Vita di Cecilia De' Vecchi nata Carrara-Beroa/IV
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§. IV.
Sua malattia, e morte.
Se v’era cosa che i voti di tutti concorressero a volerne la conservazione, era certo la vita preziosa di questa giovine sposa, delizia della sua genitrice, felicità del ben avventurato Luca de Vecchi, ornamento delle famiglie Beroa, Tomini, e Vecchi, specchio e consolazione di tutti i buoni, speranza de’ poveri. Di fatti pareva che il Cielo cortese avesse già accettati i comuni voti; una santità compita, una eguaglianza di stato, un non sentirsi mai dolore, un non aver mai un’ora di mal umore, una lena costante teneva lontana anche l’idea, non che la paura che si avesse a perdere. Brillava Cecilia d’un avvenenza nativa nell’età d’anni ventidue, di taglio
mediocre, di egual corporatura, agile al moto, e spiritosa; di faccia lunghetta, e sana; le labbra color di corallo; le guancie nè scarme, nè ritonde, sempre in un rosso gentile, quasi di rosa; occhi vivaci, grandi, sereni, neri, sempre allegri; la fronte alta decentemente, e maestosa, colla bocca sempre in sorriso, con voce parca, e dolce; capelli fini, biondi, e folti. Tutto questo unito all’innocenza del costume, alla decorosa pulitezza del tratto, alla schiettezza mirabile, e alla saggia semplicità delle maniere, all’affabilità cortese del parlare, e a quel non so che di bello e di superiore, che la virtù, e virtù di quel carattere aggiunge alla bellezza, faceva della nostra Cecilia la più bella cosa del mondo. Tale era la nostra Cecilia, quando trovandosi un giorno a Carvico, villeggiatura di Casa Vecchi, in Settembre, e venuto in pensiero agli ospiti di casa di fare una passeggiata pomeridiana al vicino
Montegilio a veder quella torre, antico monumento della barbarie degli uomini, e di là godere la bella veduta del corso dei due fiumi Brembo a mattina, e l’Adda a sera, e la sottoposta fertile penisola, e le terre popolose, che la coprono, le belle terre del milanese, e dei colli di Brianza, la veduta di Bergamo, Milano, Cremona, Piacenza: ella che mai non rompeva disegni, disse subito di sì, e mostrò piacere di questa gita, e andò. Era la stagione calda, il sole batteva forte, Cecilia era a capo scoperto, camminava, barzellettava colla figlia Flaminia. Ella era sempre avanti degli altri un bel pezzo di strada; coglieva qua e là di que’ fiori, che i pascoli incolti, e le colline producono odorosi e belli (così ella si distaccava dalla brigata, e godeva a piccioli ritagli il bene dell’interne sue delizie con Dio) rise, stette allegra, corse, camminò, sudò. Sopravenne un temporale con
gran vento, l’aria si raffreddò, Cecilia bagnata di sudore fu presa dal freddo, le si asciugò il sudore sopra la pelle, tornò a casa con brividi di freddo morboso, accompagnati da dolore di testa, e d’una atonìa generale, sintomi della fatale costipazione, che l’avea investita. La notte non potè dormire, crebbe il dolor di capo, crebbe il freddo, comparve l’alterazione del polso, fu detto aver ella febre. Era creduta incinta, e non lo era; quindi s’ebbe ribrezzo a somministrarle que’ rimedj che indebolendola facilitassero alla materia della traspirazione fermata sotto l’epidermide la sortita colla dilatazione degli orificj de’ vasi esalanti, allora troppo angusti per l’eccessivo eccitamento delle fibre de’ vasi medesimi; e così non si tolse dallo stato di stenia, da cui poteva a momenti essere liberata. Ella non sudò, ella non si liberò dalla materia eccitante morbosa; e presto passò allo
stato d’indiretta astenia, sotto la quale comparve una tosse, che da’ medici fu creduta insignificante. Tra la gravidanza che si supponeva, ed il raffreddore spegiato, Cecilia stava male; ma i medici non ne facevan gran caso; non davano che delle lunghe, quasi come affare indifferente. Il fatto sta, che l’incommodo di Cecilia era divenuto malattia locale, che per le leggi di metastasi erasi fatta stasi ai polmoni; ed ivi un tubercolo, senza che se ne avesse avuto sentore dai medici.
