Tragedie, inni sacri e odi/Inni sacri/Appendice

Inni sacri - Appendice - Il primo getto degl'Inni sacri

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Inni sacri - Strofe per una prima Comunione Odi
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APPENDICE


IL PRIMO GETTO DEGL’“INNI SACRI„


IL NATALE.

Nel manoscritto v’è, in principio, la data: 13 luglio 1813; in fine, 29 settembre 1813, e tra molti sgorbi e svolazzi: Explicit infeliciter.

Tra le molte strofe rifatte e rifiutate, mi pare che metta conto di riferire solo le quattro che, nel primo getto, tenevan luogo delle due: L’Angel del cielo... e E intorno a lui... Son queste:

     Non lunge a veglia stavano
Dal gregge lor pastori:
Ecco repente un Angelo,
Eceo dal ciel fulgori;
Grave terror li prese,
Ma tosto a lor cortese
Quel nuncio favellò:

     — Non paventate; altissima
Nuova di gaudio io porto:
Il salvator de gli uomini
Fra voi quest’oggi è sorto;
Il Cristo, io dico: andate,
Ne la città cercate;
Questo segnal vi do:

     Entro un presepe, un bambolo
Vedrete in panni involto:
Egli è! — Disse, e per l’ampia

[p. 320 modifica]

Notte scendea disciolto
D’altri celesti un volo.
Che si libraro a stuolo
Intorno al messaggier.

     Gloria al Signor cantarono
E in terra pace al buono,
In cor volgendo, attoniti,
Che ben voler, che dono;
Ma vinta in tanta piena.
Perdeasi la serena
Possa di quei pensier.



LA PASSIONE.

Il Bonghi avverte (I, 177): «È di tutti quello che ha meno strofe rifatte; e più varianti non cancellate dello strofe attuali. — Ha in principio la data: Incipit 3 marzo 1814, però non ne furono scritte che le due prime strofe, e smise; innanzi alla terza, è scritto: Ripreso il giorno 11 luglio, e dopo la strofa terza e quarta, levò mano da capo; innanzi alla quinta è scritto: 1815, ripreso 5 gennajo, e scrisse le strofe quinta, sesta, settima, ottava; innanzi alla nona, è posta la data: 26 settembre; innanzi alla decima, 28 settembre; in ultimo: Explicit ottobre 1815».


LA RISURREZIONE.

In principio è la data: Aprile 1812; in fine: Explicit, 23 giugno. Da correggersi. «Però», osserva il Bonghi (p. 165), «non si vede che lo correggesse; l’inno è stato stampato come qui è scritto, e non v’ha nello stampato se non due soli versi dei quali nello scritto non è traccia».

Ercole Gnecchi, nel vol. Lettere inedite di A. M., 2ª ediz., Milano, Cogliati, 1900, ha pubblicato il facsimile dell’autografo delle prime sei strofe. Codesto brano, trascritto accuratamente dal Manzoni, fu da Giovanni Torti donato «al sig. Ventura». Le strofe 2ª, 3ª, 4ª e 5ª vi sono tali quali furono poi stampate; la 1ª e la 6ª presentano qualche varietà. Eccole:

     È risorto: or come tolta
Fia la preda a l’uom robusto?
Come è salvo un’altra volta

[p. 321 modifica]

Quei che preso, in sasso angusto
Giacque immoto in forza altrui?
Io lo giuro per Colui
Che da’ morti il suscitò.
   .   .   .   .   .   .
Pria di Lui nel regno ctonio
Che mortal sarebbe asceso?
A rapirvi al vinto inferno,
Padri antichi, Egli è disceso:
Egli è il fin d’ogni desiro;
Tanto secol di sospiro
Un momento pareggiò.


Questa 6ª strofa, che è l’ultima del brano, fu dall’autore stesso cancellata con due linee in croce.

Dalle carte manzoniane, già esaminate dal Bonghi, appare che la strofa 7ª, Ai mirabili Veggenti..., fu più volte tentata.

     Voi che a gente ahi troppo sorda
Ragionaste del futuro,
Come il vecchio si ricorda
De le cose che già furo,
E le narra a i figli intenti
Che l’ascoltano sedenti
Al notturno focolar .....

     Voi che un dì vi ricordaste
De l’età non nate ancora,
E rapiti le narraste
A l’Ebreo fedele allora,
Come narra i prischi eventi
Il buon padre a i figli intenti
Al notturno focolar.....

Voi, Profeti, che a le genti
Favellaste del futuro.....


La gioia dei fanciulli, che ora è accennata nella sola seconda metà

della strofa 13ª, O fratelli, il santo rito..., era prima espressa in un’intera strofa, cui manca il penultimo o l’antipenultimo verso. [p. 322 modifica]


     Se il fanciullo in tanta festa
A la madre sua gioconda
Chiederà: che gioja è questa?
— È risorto — gli risponda
   .   .   .   .   .   .
Quei che disse un dì: lasciate
I fanciulli a me venir.



LA PENTECOSTE.

