frodolente bee; ma l’acqua del fiume d’Arno ancora li suoi inganni avvelenano. E forse tu nol sai? Firenze questa crudel morte è chiamata. Questa è la vipera volta nel ventre della madre; questa è la pecora inferma, la quale col suo appressamento contamina la gregge del suo signore; questa è Mirra scellerata ed empia, la quale s’infiamma nel fuoco degli abbracciamenti del padre; questa è quell’Amata impaziente, la quale rifiutato il fatato matrimonio, non temè di prendere quello genero il quale i fati negavano..... Veramente, con ferita di vipera si sforza di squarciare la madre..... Veramente, caccia fuori i viziosi fummi accendendosi la rabbia; e quivi le pecore vicine e strane s’infermano..... Veramente, ella s’incende e arde nelli diletti carnali del padre..... Veramente, contradice all’ordinamento di Dio, adorando l’idolo della sua propria volontade; infino ch’ella avendo spregiato il suo re legittimo, la pazza non si vergogna a pattovire con non suo re ragioni non sue..... Adunque, rompi la dimoranza, alta schiatta d’Isaia..... fuggiranno i Filistei e sarà libero Israele. Allora l’eredità nostra, la quale sanza intervallo piangiamo esserci tolta, incontanente ci sarà restituita. Siccome noi ora ricordandoci che noi siamo di Gierusalem santa in esilio in Babilonia, piangiamo; così allora, cittadini e respiranti in pace ed in allegrezza, le miserie delle confusioni rivolgeremo. - Scritto in Toscana sotto la fonte d’Arno, a dì XVI del mese d’aprile MCCCXI, nell’anno primo del corrimento ad Italia del divino e felicissimo Arrigo"4. A Dante movitor qui di principe straniero contro la propria città, io non saprei scusa che valga. Dogliamoci e passiamo.
Ora poi, essendo le fonti d’Arno vicine a Porciano dei conti Guidi, congettura qui l’Autor del Veltro, che a questo tempo abbia a riferirsi una tradizione corrente in que’ paesi; che Dante fosse sostenuto nella torre maggiore di Porciano. "Interrogato il contadino in tutti i luoghi vicini, risponde tuttora, che Dante fu in quella rinchiuso: una recente iscrizione a piè della torre attesta l’antica tradizione, assegnando al fatto impossibile causa, la battaglia di Campaldino"5. Suppone il medesimo Autore, che i conti Guidi, o per vendetta delle ingiurie fatte in inferno a’ loro consorti, o perchè, quantunque Ghibellini, non ardissero tollerare l’appello prematuro ad Arrigo lontano, imprigionassero così l’imprudente scrittore. E parrebbemi avvalorata tal congettura da quella data così indeterminata, in Toscana sotto le fonti d’Arno; la quale accenna una dimora incerta e nascosta. Se non che, vuole altri si legga tal data in Toscanella sotto la fonte Marta6. Non pare buona la lezione, ma credane ognuno a suo talento; chè non ci fermeremo a ciò, come facciamo alle cose le quali importino per conoscere l’anima non infallibile, ma alta, di Dante.
Del resto, non pur Dante e i suoi biografi, ma anche gli storici fiorentini contemporanei, nel riferir la dimora d’Arrigo a domar le città ribellate di Lombardia, e il rispetto così dato a Firenze allora mal apparecchiata, appongono a tal indugio la mala riuscita di lui, quando poi venne. Ma Dante e gli altri Fiorentini erravano forse nel dare alla loro città, quantunque prima in Toscana, soverchia importanza rispetto a tutta Italia. Non si possono trascurar le città nelle guerre contro ai popoli, come si trascuran talor le fortezze nelle guerre di soli eserciti: ciò seppe e provò a’ dì nostri Napoleone in Ispagna. E certo, que’ rozzi ma non inesperti guerrieri tedeschi d’Arrigo VII, fecero il meglio fattibile non lasciandosi indietro Lodi, Cremona, Crema e Brescia sollevate, e Bergamo ed altre mal ferme in Lombardia, per mettersi incauti giù per la Penisola ad una chiamata di fuorusciti.