Quando si vide, che la tosse diveniva profonda, e frequente, che Cecilia perdeva il suo bel colorito, dimagriva, e le continuava una insidiosa febriciattola da nulla, di cui fece più caso il marito afflittissimo dal non vederla guarire, che i medici, i quali dicevano sempre, che nulla ne sarebbe stato; il buon Luca, e l’affettuosissima di lei madre, la vollero condotta a Bergamo, per tentare d’ivi liberarla da quell’incommodo, che loro dava già tanta pena. Allora fu, che tutto in un colpo il marito, la madre, e i parenti si videro nella più alta angoscia, poichè fu conosciuto il tubercolo, e dichiarato male di gran pericolo. Tutti allora quelli, che s’interessavano per una vita sì preziosa, riguardavano Cecilia con dolore, e si sarebbero lamentati col cielo, che pareva facesse torto ad una giovinetta di tanta virtù. Muoveva a pietà la povera pupilla Flaminia, che vedendo non guarire la sua mamma, parea pressentisse di doverla perdere. Inconsolabile il di lei consorte, non la sapeva intendere, e se con dinaro, con medicine, con mezzi, a qualunque costo avesse potuto puntellare una vita a lui sì cara, sarebbe pure stato felice. I medici, che la visitavano, facevano secondo il consueto metodo, una discreta corte di mezze parole alla malata, che ridente mostrava di non averne bisogno, e più al marito, ed alla madre, che tremava al solo immaginarsi di poterla perdere, appoggiati all’assioma, che non si deve aggiungere afflizione all’afflitto; ordinavano tutti ricette, e per onore della professione, e per uso, e per prova, e perchè è meglio qualche cosa che niente, e perchè sostenendo l’eccitabilità esausta, si prolungava la vita, e poi finalmente perchè bisogna far così, che se non altro si allontana l’idea della disperazione, che d’ordinario accelera la morte. Ma vedean bene ch’era incenzo ai morti, e però tutti diceano, staremo a vedere; ma il bello star a vedere, la vedevano andar di male in peggio. Quindi reso tutto inutile, importabile il cibo, non ritenibili i medicamenti, irrifondibile l’eccitabilità, inapplicabili gli stimoli, immedicabile l’attacco locale, rinnovandosi i tubercoli dopo la evacuazione del primo, Cecilia andava a morire. Il suo volto decaduto avea ancora la sua ilarità, le sue labbra erano sempre ridenti, i suoi occhi non erano meno allegri; si vedeva che andava; ella lo sapeva, e non ci pensava nemmeno. Una sol cosa l’affliggeva, ed era il veder appassionato il marito; e l’immaginarsi l’affanosa angoscia degli amorosissimi suoi parenti paterni, e materni, che ne aveano ammalato il cuore, come può immaginarsi chiunque conosce l’amorevole loro carattere, e sa lo sviscerato amore che le portavano tutti, ma specialmente i di lei fratello, e sorella, e più di questi ancora l’affettuosissima genitrice, che già dall’epoca in cui Cecilia erasi chiusa in Convento, per la mancanza del suo diletto consorte faceva le parti di madre non solo, ma quelle ancora di padre alla diletta sua figliuolanza, e avea perciò verso Cecilia l’amore, e la tenerezza tanto maggiore, perchè parea che vicino si prevedesse il fatale momento di perderla. Tutti i parenti riconoscevano in Cecilia una gemma quanto cara, ed inapprezzabile, altrettanto tutta di loro, e piena di una confidenza natìa, che gli rapiva. Quando