Nei manoscritti, il principio si presenta in due forme molto diverse. Innanzi alla prima, che va sino alla decima strofa, è la data: 21 giugno 1817. Il Manzoni l’ha abbandonata, ma non cancellata. Le prime tre strofe son molto tormentate da varianti, e rifatte per intero due volte, prima di lasciarle da parte. Sonavano così (la prima stesura della prima strofa non ha ancora a posto i versi tronchi):

1. Monte ove Dio discese,
Ove su l’ardue nuvole
Le ardenti ale distese
La gloria del Signor,
Salve, o pendice eletta,
Del solitario Sinai
Salve infocata vetta,
Ove il Signor posò.
2. Ma tu più cara a Dio,
Sionne, or di silenzio
Coperta e non d’obblio,
Vedova de’ tuoi re;
Tu bella un tempo e libera,
Che bella ancor sarai,
Tu che saluto avrai
Che degno sia di te?
3. Poi che su’ colli tuoi
Scese il potente Spirito,
Caliginosa rupe,
Ove ristette Adonai,
E su le nubi cupe
L’ignito solio alzò,
Salve, o solingo Sinai,
Ov’ei, fra il tuono e il lampo,
De’ suoi redenti al campo
Il suo voler dettò.
Ma tu che un dì signora
Fosti di tanti popoli,
Che il sarai forse ancora,
Sion, madre di re,
Sepolta or nel silenzio
Ma nell’obblio non mai,
Tu che saluto avrai
Che degno sia di te?
Fra la tua doppia cima
Scese il promesso Spirito,
[p. 323 modifica]
Che l'universo poi
Empiè di sua virtù;
Senza di cui l’amabile
Legge di Dio che valo?
Al duro cor mortale
La legge è servitù.
Ivi diffuse in prima
Le piene sue virtù;
Senza di cui l’amabile
Legge di Dio che vale?
Al duro cor mortale
La legge è servitù.

Seguivano poi tre altre strofe, qua o là variate ma non rifatte. Esse dicono:

4. È face alta su l’onda
     Che scogli e sirti illumina,
     Che fa veder la sponda
     Ma che non può salvar.
     Invan da lunge il naufrago
     Il suo periglio ha scorto,
     Invan, ch’ei piomba absorto
     Nel conosciuto mar.

5. Ma questa eterna in Dio
     Pietosa Aura ineffabile,
     Di cui giammai desio
     Indarno un cor non ha;
     Questa d’Adamo al misero
     Germe il cammino addita,
     E alla promessa vita
     Gioja e vigor gli dà.

6. O del peccato ancella
     E della colpa immemore
     Terra, al Signor rubella,
     Chi ti cangiò così?
     Donde su tanta tenebre
     Sì viva luce uscìa?
     E su che fronti in pria
     Dovea levarsi il dì?


[p. 324 modifica]

La settima strofa appar ritentata più volte:

7. Come la piccioletta
Prole al suo nido stringe
E della madre aspetta
Indarno il noto vol:
Ella, tornando al tepido
Nido con l’esca usata,
Per l’aria insanguinata
Cadde percossa al suol;...
Come, ristretti al nido,
I non pennuti parvoli
Stanno aspettando il fido
Vol della madre invan;...
.   .   .   .   .   .   .   .   
Cadde percossa al pian;...
Qual, se gran tempo il fido
Vol della madre aspettano,
Treman ristretti al nido
I non pennuti ancor:
Lei, che reddiva al tepido
Nido con l’esca usata,
Nell’aria insanguinata
Percosse il cacciator;...
Come lo stuolo immoto
Dei non pennuti parvoli
Freme aspettando il noto
Vol della madre invan;...
.   .   .   .   .   .   .   .   
.   .   .   .   .   .   .   .   

Qual se la madre è lunge,
     Stringonsi al nido e chiamano [aspettano]
     La madre che non giunge
     I non pennuti ancor....


E poi ancora tre strofe:

8. Tal, poi che tratto al colle
     Il buon Maestro esanime
     Imporporò le zolle
     Del suo sublime [eminente] altar,
     Dei trepidanti Apostoli
     Il mesto [L’orbato] stuol confuso
     Solea sovente al chiuso
     Ostello ricovrar;


9. Ove credenza al vero [al non visto vero]
     Non diè [Negò] l’errante [Negò credenza] Didimo1

[p. 325 modifica]

     E fe’ promessa......
     Che vana al rischio uscì;
     E poi che in nube il videro
     Ascendere all’empiro,
     Del suo promesso spiro
     Ivi attendeano il dì.
                         [Da omettersi o da rifarsi].

10. Ecco un fragor s'intese
     Qual d'improvviso turbine;
     Fiamma dal ciel discese
     E sovra lor ristè: [Da correggersi].
     Sui labbri indotti [Sui rozzi labbri] il vario
     Mirabil suono Ei pose,
     Da quel parlar [E da quel suon] pensose
     Pender le genti Ei fè.
                              [Rifiutato.]

