Storia di Torino (vol 2)/Libro V/Capo IV
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Capo Quarto
fondazione. Varie trasmigrazioni della medesima. — Chiesa di San Filippo. Sua costruzione sui disegni del Guarini. Ruina della cupola. Ricostrutta su disegno del Juvara. Descrizione della chiesa. — Beato Sebastiano Valfrè. Ancddoti. — Gambera, vicecurato. — Giambattista Prever. — Anna Maria Buonamici Emmanueli.
Nel 1648 era nunzio apostolico a Torino monsignor Alessandro Crescenzi, di quell’alta famiglia romana che fu tanto divota di S. Filippo Neri. Natogli desiderio di vedere stabilirsi in questa città una congregazione di preti dell’Oratorio, infervorò di questo medesimo sentimento il teologo Pietro Antonio Defera, nato il 21 marzo 1616 in Borgomasino, il quale segnalavasi nell’esercizio dell’apostolico ministero per esimia prudenza e carità. Serviva allora il Defera la chiesuola di San Michele, dove ebbero in diversi tempi temporaria stanza gli Agostiniani scalzi ed i Teatini, e per maggiore spazio i Trinitarii. Colà espose il Defera un quadro di S. Filippo datogli da monsignor Crescenzi; e l’aria venerabile ad un tempo e piena di santa dolcezza e di pia letizia di quel gran servo di Dio, e le informazioni che propagava il Defera circa il sublime grado di santità cui era pervenuto, eccitarono subitamente la devozione dei fedeli. Veduto sì buon principio, il padre Defera più non indugiò a chiedere all’arcivescovo le necessarie facoltà per fondare in Torino la congregazione dell’Oratorio, ed avutele, il dì 26 gennaio del 1649 aperse un piccolo oratorio in una bottega della casa Blancardi, che tolse a pigione vicino a San Francesco d’Assisi. Gli fu compagno in tal impresa il padre Ottaviano Cambiani di Savigliano, il quale, evirato sin dall’infanzia, e perciò destinato al canto, era stato ammaestrato nel collegio di Sant’Apollinare a Roma, a spese del cardinal Maurizio di Savoia, che lo ebbe di poi per suo musico di camera.
Avuta notizia del pio disegno del padre Defera, il Cambiari, di musico vanarello che era stato fin allora, si cambiò in uomo apostolico, e volle rendersegli compagno in una fondazione che cominciavasi senza danari, senza operai, senza umani soccorsi. Questi due padri furono le pietre angolari dell’Oratorio torinese. A predicare e confessare era solo il padre Defera. Il Cambiani orava, facea letture spirituali, diceva corone, cantava laudi e mottetti con una soavità di paradiso, parava e nettava la chiesa, andava per le strade cercando scioperati e fanciulli, e conducevali ai divoti esercizi dell’Oratorio.
Grande fu la frequenza, non del popolo solamente, ma di persone di condizion rilevata, agli esercizi dell’incipiente Oratorio torinese. Inestimabili perciò furono le fatiche del padre Defera, su cui ne ricadeva tutto quasi il peso; ed egli soccombendovi l’ 11 di settembre del 1650, in età di trentaquattr’anni rendette lo spirito a Dio. I sei convittori che seco avea raccolto l’illustre fondatore, vedutolo morire, e sapendo che il padre Cambiani non avea dottrina sufficiente per predicare e confessare, si dispersero, giudicando che quell’instituto non potesse più mantenersi. In grandi angustie d’animo, in sommi travagli di spirito si trovò il padre Cambiani, ma non disperò; e nell’anno seguente Dio ne premiò la fede e la perseveranza, poichè nel 1651 entrarono a comporre la congregazione Sebastiano Valfrè, allora suddiacono, che fu massimo ornamento dell’Oratorio torinese; poi Bonifacio dei conti di Buronzo, che ne fu il primo preposito, e i padri Ceresia ed Ormea, tutti soci del collegio Teologico della nostra università. Un anno dopo Panale Lorenzo Scotto li tolse alle angustie della casa Blancardi, ed assegnò all’Oratorio torinese una sua casa posta nel borgo di Po, a non molta disianza dalla porta Castello, sulla linea della chiesa di San Tommaso, allato ed al nord dello Spedale di Carità, e così a un dipresso nella casa già Cumiana, ora Colli, via Bogino.1
L’anno vegnente desiderando Madama Reale di vedere i preti dell’Oratorio stabiliti entro al recinto della città, luogo più conveniente ai loro esercizi, operò sì, che il Consiglio civico diede loro ad ufficiare la chiesa del Corpus Domini.
A’ 4 di dicembre 1653 andarono con gran pompa i decurioni a cercare i padri alla loro chiesa del Borgo, e posto ciascuno dei padri in mezzo a due decurioni, li accompagnarono processionalmente alla chiesa del Corpus Domini, dove a rendere più solenne la cerimonia intervenne Madama Reale col giovane duca.
Ma non era questa la sede che la Provvidenza riservava all’Oratorio di S. Filippo; imperocchè la casa stata loro assegnata era così piccola ed umida, che per niun modo i padri vi poteano abitare; onde conveniva che andassero a mangiare e a dormire nella casa del borgo. Cola pertanto si risolvettero di far ritorno sul fine del 1654; e il dì dell’Epifania dell’anno seguente cominciarono ad ufficiare la chiesetta che la pietà del principe Maurizio di Savoia aveva loro edificata.