entravano nella sua stanza, ella con brio si mostrava vivace, e dicea di star bene per consolarli. Basta dire, che tra tanti malinconici in casa per lei, ella sola era allegra, e ridente, come nulla avesse, ed arrivava persino a ristorare colla sua lena gli animi oppressi. Ma sortiti di camera quel ristoro presentava loro l’idea del gran bene che andavano a perdere, e faceva crepar il cuore, e piangere a tutto sfogo, e dolore. Ella intrepida rideva in mezzo alla profonda tosse; mangiava ad onta del gusto svanito, prendeva le medicine e dolci, e amare, ed odorose, e nauseanti, e scarse, e copiose; il recipe del medico non fu mai così ben eseguito come da Cecilia; mai un ne ho abastanza; mai un da qui a un poco, mai un è troppo; mai un mi ributta, mai un non ne ho voglia; mai nemmeno un mi fa bene. Le si dicea di bever bevea, di prender prendeva, di fare faceva, di stare stava, di andare andava: moto, quiete, bibite, pillole, tutto. Ai medici toccava ordinare, a lei era impreteribile l’esecuzione alla cieca, benchè vedesse l’inutilità di tutto, e come avea detto a gloria di Dio non c’era altro, tutte era fatto.
Così Cecilia a Bergamo sempre andò peggiorando; perchè posti tutti gli antecedenti, la conseguenza era, che dovea morire. L’afflittissimo Luca de Vecchi vedendo tornare inutili tutti i tentativi dell’arte, fatalmente congetturale, e mosso dalla dicerìa volgare, e dal consiglio ancora di qualche medico, e più dal desiderio, che nulla lascia intentato, pensò che potesse giovarle l’aria così detta grossa di Milano, e risolvette di tradurvela. Ne fece quindi la proposta alla madre nel momento stesso, che essa medesima apriva bocca per farla a lui: ognuno può immaginarsi l’aggradimento, e la consolazione dell’amantissima genitrice, che pensava l’impossibile per salvare la preziosa vita della sua Cecilia, ed il giubilo di concepire una speranza di veder ristabilita una vita, che però non si dava dai medici per disperata. Quindi senza badare a spese, ed incommodi, unita al cognato Canonico, ne sollecitò la partenza, risoluti ambedue di non più abbandonarla, finchè, o viva e sana la riconducessero a casa, o morta le avessero prestati gli ultimi officj. In quell’incontro mostrarono una singolare attenzione in Milano i di lei zii Francesco Tomini, e Maria Bendoni di lui consorte, nel procurarle, ed approntarle un ben commodo e decente appartamento nella vasta casa di Appollonio Casati. Così tutto disposto, ed allestito per opera e diligenza de’ medesimi, le due famiglie Beroa, e Vecchi, di cui era Cecilia tesoro comune, si amalgamarono insieme, traslocandosi decisivamente da Bergamo a Milano, coll’amatissima cadente Cecilia, impiegando nel viaggio due intiere giornate, per renderlo meno gravoso alla povera paziente, che però mai non disse, nè d’essere stanca, nè di trovarsi male, perchè ella era fatta così, e se per lei non avevano attenzione gli altri, essa non ne avea veruna, e toccava via sempre d’una maniera. Giunta a Milano Cecilia parve dopo alcuni giorni aver qualche sollievo, ma lo stoppino della lucerna attizzato a lume maggiore, si consuma più presto, e la medicina può ben dare oglio alla lucerna, ma non stoppino; quindi consumato anche quel poco di forza vitale, si trovò presto a star peggio.