Innanzi alla nuova forma è notato: Ricominciato il 17 aprile 1819; e in fine: 2 ottobre. «Nessun altro inno ha più pentimenti, cancellature, tentativi di questo», scrive il Bonghi, che vi si sofferma. Io mi limiterò a rilevare che, dopo le prime due strofe, che gli fluirono dalla penna come poi le stampò (salvo che, in luogo de’ vv. 3 e 4 della 1ª, aveva da prima scritto:

Custode e testimonio
Dell’alleanza eterna),


il Manzoni ritentò d’incastrare la tenera e cara similitudine, intorno a cui aveva tanto, e sì vanamente, lavorato nella prima stesura (str. 7ª e 8ª); ma anche questa volta dovè abbandonare per disperata l'impresa. Ecco i più notevoli tra i nuovi rimaneggiamenti:

Come in lor nido [macchia] i parvoli,
Sparsi di piuma lieve,
Cheti la madre aspettano
Che più tornar non deve,
Chè, discendendo al tepido
Nido con l'esca usata,
Per l’aria insanguinata
Cadde percossa al suol...
Siccome augei che trepidi
Invan da lungo il fido
Vol della madre aspettano
Cheti nell’alto nido;
Ella, tornando al tepido
Covo coll’esca usata....
[Ella che a lor sollecita
Reddia coll’esca usata]....
[p. 326 modifica]
Qual se, tornando al tepido
Nido con l’esca usata,
Cadde percossa tortora
Per l’aria insanguinata;
E all’improvviso strepito
Udì fermarsi il volo;
Trema l’imbelle stuolo
Dei non pennuti ancor....
Siccome augei che pavidi,
Chiusi nell’alte fronde,
L’alata madre chiamano,
Che al grido non risponde
.     .     .     .     .     .     .     .     .     
.     .     .     .     .     .     .     .     .     
.     .     .     .     .     .     .     .     .     
.     .     .     .     .     .     .     .     .     

Con questo cuor [Mesto così] degli undici
     Il vedovo drappello
     Giva in quei giorni a chiudersi
     Nell’ignorato [Nel solitario] ostello.
     Qual era il tuo principio,
     Sposa immortal di Dio!
     Timor, silenzio, obblio,
     E inoperoso duol.


La magnifica strofa: Come la luce rapida... è costata molto lavoro. Da prima il Manzoni scrisse:

Felici turbe, in Solima
     Nel sacro dì venute,
     Che in sermon vario udirono
     Il Buon della salute;
     E al gran principio attonite,
     Pensar che in ogni lido
     Risonerebbe il grido
     Che da quel loco uscì.


Poi, cercò d’esprimere l’effetto della discesa dello Spirito sui popoli con una similitudine, che ritentata lasciò da ultimo a mezza strada:

Tale il pastor d’Elvezia,
Col gregge errando in volta,
Ad or ad or lo strepito
D’acque sorgenti ascolta....
Tal nell’alpestre Elvezia
Talor s’arresta il vago
Pastor, là dove il Rodano
Esce dal freddo lago....
[p. 327 modifica]Poi si rifece alla prima forma (cfr. str. 6ª del primissimo getto):

O della colpa immemore
     E delle colpe ancella,
     Terra, divota agl’idoli
     E al tuo signor rubella,
     E nato il Sol che splendere
     Dovrà sovr’ogni lido;
     Porgi l’orecchio al grido
     Che da Sionne uscì.


Poi, finalmente, spuntò la similitudine della luce; che si presentò così:

Qual sulla terra il rapido
Lume del sol discende,
E sulle cose in vario
Color distinto splende....
Come quaggiù la rapida
Luce, dovunque posa,
Va suscitando i varii
Color di cosa in cosa....
Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa,
E prende il color vario
Del loco ove si posa....
Come la luce rapida
Piove di cosa in cosa,
E adduce i color varii
Ovunque si riposa....

E seguitava:

Tal la parola, al fervido
Spirital soffio [Soffio repente] accesa.
In cento suoni intesa
Dalle tue labbra uscì.


A mezzo della strofa seguente, Adorator degl’idoli..., ripigliava:

Colui che spinge il fulmine
Per l’infiammata [infocata] via,
Che ai mari il turbo invia,
E le rugiade al fior;
Quei che comanda al fulmine,
Quei che diè nome al cielo,
Che sul romito stelo
Fa germogliare il fior;
[p. 328 modifica]

Che diè la penna all'aquila,
     Che sul tuo nobil viso
     Scrisse il pensier, che ai bamboli
     Diè l’inetrabil riso,
     Che di sua man fra l’opere
     Invan cercando vai,
     Quel che adorar non sai
     Ma che ti senti in cor;

È un solo: è fuor dei secoli,
     Generator perenne;
     È Verbo eterno, è Spirito
     Che oggi a salvar ti venne.
     A Lui dall’empio immagini
     La terra alfin ritorni;
     E voi cho aprito i giorni
     Di più felice età,.....


Dopo il verso Nel suo dolo pensò?..., ripigliava:

Dalle infeconde lagrime
     Una speranza è nata,
     Che sugli erbosi [sui deserti] tumuli
     Siede pensosa [tranquilla] e guata,
     E alzando il dito, al vigilo
     Pensiero un calle [segno] accenna,
     Che l’immortal sua penna
     Tutto varcar [Oltrepassar] non può.

Oh vieni ancora, o fervido
     Spiro, nei nostri seni;
     Odi, o pietoso, i cantici
     Che ti ripeton: Vieni!
     A te la fredda Vistola,
     A te risuona il Tebro,
     A te la Senna e l’Ebro,
     E il Sannon mesto a te.