Ad ogni modo, passata la Pasqua in Pavia addì 17 aprile 1311, la domane della lettera di Dante, partì Arrigo e compose tutte le minori sollevazioni; non senza fatica nè senza que’ castighi onde s’era astenuto fin allora, ma quelle almeno senz’armi. Ma contra Brescia gli fu forza venir a campo ed aprir guerra. Incominciò a maggio, durò quattro mesi, e vi s’inferocì. Preso in una sortita Brusato, capo dei Guelfi e allora della città, prode cittadino, ma che rientrato già per forza fattane a’ Ghibellini da Arrigo stesso, poteva così ora accusarsi di grande ingratitudine, fu straziato a morte nel campo tedesco. Gli assediati risposero con reciproche crudeltà. Così doveva succedere, fondandosi i Tedeschi sul diritto d’imperio, gli Italiani su quello di libertà, egualmente icontestabili a senno di ciascuno; e così accusandosi questi da quelli d’infedeltà, quelli da questi d’oppressione. E fu ancor fortuna che s’intromettessero i tre Cardinali legati del Papa, che seguivano il Re de’ Romani per incoronarlo a Roma poi. Per opera loro, s’arrese la città addì 24 settembre, e non fu punita se non nelle mura ed in danari. Quindi, al solito, il Re posevi un vicario, che altri dice essere stato Giberto da Correggio, altri Moroello Malaspina7; che se fu, non dovette essere Moroello lo zio, gran guelfo e amico de’ Fiorentini, ma il nipote amico di Dante, e probabilmente ghibellino. Nella vicina Verona, o poco prima o poco dopo, fu dato il medesimo titolo a Cane della Scala; il quale, per la morte d’Alboino suo fratello, in breve seguita, rimase solo signore di quel popolo; e fu poi gran capo de’Ghibellini di Lombardia, grande e generosissimo principe, appresso a cui ritroveremo con altri il gran fuoruscito.
Di Brescia, per Cremona, Piacenza, Pavia e Tortona, venne Arrigo a Genova in sul novembre, avviato a Toscana. E qui Roberto re di Napoli mandava gente, sollevava città. Bologna, Firenze s’apparecchiavano apertamente; e Siena, per non dir la parola dantesca, barcheggiava. Qui Firenze era veramente la principale. E qui, chi anche in una vita particolare voglia sollevarsi a vedere più che un uomo, non potrà non ammirare la costanza, l’ardire, o, se si voglia, la superbia firoentina. Tra le tante ambascerie a Losanna, a Milano, niuna fu mandata mai da Firenze ad Arrigo. A una prima mandatale dall’imperadore, "avea risposto per parte della Signorìa Betto Brunelleschi, che mai per niuno signore i Fiorentini inchinarono le corna"8. Una seconda mandata da Tortona e narrata dal vescovo di Butrinto, che n’era, non fu nemmeno lasciata entrare in città. Bensì, fin dal 26 aprile richiamarono parte de’ loro fuorusciti9; ed a’6 settembre par che facessero una seconda amnistia, ma di quelle che s’eludono colle eccezioni. Effettuaronsi quattrocento ventinove persone o famiglie10e Dante fu compreso in questi. Certo, noi tra la nostra civiltà ammireremmo più compiutamente Firenze, se ammettendo i fuorusciti che il buon Imperadore voleva far rientrare in ogni dove, avesser respinti solamente que’ vicarii a cui ammettere si voleva rinnegare la pace di Costanza e i diritti conceduti da tanti Imperadori, o conquistati con tanto sangue de’maggiori: ma ad ogni modo, ei fu per li Fiorentini e lor resistenza, che non si stabilì tranquillamente per tutte le città d’Italia quel governo contrario ai trattati ed alla libertà antica; Firenze fu quella volta la rôcca d’Italia. Non ci lasciamo opprimere il giudicio dalla gloria di Dante: certo ei fu allora della parte men gloriosa. E se fu grande (e ci è caro anche così), quanto più nol sarebb’egli, se invece di certi inni all’aquila od altri simili che si trovano nella Commedia, avesse colla magia de’ suoi versi fatta immortale questa quasi ignota e pur così forte e bella resistenza della patria sua!