Allora fece conoscere d’avere un desiderio, e fu, che le fosse fatta una visita dal suo confessore, e direttore, il già nominato D. Ambrogio Regazzoni, in cui ella aveva, a gran ragione, una singolare confidenza, e che solea chiamare il padre dell’anima sua. Sul momento si spedì a Bergamo a dirgli, che la povera Cecilia lo desiderava, ed egli partì su due piedi, e corse a Milano, e capitò da Cecilia, che udito a fermarsi il legno nel cortile della casa, disse subito ridendo: è quì D. Ambrogio; e come gli comparve in camera, alzò le mani, e le giunse dicendo: Te Deum laudamus, adesso morirò contenta. La morte de’ Giusti è uno spettacolo, che intenerisce, innamora, e mette invidia. Già ella avea detto con una semplicità ridente all’assistente sua madre, poche ore prima che capitasse il suo padre spirituale: Signora madre, cosa mai dirà D. Ambrogio, quando verrà, che il pover’uomo ha fatta tanta strada, ed io non ho niente da dirgli; gli parrò senza convenienza, non è vero? Niente da dirgli! replicò la madre; quando si tratta dell’anima bisogna bene pensar sottile: Ho pensato, e ripensato, rispose, tutti questi giorni, e più dopo che si è mandato a chiamar D. Ambrogio, ed io non trovo niente da dirgli. Qui fece un bel sorriso allegro, poi soggiunse: ebbene ne dirà egli a me, ed avrò la consolazione di morir nelle sue mani. Ecco il gran bene d’aver un Direttore a cui si abbia tutta la confidenza, e sotto la guida del quale si cammini costantemente la via della salute. Per un’anima come quella di Cecilia, un tal Direttore è come uno di que’ cordiali balsamici, che la divina bontà prepara a’ suoi eletti, quando trovansi alle porte del Paradiso.
Volle però da lui ricevere la sacramentale assoluzione: queste sono vere delizie per i Confessori egualmente che per i penitenti. Di confessione generale non occorreva parlarne, l’avea fetta, come abbiam detto, nella solenne Missione datasi nella Basilica di S. Maria Maggiore, e fatta in poche parole: di presente non avea che aggiungere, e il suo confessore le diede l’assoluzione sacramentale, appagando così in essa l’ardente desiderio che avea come Sposa di Cristo di ornarsi le guancie del di lui sangue, e di impreziosirsi in quel bagno d’amore, e di salute. Fatta la confessione in questa guisa, disse con una semplicità, e consolazione che cavò le lacrime: oh adesso non ho più paura della morte. Sicchè quando questa le venne annunciata dal suo confessore, la sentì poi con quella rassegnazione ai divini voleri che forma il carattere de’ veri predestinati.
Trovandosi ella a quegli estremi, oltre il conforto che avea della presenza sempre permanente della sua buona madre, del marito, del suo confessore, ed altri di sua famiglia sì paterna che materna, la divina provvidenza dispose che assistesse pure alla sua malattia, e morte la brava ex-monaca Baroggi, che nel convento di Treviglio era stata la maestra di Cecilia nei tre anni di educazione che ivi passò. Questa ottima Donna che amava la povera Cecilia con amore di tenera madre, saputo che ella era venuta a Milano ammalata, ne cercò subito traccia, e trovatala in quello stato non l’abbandonò più, usandole quell’assistenza che appena si avrebbe potuto attendere dalla madre più sviscerata. Vedendosi perciò Cecilia tanto assistita solea dire: Ma, Signore, voi in Croce non avete avuto un ristoro, un’attenzione immaginabile, ed io servita così? Le era tanto più cara la compagnia della sua maestra perchè così, dicea, avrò la fortuna di fare l’obbedienza in tutto fino alla morte, e perchè questa ex-monaca, donna di spirito, e di pietà la teneva spesso pasciuta di quel che più amava, dei discorsi di Dio, e del Paradiso.
Vedendo il suo confessore al secondo, e terzo giorno che non era lontano il momento di perdere Cecilia per donarla al Cielo, le andò al letto, e le disse schiettamente così: Cecilia i Medici han detto che per voi non c’è più rimedio; da qui a pochi giorni converrà fare la volontà di Dio, e poi cominciò a recitare il Te-Deum, che D. Ambrogio le lasciò dire perchè lo diceva con un sapore di paradiso, e massime nel pronunciare le ultime parole: In te Domine spravit &c. parea che l’anima volasse dietro le parole in braccio a Dio. La sua rassegnazione era mirabile, sentiva in prevenzione del Paradiso, ed era tale che quasi levava il dolore d’averla a perdere; e l’oppresso suo consorte ebbe a dirmi che l’allegria della sua Cecilia quel dì che le si annunciò la morte, avea data a lui la vita; e si sentì come rompere un gran nodo che gli stringeva, ed opprimeva il cuore: Ridebit in die novissimo!