[p. 329 modifica]

Te sanguinose invocano
     Consolator le sponde
     Che le vermiglie cingono
     E le pacific’onde;
     Te salvator l’armigero
     Coltivator d’Hajti,
     Fido agli eterni riti,
     Canta, disciolto il piè.

Vieni!, a te grida il Libano,
     Il Libano fedele,
     Ove crescean sì vividi
     I cedri ad Israele;
     Oggi il fedel che al Golgota
     La vuota tomba adora,
     Dove scendesti allora
     Prega che scenda ancor.

Oh scendi, altor di Vergini,
     Allevator [Suscitator] di prodi;
     Tu che spirar negli animi
     I santi pensier godi;
     Quei che formò, benefica
     Nutra la tua virtude:
     Siccome il sol che schiude
     Dal pigro germe il fior,

Che lento poi, sulle umili
     Erbe, morrà non colto,
     Nè sorgerà coi fulgidi
     Color del lembo sciolto,
     Se l’almo sol nol visita
     Nel mite aere sereno,
     Se non gli nutre in seno
     La vita che gli diè.

Scendi nel cor, cui l’arida
     Via dell’esiglio piace,
     Che già divora i gaudii


[p. 330 modifica]

     Dell’avvenir fallace;
     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
     Sgombra da’ nostri petti
     Ciò che immortal non è.

Ma se talor dal piangere,
     Dal bramar vano affranti,
     Cadiamo, in sulla sterile
     Via del deserto, ansanti,
     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
     .     .     .     .     .     .     .     .     .     


Ma qui gli fallì la lena. Vi scrisse più tardi: Ripreso di nuovo il 26 settembre 1822. Ricopiò la strofa: Perchè baciando i pargoli..., e ad essa fece seguire le altre, di poco variate.

Anche della Pentecoste Ercole Gnecchi, Lettere inedite di A. M., p. 155 ss., ha pubblicato il facsimile d’un autografo, che contiene sedici strofe dell’Inno in una forma assai prossima alla definitiva. Ne trascrivo qui le varianti più notevoli.

Str.

Quando il tuo Re, tra i fremiti
Tratto a morir sul colle...

Str.

Nel suo sermon l’udì.

Str.

Odi quel santo grido,
Odi: Colui che al fulmine
Segna l’ardente via,
Che ai mari il turbo invia,
E la rugiada al fior;

Che diè le penne all’aquila,
Che sul tuo nobil viso
Scrisse il pensier, che ai bamboli
Diè l'ineffabil riso,
Che di sua man nell’opere
Invan cercando vai,
Quel che adorar non sai,
Ma che ti senti in cor,


[p. 331 modifica]

È un solo. È fuor dei secoli
Governator perenne;
È Verbo eterno, è Spirito
Che oggi a salvar ti venne.
Stanca del vile ossequio
La terra a Lui ritorni;
E voi che aprite i giorni
Di più felice età,

Spose, cui desta il subito
.     .     .     .     .     .     .     .     .     

Str.10ª

Dalle infeconde lagrime
Una speranza è nata,
Che sugli erbosi tumuli
Siede pensosa, e guata;
E alzando il dito, al vigile
Pensiero un segno accenna,
Che l’immortal sua penna
Oltrepassar non può.

Oh vieni ancora! oh fervido
Spira nei nostri seni:
Odi, o pietoso, i cantici
Che ti ripeton: vieni;
A te la fredda Vistola,
Oggi a te suona il Tebro,
L’Istro, la Senna, e l’Ebro,
E il Sannon mesto a te.

Te sanguinose invocano
Consolator le sponde,
Cui le vermiglie battono,
E le pacific’onde;
Te Dio di tutti, il bellico
Coltivator d’Haiti,
Fido agli eterni riti,
Canta, disciolto il piè.


[p. 332 modifica]

Oh scendi, altor di vergini,
Allevator di prodi;
Tu che spirar negli animi
I santi pensier godi,
Quei che creò, benefica
Serbi la tua virtude,
Siccome il sol che schiude
Dal pigro germe il fior;

Che lento poi sulle umili
Erbe morrà non colto,
Nè sorgerà coi fulgidi
Color del lembo sciolto,
Se l’almo sol nol visita,
Nel mite aer sereno,
Se non gli nutre in seno
La vita che gli diè.


E qui, noll’autografo, è una linea di puntini; e niente altro.


IL NOME DI MARIA.

In principio ha la data: 9 novembre 1812; in fine: 19 aprile 1813. Nel manoscritto, in calce della prima pagina, dov’è la prima strofa (il cui quarto verso suona «D’una cognata annosa»), è la seguente osservazione:

All’ingegno umano pajono belle quelle cose dell’arte che hanno analogia con esso. Le regole sono i modi già trovati e posti in uso per arrivare a questa analogia. Coloro che giudicano secondo le regole, intendono principalmente a scoprire l’analogia dell’opera colle regole, e così l’animo loro preoccupato non può sentire se vi sia quell’altra prima analogia. Questi giudizj sono imperfetti per molte ragioni; e le principali sono: che le regole non comprendono tutte le possibili analogie, e che si può errare nell’applicazione di esse anche buone. Il vocabolo pedantesco pare significhi tali maniere di giudizj. [p. 333 modifica]L’Inno sembra avesse da principio quest’altro cominciamento:

Cara è a molti fidanza il patrio suolo
     E il dì supremo oltrepassar col grido;
     Ma di mille volenti, appena un solo
          Vince il cimento infido.
[Ma il voglion mille, e vince appena un solo
          L’esperimento infido].