Gli ambasciatori d’Arrigo, che non avean potuto entrare in Firenze nè in Bologna, si raccolsero prima ne’castelli de’conti Guidi; e quindi, per altri di altri signori ghibellini meno scoperti, ivan citando i signori in persona, e le città per sindaci o commissarii, a comparire dinanzi al Re dei Romani. I meno arditi domandavan dilazione fino a che ei fosse in Pisa. I più andaron a Genova, e fra questi Uguccione della Faggiola11. E pur v’accorsero senza dubbio molti molti de’ fuorusciti eccettuati. Di dante si vuol dire, che parte di quest’anno 1311 ei passasse a Forlì, se abbiamo a credere a Pellegrino Calvi, che dice aver copiata una epistola di lui, di là scritta in nome degli esuli fiorentini a Cane della Scala, dov’era narrato l’infelice successo degli ambasciadori d’Arrigo ai Fiorentini12. Di là, poi, pare che venisse con gli altri fuorusciti e con Uguccione a Genova. Ma i Genovesi erano stati vituperati da lui in su quel fine dell’Inferno dove ei raddoppiava le invettice contro le città d’Italia; e fra i Genovesi, Branca Doria (ora potentissimo e quasi signore della città) v’era stato vituperato con quell’invenzione (la più atroce forse fra quante ne partorì l’ira di Dante), per cui, vivo quello e potente, era pure stato messo dal Poeta nel più profondo baratro dell’Inferno, la Tolommea, tra i traditori del proprio sangue, per avere, dicevasi, ucciso il proprio suocero Michele Zanche. Nel corpo vivente di lui avea supposto il Poeta fosse rimasto un demonio. "Io credo," rispondeva colà Dante a un frate Alberigo da Faenza, altro peccatore che gli avea nominato il Doria,
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Io credo, diss'io a lui, che tu m'inganni;
Chè Branca d'Oria non morì unquanche,
E mangia e bee e dorme e veste panni.
Nel fosso su, diss'ei, di Malebranche,
Là dove bolle la tenace pece,
Non era giunto ancora Michele Zanche,
Che questi lasciò il diavolo in sua vece
Nel corpo suo e d'un suo prossimano
Che 'l tradimento insieme con lui fece.
Ahi Genovesi, uomini diversi
D'ogni costume e pien d'ogni magagna,
Perchè non siete voi del mondo spersi?
Chè col peggiore spirto di Romagna
Trovai un tal di voi, che, per sua opra,
In anima in Cocito già si bagna,
Ed in corpo par vivo ancor di sopra.
INF. XXXIII.139-157.
Sarebbe stata più grandezza di quella gran città il perdonare. Ma, mossi da quelle ingiurie il Doria ed altri Genovesi, dicesi se ne vendicassero poi con gravi oltraggi fatti al mordace Poeta in un soggiorno di lui nella loro città; che, se fu, dovette essere allora, quand’è probabile v’andasse con gli altri fuorusciti fiorentini e coll’antico amico Uguccione13.
Intanto, gli apparecchi di re Roberto e de’ Toscani fecero risorgere le male spente ribellioni di Lombardia. Ribellaronsi Casale, Asti, Parma, Pavia, Novara, Vercelli, Reggio, Cremona e Padova, contro ai vicarii loro dati, o contro ai fuorusciti introdotti a forza, mentre Arrigo era in Genova o in Pisa, dove giunse per mare addì 6 marzo 131214. Nè perciò Arrigo sostò il viaggio per Roma. Imperiocchè, scopo principale di questi viaggi imperiali era prender le due corone, la regia a Milano, l’imperiale a Roma. Scopo vano oramai, che erano da tante ribellioni avvilite quelle due corone; e che difficili talora a prendersi, erano sempre più difficili a far valere. Venne, dunque Arrigo da Pisa per Viterbo a Roma addì 7 maggio. Dove già apertamente contrastando re Roberto, aveva per sue genti tentato impedir il passo a Pontemolle, e tenne poi parte della città incoronatrice, il Vaticano stesso, mentre Arrigo facevasi incoronare in Laterano dai Legati del Papa, amico segreto di Roberto. Vedansi ritratte al vivo tutte queste complicazioni dal vescovo di Butrinto. Seguì l’incoronazione imperiale d’Arrigo il giorno dei ss. apostoli Pietro e Paolo 29 giugno 1312; e il medesimo dì egli disposò una figliuola sua a Pietro di Arragona figlio di Federigo re di Sicilia. Ma guerreggiossi poscia in città e d’intorno, con tale svantaggio del nuovo imperadore, che a’ 20 di luglio ei si ritrasse a Tivoli.
Finalmente in agosto, lasciandosi ir a seconda delle istanze e speranze de’ fuorusciti fiorentini ei mosse verso Toscana. Venne ad Arezzo sempre ghibellina, e così amica; imperciocchè oramai era svanito il sogno imperiale d’essere amico a tutti. Quinci entrò nel territorio di Firenze, e prese Montevarchi, s. Giovanni e Feghine, incontrò all’Ancisa l’oste fiorentina, e respinsela, e addì 19 pose campo innanzi alla città. Saccheggiossi il bel contado da’ Tedeschi, dagli Italiani e Toscani lor alleati, da’ cittadini fuorusciti lor guide e istigatori. I Fiorentini più forti di gente non usciron d’addentro; ma perdurarono, e ciò bastò. Chè rimasto là da tre mesi l’imperadore, si ritrasse ai 31 d’ottobre a s. Casciano, ai 6 gennaio 1313 a Poggibonzi dove attese a rifare una fortezza, che chiamò Castello e addì 6 marzo alla sua Pisa, dove lasciate le speranze contro Firenze, si volse a guerreggiare, quasi signorotto italiano, contro contro la terra e le fortezze di Lucca. E così Firenze, con la sua costanza ( che è la più modesta ma la più utile delle virtù politiche), avea salva l’Italia di tornar forse all’antica soggezione15.