Da quel momento non volle più intender parola di quanto, e di quanti lasciava sulla terra. Volea ringraziare il suo Luca delle attenzioni che le avea sempre usate. Ma appena ella cominciò a dirgli: Caro Luca vi ringrazio... quegli dovette scappare altrove, e diede in un pianto dirottissimo. Ella indi a qualche tempo il fece chiamare, e con un aria da Paradiso gli fece così un motto di nuova tempra che lo rimise in fiato ed in vita. Ella aggravata estremamente dal male, aggradiva tutto, e tutti, ma si vedeva che il suo spirito a misura che si scioglievano i lacci del corpo, si alzava verso il Cielo con un contegno di saporitissimo raccoglimento. Chiese con grande affetto il sospirato viatico del Corpo del suo Gesù. Non è esprimibile la tenerezza, l’affetto, la fede con cui si comunicò. Parea proprio che vedesse, e trattasse col suo Redentore senza velo. Volle esser messa in assetto, si levò a mezza vita, ricuperò il suo bel colore di sana; pareva guarita; e quello scheletro ricomparve una bellissima giovane vivace. Fu allora che estatica pareva un vivo ritratto di Maria Vergine: gli occhi, la fronte, le labbra, le guancie aveano un non so che, che rapiva e ispirava amore e venerazione. Si trattenne più d’un ora in profonda unione col suo Dio, e ristorata nello spirito ricevette poi anche qualche ristoro nelle forze corporali.
Il male incalzando precipitosamente agli estremi, e portandola al termine a passi di deliquj mortali, e di sintomi d’agonia, e riavutasi appena da uno svenimento, trovandosi tosto appena da un’altro più fiero, così com’era tutta sparuta, e gocciolante il viso di freddo sudore, e senza voce, e quasi moriente, accettò giubilante l’estrema unzione, che già il buon D. Ambrogio avea di tutta fretta allestito ogni cosa per amministrargliela; Le si conferì questo Sacramento, direi quasi a precipizio, parendo a tutti che spirasse; ma ella era così presente a sè medesima, che sforzando le labbra agonizzanti, accompagnò con mute parole le preghiere della Chiesa, ed avendo aperti un momento gli occhi, e visto alcuno de’ circostanti, che stavasi in piedi, con la mano languida, e col capo smorto gli fece cenno d’inginocchiarsi, e si scorgeva in lei una così umile rassegnazione alla testa piegata sul collo languente, agli occhi quieti, e belli anche in quello stato, alle mani incrocicchiate sul petto, o stringenti il Crocifisso, che ben si vedeva, che per lei vita, e morte, sanità, e malattia era l’istessa cosa, e pareva tacendo dire: ecce ancilla Domini. Compiuta la sacra cerimonia, e riavutasi dal deliquio crudele, che quasi l’uccise, si lamentò con bel sorriso, perchè le si avesse dato l’oglio santo senza lavarle le mani e i piedi, parendo con ciò essersi mancato di rispetto al Sacramento, e venendole detto, perchè si credeva di non essere a tempo, e che moriva, sorridendo al solito, disse, che avean fatto bene.