Questa cura superba ardea quei grandi
     Per cui fu [Figli di] Roma al imperar nudrita,
     Che diero in cambio de la fama i blandi
          Ozj e la dolce vita.

E quando, oltre tant’Alpe e tanta in pria
     Mal tentata onda, in mille terre dome
[E quando ogni Alpe, ogni tentata in pria
     Onda varcata...........]
     Più che mai bello risonar s’udia
          Di quei prestanti [più degni, valenti] il nome...
.     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     

Qui è scritto Incipit, e quella che poi fu, o rimane, la prima strofa. Dopo la strofa: O Vergine, o Signora..., sèguita quest’altra:

I re fan doni a’ tuoi celubri santi;
     Presso i talami aurati le regine
     Orando stanno, a’ preziosi innanti
          Tuoi simulacri inchine.


La strofa: In che lande selvagge... fu tentata più volte.

Non è di fior, cred’io, tanto selvaggia
     Famiglia omai, che de le pinte foglie [di sue ricche spoglie]
     Ornato ancor dell’are tuo non aggia
          Le benedette soglie............

Qual famiglia di fiori in sì selvaggia
Landa a lontano sol tinge le foglie,
     Che ornato ancor........

[p. 334 modifica]La strofa: La femminetta... fu cominciata così:

La femminetta nel tuo sen cortese
     L’inosservata lagrima accomanda;

ma, scontento, il poeta vi trascrisse sotto l’oraziano (Poet. 149-50): «Et quae Desperat tractata mitescere posse, relinquit». Per buona fortuna, ci si rimise; e rifece:

Tu de la femminetta che ti prega
     L’inosservata lagrima raccogli...

E finalmente, in margine, scrisse i due versi come ora si leggono.

Fra lo tante «cosette per rima» che l’abate Gaetano Giudici, consigliere di Governo per il culto e la censura, aveva raccolte, autografe o ricopiate, del suo grande e venerato amico, il Bonghi rinvenne, e pubblicò, i seguenti Versi improvvisati sopra il Nome di Maria. Non sono autografi, ma che sieno del Manzoni lo attesta una nota di mano del Giudici; e, avverte il Bonghi, «se non aggiungono nulla alla gloria poetica del Manzoni, aggiungono qualcosa alla storia genuina del suo animo». Un’altra copia, con qualche leggiera variante, ne ha letta, e gentilmente trascritta per me, la sig.na Lavinia Mazzucchetti, nell’Album di una signora milanese. Vi è annotato: «Versi di Alessandro Manzoni. Versi improvvisati sopra il Nome di Maria, e scritti da Giulietta nello stesso tempo, cioè la sera dopo il nostro arrivo a Brusuglio, 10 settembre 1823». Li riferisco secondo questa lezione, mettendo tra parentesi le varianti della copia Giudici: dove l’ordine della 2ª e 3ª strofetta è invertito.

Santo nome, in fra i mortali
     Quale è il nome che ti avanza?
     Tu sei nome di speranza,
     Tu sei nome di pietà.

Se d’Adamo il pazzo orgoglio
     AI Signor ci fa ribelli,
     Per te, o Madre, siam fratelli
     Di Colui che ci creò.

Per te ancora al Ciel perduto
     Nostra mente si solleva;
     Tu ci togli al fallo d’Eva,
     Tu ci torni al primo onor.

[p. 335 modifica]

Quando pesa sul cuor mio
     L’ingiustizia de’ mortali,
     Quando a me verranno i mali,
     Il tuo nome invocherò.

Se dei [da] troppi falli miei
     Caggio sotto all’empie some [empio seme (!)],
     Ripetendo il tuo boìel nome
     Io mi sento confortar.

Egli è umìl non men che mondo,
     Questo giglio delle valli;
     Nè perch’Ella è senza falli
     Mai rigetta chi fallì.

Chè ben sa che s’Ella intatta
     Tutto corse il tristo esiglio,
     È sol grazia del suo Figlio
     Che la volle preservar.

Tu se’ gioja ai cuori afflitti,
     Tu se’ guida ai passi erranti,
     Tu se’ stella ai naviganti,
     Tu se’ grazia ai regnator [peccator].

Se la vita è un triste calle
     Tutto sparso [ingombro] di ruine,
     Questa rosa in fra le spine
     Il cammino allegrerà.

Tu conosci i nostri guai:
     Per noi dunque il Figliuol prega;
     Se ad ogni uom Egli si piega,
     Per la Madre che farà?

Non ti chieggo della terra
     Le delizie passeggere,
     Nè lo scettro del potere,
     Nè la febbre degli onor;

Prega Lui che alle nostre alme
     Verso il Ciel dia corso [polso] e lena,

[p. 336 modifica]

     E la polvere terrena
     Ci dia forza a disprezzar.

Fa che sempre io mi ricordi
     Il colpevol viver mio,
     Onde alfin, placato e pio,
     Lo dimentichi il Signor;

Onde possa, ancor che indegno,
     Rimirarlo senza velo,
     E udir gli angioli del Cielo
     Il tuo nome risuonar.