Ma prima d’andar innanzi, io ho fretta di restituire a Dante la sua parte di virtù. Accade sovente, esser uno Stato in una via buona e giusta di politica generale, far tuttavia ingiustizie personali. Ingiusta la prima condanna di Dante; non fu costanza ma ostinazione repubblicana il resistere alle prime istanze di lui per ripatriare. Quindi l’ira del generoso; ira giusta, ma che passò i termini, forse, nelle ingiurie. Quindi la nuova ingiustizia della conferma d’esilio, dall’eccezione nell’amnistia. E qui Dante ebbe il merito di fermarsi primo. Avea mossa la lingua, s’astenne dall’armi. Egli stesso se ne vantava poi a ragione; e ce l’attesta Leonardo, dopo aver riferiti i tentativi di ripatriare per mansuetudine. "Essendo in questa speranza di ritornare per via del perdono, sopravvenne l’elezione d’Arrigo di Luzimburgo imperadore. Per la cui elezione, prima, e poi la passata sua, essendo tutta Italia sollevata in isperanza di grandissima novità, Dante non potè tenere il proposito suo d’aspettare grazia; ma levatosi coll’animo altiero, cominciò a dir male di quelli che reggevano la terra, appellandoli scellerati e cattivi, e minacciando loro la debita vendetta per la potenza dell’Imperadore; contro la quale diceva, esser manifesto ch’essi non avrebbon potuto avere scampo alcuno. Pure, il tenne tanto la riverenza della patria, che venendo l’Imperadore contro a Firenze, e ponendosi a campo presso alla porta, non vi volle essere, secondo lui scrive, contuttochè confortatore fosse stato di sua venuta"16. Ed andiam pure congetturando un passo più in su: la nobil’anima di Dante non fu forse men generosa che quelle di alcuni fuorusciti de’ nostri tempi; e si rallegrò forse, o almeno gloriòssi, della gloria della patria ingrata, della patria stolta in respingere il suo maggior cittadino.
Poco durò in Italia ed in vita l’invano buono e prode Imperadore, dopo le sue vergogne di Roma e di Firenze. Di Pisa, o poco prima, mandò vicario a Genova (perciocchè anche Genova così potente ciò pativa) Uguccione della Faggiola, che l’avea seguito, come pare, da un anno, e certo all’assedio di Firenze17. In Pisa pose nel medesimo ufficio Francesco Ubaldini, amico di lui, della famiglia dell’arcivescovo Ruggieri; e seguendo insieme (e ci era merito oramai) il suo sistema d’imparzialità, fece uscire dalla lunga prigione ov’era ancora, Guelfuccio, e fece ripatriar Matteo della Gherardesca, due nipoti d’Ugolino. Poscia attese agli apparecchi contro Roberto re di Puglia, dichiarato da lui nemico dell’imperio, fatto da Firenze e Lucca signore loro per cinque anni. Federigo Arragonese ajutava l’Imperatore con un’armata di mare; e i Ghibellini ajutavano pure, ma poco, pressato ch’era ciascuno dai Guelfi vicini. E così s’avviò per la Maremma toscana addì 5 agosto, e s’innoltrò fino a Buonconvento, presso a Siena. Dove la solita infermità degli eserciti settentrionali, che avea mietute già parecchie di sue genti e teneva lui malconcio da alcun tempo, inasprita probabilmente da quell’arie cattive, lo spense addì 24 del medesimo mese. Fu apposto a veleno; ma si vede che gli abbondarono altre cagioni d’infermità e di morte. Il corpo, trasportato per le deserte maremme dal desolato e disperso esercito ghibellino, fu recato a Pisa. Accorsevi approdando re Federigo di Sicilia. I Pisani gli offersero la signoria di lor città; ma egli se ne trasse indietro, ed essi diederla ad Uguccione, che se ne fe’ centro per poco tempo a maggior fortuna18.