Come quest’anima fortunata era stata tutto il tempo di sua vita raccolta in Dio, e presente a se stessa inalterabilmente, e come tutti i mesi avea fatto la sua preparazione alla morte, al terminare de’ suoi giorni, ed al morire, Iddio la fece andar eguale alla sua condotta, sicchè passò all’eternità, come se facesse il suo giorno di ritiro, e volò a veder Dio (come può bene sperarsi) senza aver cessato mai di vederlo coll’occhio della fede, e della contemplazione, non avendola distaccata dall’unione con Dio nemmeno i più profondi deliquj. Il penultimo dì della sua vita, fu presa da uno svenimento, e deficienza così profonda, che esausto tutto il vigore vitale, e resa impotente la forza di tutti gli stimoli applicati, si giudicò estinguersi affatto in lei ogni eccitamento, e morire: durò in questo stato più di morte che di agonia, per lo spazio di più ore: appena un tenue rifilo di moto all’arteria, interrotto, insensibile quasi, la dinotava vivente, immobile a tutto, e perduta; sicchè sopra di lei furono dai suo D. Ambrogio recitate tutte le preci dell’agonia. Quando, così a Dio piacendo, rivenne, le si rialzarono le forze, aprì gli occhi: l’assistente suo confessore allora le disse: Cecilia, dove siete stata fin adesso col vostro spirito? Alla presenza di Dio, rispose ella... sempre? soggiunse egli; ed ella sì,... non l’avete mai perso di vista?... nò... abbiam poco ad andarlo a vedere... ed ella, sì? e qui si mise a ridere con un’aria così bella, che parea cosa di Paradiso, e fece piangere tutti di tenera invidia della sua allegria da santa. Così quest’anima matura al Cielo teneva dolce compagnia al celeste suo Sposo nella vigilia delle nozze eterne. Fra gli intervalli de’ suoi svenimenti, e prima che le cominciassero pregava, che le si leggesse alcun passo della dolorosa Passione di Gesucristo, e si osservava che accompagnava la lettura con affetto contemplativo in guisa che in attitudine estatica, cambiava talvolta colore in faccia, e pareva dileguare di tenera compassione, e di ardente gratitudine al suo Signore, che profondamente adorava.
Questa sua viva attenzione a Dio le cagionava un’aria di presenza di spirito, e di eguaglianza di sentimenti, che sorprendeva: avea presente tutto, come fosse stata non moribonda, ma sana. Secondo il suo metodo, chiamò a sè una persona giovine di suo servizio, e le porse in mano una grossa moneta, indi le fece una amorevole predica, ma con tanta forza, e con sentimenti così vivi e toccanti, che credo bene, che chi la ricevette non potrà fin che vive levarsene le dolci, e profonde ferite dal cuore. Vedendo che a momenti andava a morire, si fece dare la sua borsa, e volea consegnare a D. Ambrogio il dinaro da supplire al suffragio di S. Cassiano, cui era ascritta, come se pagasse per altri, e non per sè. Con questi passi s’incamminò agli ultimi suoi respiri: si vedea che mancava, quando si osservò, che girava gli occhi sul muro opposto, quasi cercando qualche cosa: interrogolla D. Ambrogio cosa cercasse, ed ella: la Madonna Santissima disse: subito vi si fece mettere un quadro coll’immagine di Maria, allora parve che brillasse di gioja. Ricevute tutte le indulgenze e benedizioni di S. Chiesa, contenta, e quieta, pregò di nuovo il suo Padre Spirituale a leggerle la Passione di Gesucristo, e mentre essa sentendo dileguava nello spirito, entrò in agonia anche nel corpo. Cessò di leggere D. Ambrogio, ed ella si sforzò a dir grazie. Si cominciò a raccomandarle l’anima, ed ella vedendo alcuna persona in piedi, colla mano languente le fece segno d’inginocchiarsi; baciò il Crocifisso, se lo strinse nelle mani giunte sul petto, fissò gli occhi in Maria Santissima, incantata in Maria, con bocca ridente, spirò in età d’anni 23., mesi uno, essendo accorse alla sua agonìa da tutta Milano moltissime persone delle primarie, per essere spettatrici del più bello dei trionfi, cioè della morte de’ Santi. Morì il giorno primo Marzo dell’anno 1802.