FRAMMENTO DELL’INNO «L’OGNISSANTI».

La signora Louise Colet — un singolare tipo di poligrafa e di giornalista errante costei, sulla quale è ora da vedere il vol., forse eccessivamente schernevole, di J. De Mestral Combremont, La belle madame Colet, une déesse des Romantiques, Paris, 1913 (cfr. anche P. Croci, Le peripezie di una Musa, nel «Corriere della Sera», 19 febbr. 1910; e nello stesso giornale, 8 genn. 1912, V. Cian, A. Manzoni intervistato; e nella «Perseveranza», 15 e 23 agosto 1913, R. Calzini, La commedia d’una poetessa romantica) — , essendo venuta a Milano sulla fine del 1859, presentò al Manzoni una copia del suo opuscoletto Le poëme de la femme: I.er récit; la paysanne (Paris, Perrotin, 1853, pp. 32). Vi scrisse sul frontispizio: «Hommage de respect et d’admiration a monsieur Alexandre Manzoni. Louise Colet». Il poeta,rivedendola nel gennaio successivo, le disse: «Voi sentite profondamente la natura. Ho trovato nel vostro poema della donna, e particolarmente nella Paysanne, dei passi che mo l’hanno fatto capire. C’è in quel poemetto un paragone, tra le anime le cui virtù rimangono nascoste, e certi paesaggi montani le cui bellezze son dischiuse soltanto allo sguardo di Dio, che mi ha specialmente colpito; perchè io pure ho fatto un avvicinamento dello stesso genere, in una poesia che non ho poi pubblicata»,

I versi della signora Colet, cui il Manzoni alludeva, son questi (p. 16):

«Pour le désert la nature a des fêtes,
     Des lieux choisis que l’homme n’a point vus,
     Sur les hauts monts des floraisons secrètes,
     De gais sentiers, des lacs, des bois touffus.
     Fraîcheur des eaux, aménité des mousses,
     Senteurs montant de la terre au ciel bleu,
     Combien ainsi vous devez être douces,
     Vous déveilant, vierges, à l’oeil de Dieu!

[p. 337 modifica]

     Dans vos splendeurs la cité vous ignore;
     Le voyageur ne parle pas de vous.
     Mais Dieu vous voit; votre beauté l’adore,
     Et vous plaisez è son regard jaloux.
     Il est ainsi des âmes inconnues,
     Dont les vertus fleurissent en secret;
     Tout le parfum de ces urnes élues
     Se perd en Dieu comme un encens discret:
     Leur sacrifice est offert en silence;
     Leur dévouement découle calme et fort,
     Leur héroïsme attend sa récompense
     Du saint repos que leur promet la mort.
     Souffrir l’affront sans qu’aucun bras nous venge,
     Subir la faim avec sérénité,
     Être martyr sans espoir de louange,
     Et s’ignorer dans sa sublimité!
     Ames du pauvre, incessantes offrandes
     Versant en Dieu vos naïves douceurs,
     C’est là, c’est là ce qui vous fait si grandes,
     Vous que le Christ doit élire pour soeurs!

Qualche giorno più tardi, il 2 febbraio, la sig.ª Colet pubblicò nella Perseveranza una sua ode al Manzoni; in cui erano queste strofe (cfr. ScheriLLo, Visconti Venosta minore, nella «Lettura» del maggio 1915, p. 405):

Italie, ô terre immortelle!
     Voilà ce qui te rend si belle
     Aux yeux du penseur attendri.
     Domptant tout conflit qui ravage,
     Des fers brisés de l’esclavage,
     Tu sors calme, lo corps meurtri.

Mais l’âme altière et décidée
     A faire triompher l’idée
     D’où naquit le monde romain;
     Toutes filles do mêmo race,
     Soeurs par le force et par la grâce,
     Tes cités se donnent la main.

Elles n’ont qu’un voeu: la patrie!
     Honteuses de la barbarie
     De leur vieille rivalité,
     Elles sentent que leur fortune
     N’est que dans la mère commune,
     Et leur grandeur dans l’unité.

Par un vieillard, par un poëte,
     Voix d’apôtre, âme de prophète,
     Co réveil d’un peuple est béni:
     Et la patriotique joie,
     Comme une auréole flamboie
     Au noble front de Manzoni.


[p. 338 modifica]

De tes destins vivant présage.
     Lui, lo croyant, le doux, lo sage,
     L’home qui n’a jamais failli,
     Il livre son coeur magnanime
     Au soufflé nouveau qui l’anime
     Et qui de Dieu même a jailli.


La poetessa mandò la sua ode al poeta, annunziandogli che essa era per lasciare Milano. Il Manzoni le diresse allora la lettera seguente:

«Madame, des vers comme ceux que vous avez eu la bonté de m’envoyer, et la bonté encore plus grande de m’adresser, m’auraient, dans un autre temps, donné l’envie irrésistible, quoique audacieuse, d’y répondre par d’autres vers; mais à présent il ne me reste plus pour la poésie que la faculté de la goûter: je dis cette poésie qui, sortant du coeur, passe par une imagination brillante et féconde. Et puisque, sur ce sujet, vous pourriez ne pas entendre à demi-mot, je suis forcé d’ajouter que c’est de votre poésie que j’entends parler. Je dois encore ajouter quo j’aurais pout-être exprimé ce sentiment d’un coeur plus libre, avant de connaître les louanges qu’une indulgenco excessive vous a dictées, et contre lesquelles je proteste du fond de ma conscience.