Dante, di cui non è traccia da Genova in qua, era probabilmente venuto a Pisa a un tempo che l’Imperadore; ed ivi, o presso ai Malaspina nella Lunigiana, era dimorato nell’anno che Arrigo correva a Roma, intorno a Firenze, a Pisa, a Buonconvento. In Pisa potè Dante conoscere Federigo Arragonese, a cui intendeva dedicare la terza Cantica; ma per il molto o troppo prudente rifiuto fatto dall’Arragonese della signoria di Pisa, e così dell’ufficio di capo ghibellino in Toscana, dovette Dante venire o tornare ai dispregi di lui, e vendicarsi a modo suo, togliendogli l’onor della dedica, e forse aggiungendo i vituperii che si trovano nel Convito. All’incontro, compianse Dante l’immatura fine del buon Arrigo di Lucimburgo; ed in tal pianto, all’udire la funesta novella, fu dipinto opportunamente due secoli dopo da Luca di Leida19. E serbònne religiosa memoria in quanto scrisse poi. Nel XVII del Paradiso, parlando per incidenza di questi anni prima del 1312 e 1313, ce gli accenna dicendo:
Ma pria che il Guasco l'alto Arrigo inganni;
vituperando così le doppiezze di Clemente V. Nel Paradiso poi, e nel più alto di esso od empireo, non potendo il Poeta, che finge salirvi nel 1300, collocarvi l’anima diletta vivuta in terra tanti anni ancora, le fa preparare un distinto seggio, e sel fa accennare da Beatrice, per prenderne nuova occasione di mordere Clemente e lodare Arrigo:
................... mira
Quanto è il convento delle bianche stole;
Vedi nostra città quant'ella gira;
Vedi li nostri scanni sì ripieni,
Che poca gente omai ci si disira.
In quel gran seggio, a tu che gli occhi tieni
Per la corona che che già v'è su posta,
Prima che tu a queste nozze ceni,
Sederà l'alma che fu già augusta
Dell'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
Verrà in prima ch'ella sia disposta.
La cieca cupidigia che v'ammalia,
Simili fatti v'ha al fantolino,
Che muor di fame e caccia via la balia.
E fia prefetto nel fôro divino
Allor tal, che, palese e coverto,
Non anderà con lui per un cammino:
Ma poco poi sarà da Dio sofferto
Nel santo officio; ch'el sarà detruso
Là dove Simon mago è per suo merto,
E farà quel d'Alagna esser più giuso.
PARAD. XXX. 130-148.
Non fu ignorata dunque da Dante l’universale avversione degli Italiani, ch’ei paragona al fantolino, cacciante la balia. Ma fu il paragone anche più compiuto che non credette il Poeta. Slattata era l’Italia compiutamente dagli imperadori, nè fu disposta a meglio riceverli mai più. Quando, due secoli dopo, Carlo V ebbe gran potenza in Italia, ei l’ebbe meno come imperadore, che come principe di Stati potenti addentro ed a cavaliere della nostra penisola.
Altro tributo, poi, della venerazione di Dante ad Arrigo doveva essere il libro, ch’egli aveva allora incominciato e intendeva a lui dedicare, della Monarchia. Non finito alla morte d’Arrigo, dedicòllo poscia a Lodovico il Bavaro, uno dei due che, dopo quattordici mesi d’interregno, furono eletti a succedere, essendo l’altro Federigo figliuolo d’Alberto austriaco. Ma perchè questo libro dovette inoltrato a questo tempo, e ad ogni modo si riferisce a’pensieri di Dante in esso, dai quali pur vorremmo trarci quanto prima, perciò noi ne parleremo qui, e, come facemmo degli altri, brevemente.
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modificaNote
- ↑ Murat., An.1311.
- ↑ Bocc.,Vita di Dante, p.37.
- ↑ XVIII, 91-103.
- ↑ Witte, Dantis Epis.VI, p.27 e seg.
- ↑ Veltro, p.123.
- ↑ Note De Romanis alla Vita di Dante - Ediz.Min.Tom.V,p.118.
- ↑ Murat.; Ann.an.1311; Gerini.
- ↑ Dino,p.532; Villani,p.443.
- ↑ Villani,p.452.
- ↑ Veltro, p.126.
- ↑ Ep.Butr.,908-911;Veltro.
- ↑ Veltro, p.125.
- ↑ Veltro, p.130; Arrivab.,T.I.,p.408.
- ↑ Mur., Ann.1311, 1312; Ep.Butr.,p.907.
- ↑ Murat., Ann.an.1312,1313; Veltro, p.131.
- ↑ Leon.Ar., p.58.
- ↑ Veltro, p.132.
- ↑ Villani, pp.468-470.
- ↑ Veltro, p.136.