In Milano le furono fatte solenni esequie, con immenso concorso d’ogni ceto di persone; e si diceva che era morta una Santa, e si volava da lei. Una bellissima iscrizione onorò i suoi funerali, ed è del tenore seguente:
CECILIAE. DE. VECCHI
NATAE. CARRARA. BERROA
QUAM
OB. MORUM. SUAVITATEM
ET. VITAE. SANCTIMONIAM
NEMO. NON. SUSPEXIT
FLORENTI. ADHUC. AETATE
EHEU
E. VIVIS. EREPTAE
LUCAS. DE. VECCHI
AMANS. MOERENSQUE. CONJUX
JUSTA.
Dopo le Esequie fatte in Milano la spoglia mortale di Cecilia fu riguardata da tutti come il Corpo d’una Santa. Il vivissimo dolore per averla perduta in sì giovine età, e nel fiore de’ suoi giorni non impedì che la di lei Genitrice, e gli altri parenti della nostra Cecilia provassero un non so qual sentimento di rispettoso riguardo verso que’ lacci medesimi da’ quali si era sciolta quella bell’anima fatta per il Cielo. L’istesso di lei Consorte Luca de Vecchi, quantunque si potesse dire per il dolore quasi fuori di se stesso, pure alla vista di quell’esangue spoglia da lui sì amata, provava nel fondo dell’oppresso suo cuore un non so quale per lui nuovo, e in certo modo soave, e sempre rinascente impulso, che a ravvisar lo movea nel Cadavere della sua Cecilia gli avanzi mortali d’un Eroina del Cielo. E tanta ebbe in lui di forza questo pensiero, che non volle partire da Milano senza ordinare che fosse trasferito con decoroso accompagnamento il Corpo di Cecilia a Carvico. E ben fece egli a secondare la voce del suo cuore, e i desiderj di Caterina Beroa, ed altri parenti di Cecilia, che speravano qualche conforto nell’aver almeno vicino il luogo del di lei rispettabile Deposito; poichè se gli abitanti di Carvico non avesser veduto per volere di Luca trasportata la spoglia di Cecilia fra loro, erano risoluti di andare alcuni di essi a Milano per dimandarla, e quasi un tesoro che ad essi apparteneva volerla decisamente. Quindi sarebbe ben facile il congetturare, se testimonj di vista ancora non l’affermassero, quanto fu rispettosa, e commovente l’accoglienza fatta in Carvico dalle accorse genti d’ogni età, d’ogni sesso alla morta salma di Cecilia. Se il breve soggiorno che essa avea fatto in Milano negli ultimi periodi del viver suo, dove si può dire le sue virtù non eran note che per fama, bastò perchè alla di lei morte si dicesse generalmente che era morta una Santa; cosa dovrem credere avranno detto gli abitanti di Carvico, dove ella avea vissuto lunga stagione, e dove perciò tutti erano stati testimonj oculari della sua esemplare pietà, della sua generosa carità, e di tutte le altre virtù, che rendono sì amabili le persone, le quali all’esser distinte per ricchezze ed onori accoppiano ancora una rara bellezza, e una soavità angelica di tratto! Appena in fatti si sparse per Carvico che i voti comuni erano appagati, e che da Milano era stato ivi trasportato il Corpo di Cecilia Carrara-Beroa de Vecchi per esser tumulato in quella Chiesa Parocchiale, che tosto accorsero non solo da Carvico, ma ancora dalle molte vicine Comuni, e giovani spose, e teneri fanciulli, e vecchi cadenti, e sacerdoti rispettabili; un popolo in una parola numerosissimo, mosso non già solo da una innocente curiosità, ma da un sentimento divoto, dirò così di venerazione, e pietà; e chi voleva entrare nell’Oratorio di Casa de’ Vecchi dove era stato deposto il Corpo di Cecilia, chi di ciò non contento chiedeva piangendo che gli fosse concesso di rimirare pur una volta l’esangue angelico volto di lei; e tanta fu, e sì pressante l’istanza di alcune persone, che si dovette per compiacerle