Vous trouverez pourtant des vers, madame, en tournant la page; car je ne puis résister à la tentation de vous transcrire ceux dont j’ai eu l’honneur de vous parler, et dans lesquels j’ai eu lo bonheur de me rencontrer avee vous.

C’était dans un hymne commencé trop tard, et que j’ai laissé inachevé, sitôt que je me suis aperçu que ce n’était plus la poésie qui venait me chercher, mais moi qui m’essoufflais à courir après elle. J’y voulais répondre à ceux qui demandent quel mérite on peut trouver aux vertus, stériles pour la société, des pieux solitaires. Ce n’est que dans les deux dernières strophes que vous trouverez, je l’espère, madame, quelques-unes de vos pensées et de vos images, quoique moins vives; je transcris aussi les deux premiòres, pour l’intelligence de l’ensemble».

.     .     .     .     .     .     ..     .     .          .     .     .     .     .      [p. 339 modifica]Ed ecco i versi:

A Lui che nell’erba del campo
     La spiga vitale nascose,
     Il fil di tue vesti compose,
     De’ farmachi il succo temprò;

Che il pino inflessibile agli austri,
     Che docile il salcio alla mano,
     Che il larice ai verni, e l’ontano
     Durevole all’acque creò;

A quello domanda, o sdegnoso,
     Perchè sull’inospiti piagge,
     Al tremito d’aure selvagge,
     Fa sorgere il tacito fior,

Che spiega davanti a Lui solo
     La pompa del pinto suo velo;
     Che spande ai deserti del cielo
     Gli olezzi del calice, e muor.


La signora Colet riferì la conversazione avuta col poeta, o pubblicò, insieme con la bella lettera manzoniana, questo leggiadro frammento, nella sua opera, così genorosamente inspirata da simpatia per la causa della nostra indipendenza e unità, e così calda d’ammirazione pel sommo poeta del nostro Risorgimento, L’Italie des Italiens (Paris, Dentu, 1862; vol. I, p. 365-76). Li ripubblicarono poi: A. Stoppani, I primi anni di A. Manzoni, Milano, 1874, p. 243-5; R. Bonghi, Opere ined. o rare, I, 201-3; G. Sforza, Epistolario di A. Manzoni, Milano, 1883, II, 233. — Per le molte inesattezze in cui calde la Colet, cfr. S. S[tampa], A. Manzoni, la sua famiglia, i suoi amici, Milano, 1889, v. IT, p. 289 ss. — Una lettera del Manzoni al D’Azeglio, in cui gli presenta la scrittrice, è tra quelle pubblicate da E. Gnecchi, p. 115.

Il Bonghi annotò: «Quale fosse il titolo dell’Inno cui questi versi appartengono, non è detto da lui; ma un suo amico, che ne ricorda un’altra strofa, crede che così queste trascritte dal Manzoni, come quella tenuta a mente da lui; appartengano ad un inno a’ Santi. Che sarebbe quello che nell’autografo degl’Inni ha titolo Ognissanti, ma di cui ivi non esistono se non i motti latini, che vi sarebbero stati scritti per epigrafe ». Non per epigrafe; da essi invece il poeta pare si proponesse di prender le mosse. Eccoli:

in omnibus Christus. (Paul., Col. III, 11)
Multa quidem membra, unum autem corpus. (Cor. 1, XII, 20).
Omnes enim vos unum estis in Christo Jesu. (Gal. III, 28).

La strofa che fu tenuta a mente dall’amico del Manzoni, che era forse il Bonghi stesso o il Rosmini (cfr. D’Ovidio, Rimpianti, Palermo, [p. 340 modifica]Sandron, 1903, p. 69) o più verosimilmente il Rossari (cfr. Irene Comotti, Luigi Rossari; lettere familiari inedite, Milano, 1910, p. 38 e 182-83), suona così:

Tu sola a Lui festi ritorno
Ornata del primo suo dono,
Tu sola più sù che il perdono
L’Amor che può tutto locò.


Essa è, come si vede, una nuova invocazione alla Vergine.

Recentemente (nel 1914), nel tesoretto di Carte Manzoniane dal Pio Istituto milanese pei Figli della Provvidenza ereditato dal figliastro del Manzoni, Stefano Stampa, è stato rinvenuto un assai più lungo frammento di quest’Inno. Ce n’è una trascrizione di mano del Manzoni, con alcune varianti marginali e due cancellature, o quattro di mano della seconda moglie di lui, madre dello Stampa. Su una di queste ultime è annotato: «Copia scritta da Teresa Borri Stampa Manzoni per il mio Stefano» (la sintassi zoppica; ciò che avviene spesso nello lettere di donna Teresa!); su di un’altra: «I versi seguenti saranno tenuti da Peppino e da Giovannino, miei fratelli, saranno tenuti da loro, dico per loro soli soli, o con grande cura che non gli sieno presi, nè sorpresi. Teresa Manzoni Borri Stampa»; e sotto: «Questi versi seguenti furono fatti di A. Manzoni a Lesa, nel 1847». Su di un foglio volante sono ancora trascritti strofette e frammenti di strofe dell’Inno, con la postilla: «Questi versi furono da me Terosa scritti a Lesa, dietro il dettato da (sic) Alessandro che le diceva a mente, ma che non li rammentava interamente. Lesa, 8bre 1857 a sera, presente Stefano e Rossari». L’Inno è pur ricopiato in parto in un fascicoletto, che contieno dell’altro, ed è intestato: Versi inediti di Alessandro Manzoni.

Nella trascrizione di mano del poeta, ch’è quella a cui ci atteniamo, manca il titolo; nelle altre c’è: L’Ognissanti. In tutte manca il principio: cominciano con una serie di puntini. Ma in un fogiio volante di mano di donna Teresa, contenente la «Copia d’un foglio di prove che Alessandro fece», c’è forse, tra alcune Varianti, l’abbozzo d’una o di più strofette che dovrebbero precedere quelle messe in bella copia. Dicono:

E voi che per balze romite
     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     .     
     Del rombo terrestre securi
     Serbaste i silenzi del cor.

Per selve, per cieche caverne
     ... alle voci superne...
     Il core un concerto segreto
     Lor... un sospiro lassù.

A piè di pagina notiamo le varianti e lo sostituzioni. — Cfr De Marchi, Dalle Carte Inedite Manzoniane del Pio Istituto pei Figli della Provvidenza in Milano; Milano, 1914. Anche, nel giornale La Sera del 12 dicembre 1914, il resoconto d’una mia lezione sull’argomento. [p. 341 modifica]

2Cercando col cupido sguardo,
     Tra il vel della nebbia terrena,
     Quel sol che in sua limpida piena
     V’avvolge or beati3 lassù;

Il secol vi sdegna, e superbo
     Domanda qual merto agli altari
     V’addusse; che giovin gli avari
     Tesor di solinghe virtù4.

A Lui che nell’orba del campo
     La spiga vitale ripose,
     Il fil di tue vesti compose,
     Del farmaco i succhi temprò;

Che il pino inflessibile agli austri,
     Che docile il salcio alla mano,
     Che il larice ai verni5, e l’ontano
     Durevole all’acque creò;

A Quello domanda, o sdegnoso,
     Perchè sull’inospite piagge,
     All’alito6 d’aure selvagge,
     Fa sorgere il tremulo7 fior,

Che spiega dinanzi a Lui solo
     La pompa del candido velo,
     Che spande ai deserti del cielo
     Gli olezzi del calice, e muor.

E voi che gran tempo per ciechi
     Sentier di lusinghe funeste


[p. 342 modifica]

     Correndo all’abisso, cadeste
     In grembo8 a un’immensa pietà;

E come l’umor, che nel limo
     Errava sotterra smagrito,
     Da subita vena rapito,
     Che al giorno la strada gli fa,

Si lancia, e seguendo l’amiche
     Angustie con ratto gorgoglio,
     Si vede d’in cima9 allo scoglio
     In lucido sgorgo apparir;

Sorgente già puri, e la vetta10,
     Sorgendo, toccaste, dolenti
     E forti, a magnanimi intenti
     Nutrendo nel pianto l’ardir;

Un timido ossequio non veli11
     Le piaghe che il fallo v’impresse12:
     Un segno divino sovr’esse
     La man, che lo chiuse, lasciò.

Tu sola a Lui fosti ritorno
     Ornata dei primo suo dono;
     Te sola più su del perdono
     L’Amor che può tutto locò;

Te sola dall’angue nemico
     Non tocca nè prima, nè poi;
     Dall’angue, che appena su noi
     L’indegna vittoria compiè13,

Traendo l’obliquo rivolto14,
     Rigonfio e tremante, tra l’erba,
     Sentì sulla testa superba»
     Il peso del puro tuo piè.


Note

  1. Cfr. Ioan. XX, 24 ss.: «Thomas autem unus ex duodecim, qui dicitur Didymus,... dixit eis: Nisi videro in manibus eius fixuram clavorum, et mittam digitum meum in locum clavorum, et mittam manum meam in latus eius, non credam».
  2. Nelle, trascrizioni di donna Teresa, qui in principio è messo un titolo parziale: Contemplatori o Contemplativi, che conviene alle prime sei strofeite. Alle cinque seguenti sarebbe forse stato da premettere: Penitenti; alle ultime tre: A Maria.
  3. Rapiti or v’inonda - contenti
  4. Il mondo con riso superbo Domanda con alto despitto - con riso severo - V’aggiunse; — Immoti in un solo pensiero, Il mondo ai migliori severo, Domanda che feste quaggiù; - Il mondo sogguarda - Domanda che giovi
  5. Il De Marchi stampa: vermi.
  6. Al tremito
  7. il tacito
  8. In braccio
  9. In mezzo [poi cancellato]
  10. la cima [poi cancellato]
  11. celi
  12. In voi dell’antiche ferite Son bollo le margini istesse;
  13. Tutta questa strofetta fu segnata di croce: il poeta si proponeva forse di rifarla.
  14. gli squallidi giri - le squallide spire.