riaprire più d’una volta la cassa che racchiudeva quelle da essi tenute già in concetto di preziose Reliquie. Allorchè poi con tutta la possibile funerea pompa fu trasportata coll’accompagnamento di quanti Sacerdoti poterono concorrere da’ luoghi circostanti alla Chiesa Parocchiale, tanto fu il concorso di gente, che uno spettacolo parea di solenne divoto trionfo; durante il quale molte persone, fra i quali quel degnissimo Paroco, ed altri Sacerdoti non poterono trattenere per una tenera emozione divota le lagrime. Terminate le Esequie, che siccome in altri luoghi, così in Carvico volle Luca de Vecchi che fossero celebrate senza risparmio alcuno, e che più assai dell’ordinario solenni, e divote rendevano la pietà e la religione del popolo che sino alla fine vi assistette in gran numero; nel ritornar che facevano le genti alle loro case si dimandavano l’un l’altro quali fossero state le più minute circostanze, che accompagnarono la lunga malattia, e la morte preziosa di Cecilia; e chi volea sapere come aggradì l’assistenza singolare usatale da’ suoi consanguinei, dalla sua un dì Maestra ex-Monaca Baroggi, e dal suo Spirituale Direttore D. Ambrogio Regazzoni: chi ricercava quasi mosso da una lodevole invidia, quale sarà stato il di lei giubilo, nel vedersi visitata dal suo per ogni titolo rispettabilissimo Pastore Monsignor Gian Paolo Dolfin Vescovo di Bergamo, il quale trovandosi in que’ giorni in Milano di ritorno da’ Comizj Italiani tenuti in Lione, ed essendo ospite nella Casa Tomini, all’udire che la tanto a lui ben nota virtuosa Cecilia era presso a morte, volle recarsi da lei per darle l’Apostolica sua benedizione, e gustare il puro diletto, che ispira la vista d’un innocente che l’anima rende al suo Dio. Pareva in una parola che in tutta Carvico, e nelle Terre vicine non d’altro si dovesse parlare che di Cecilia; le Madri la proponevano per modello d’imitazione alle Figlie, i Mariti per uno specchio alle giovani Spose; tutti vi trovavano di che formare soggetto de’ loro discorsi. Contenti di osservare le virtù nel loro vero e naturale splendore, non aveano ancora imparato, o a non apprezzarne ii merito per non aver nulla di straordinario, e creder perciò inutile l’esporlo all’altrui vista, e imitazione, o a promovere de’ dubbj, e sparger il ridicolo su quelle azioni, che per non esser comuni si crede che diano il diritto a’ begl’ingegni di negarle. La vera virtù a guisa del Sole risplende ad onta delle più dense nubi, e da noi esige l’ammirazione anche talora malgrado di noi stessi. In fatti potè ben la morte troncar il filo de’ giorni preziosi di Cecilia, ma non perì già col suono de’ bronzi la memoria di lei, di cui anzi ogni volta, che di nuovo si parla, non solo da quelli che la conobbero da vicino, ma dagli altri ancora, che soltanto ne sentirono lodare l’angelica vita, sempre si rammenta con rispettosa tenerezza il nome. E dirò ancora di più, che in Carvico la lapide, la quale in luogo separato nella Chiesa Parocchiale, per volontà di Luca de Vecchi, chiude il Corpo esangue della sua diletta Consorte, vien riguardata come se ivi l’urna fosse d’una Santa; e vien indicata a chi straniero entra in quel Tempio quasi un luogo che esige venerazione, e rispetto. Il sentimento d’una pia divozione, non va in molti disgiunto da quello della ricordanza delle singolari virtù, e dall’amore con cui fu generalmente prediletta quella bell’anima, decoro non solo delle Famiglie Beroa, Tomini, e de Vecchi, ma vero ornamento ancora, e splendore de’ nostri tempi, e della nostra patria.
FINE.