Mandava intanto vivi splendori di santità la nascente congregazione, sicchè veniva richiesta di dedur colonie a Chieri ed a Racconigi. E ne’ Torinesi vieppiù crescea la stima de’ padri, e s’accendea la divozione a S. Filippo, massime per una corona ch’ei solea recitare, e che si portava con felice successo ai malati, come ancora si porta.
Desideravano pertanto i Torinesi, non meno che i padri, che l’Oratorio di S. Filippo potesse trasferirsi entro le mura. Rivolsero questi l’animo ad ottener la cessione della chiesa parrocchiale di Sant’Eusebio. Era la medesima di patronato dei signori della Rovere, nobilissima stirpe che allora stava per estinguersi nelle persone del marchese Carlo, e d’un suo fratello scemo di mente.
Lunga ed aspra fatica fu l’ottenerne il consenso. Impossibile d’ottener quello del rettore d’essa parrocchia. Finchè uscito il medesimo di vita, e succedutovi l’abate Pier Gioffredo di Nizza, illustre scrittore, stato poi precettore dei Reali principi,2 si mostrò esso tanto amico e condiscendente verso i Filippini, quanto ritroso ed avverso erasi mostrato il predecessore. Onde si potè finalmente conchiuclere il negozio nel 1667.3
Era la chiesa parrocchiale di Sant’Eusebio molto ristretta e negletta. Neppure un momento indugiarono i Filippini a cominciare lavori d’ampliazione, e li spinsero con tale alacrità, che nella settimana santa del 1668 poterono cominciarvi i divini uffizi. Nella quale occasione il padre Valfrè volle di pien giorno portare, coll’aiuto d’alcuni novizi, sopra le proprie spalle il quadro di S. Filippo dal borgo di Po alla chiesa di Sant’Eusebio.
Ma non era questa ancor la mansione in cui Dio voleva collocare i Filippini di Torino. In giugno del 1675 venne a morte in età ancor verde Carlo Emmanuele ii, e volle in quel punto l’assistenza dei padri Valfrè ed Ormea. Ad essi legò verbalmente un sito di due giornate nel nuovo ingrandimento di Torino, per costrurvi la chiesa, la casa e Toràtorio, il qual dono fu, poco dopo la morte del principe, ridotto in forma legale dalla vedova reggente Madama Maria Giovanna Battista. A’ 17 settembre dell’anno medesimo, cento anni appunto dacché S. Filippo aveva incominciato la sua chiesa della Vallicella, ne fu posta dalla medesima principessa la prima pietra con questa iscrizione:
M. IOANNA BAPTISTA
ALLOBROGVM DVCISSA CYPRI REGINA
VICTORII AMEDEI II MATER ET TVTRIX
CAROLI EMMANVELIS II CONIVGIS AMANTISSIMI
IMMORTALITATI CONSVLENS ET VOTA PROSEQVENS
TEMPLVM ET DOMVM CONGREGATIONIS ORATORII PRAESBYTERORVM
PIISSIME FVNDABAT
ANNO 1675 DIE 17 SEPTEMBRIS.
La chiesa di Sant’Eusebio fu poi alienata alla confraternita di S. Maurizio (1678). Si esaminarono varii disegni per la nuova fabbrica, e s’approvò quello d’Antonio Bettini, architetto luganese. L’Oratorio e la casa che guarda al meriggio furono probabilmente costrutte secondo il piano da esso imaginato. L’Oratorio si cominciò ad uffiziare nell’autunno del 1678. Ma l’anno seguente, abbandonato il disegno del Bettini, se ne abbracciò un altro sontuosissimo del padre Guarino Guarini, che si ha inciso tra i suoi disegni, e che si distingueva per una cupola maestosa.
L’impresa era di gran dispendio, e non poteva compiersi in breve spazio di tempo. Ma chi misura collo spazio della propria vita la dimensione delle opere che intraprende, non produrra per lo più che pigmei e sconciature. In ogni cosa l’importanza è di cominciar bene. Chi comincia bene, lega alle età che succedono l’obbligo di continuare e di finire. Che importa che vi vogliano due o più generazioni? Gli individui si rinnovano, ma la società rimane; la catena degli esseri non s’interrompe. L’opera, dirò così, mondiale continua, e continuerà sino alla consumazione di quel gran fatte, composto di una serie inenarrabile di fatti e d’accidenti, che Dio ha prestabilito, a cui ciascuno, volente o non volente, ed insciente coopera; a cui i buoni soltanto cooperano regolarmente ed utilmente nel senso dell’ordine, che è la sola forse che Dio ci abbia rivelata delle leggi arcane, con cui l’adorabile sua provvidenza governa questa gran macchina dell’universo.
Ma torniamo ai Filippini.
Nel 1714 progrediva lentamente e maestosamente la fabbrica della chiesa. Era voltata la cupola, lastricato di marmi il Sancta Sanctorum. La fama di santità che risplendeva sul sepolcro di Sebastiano Valfrè (morto in gennaio del 1710), apriva lutti i cuori alla beneficenza, quando, alle ore tredici italiane del 26 d’ottobre, dopo quindici giorni di pioggia, la gran cupola cadendo rovinò tutta la fabbrica, sicchè non rimasero intatte che le mura del presbitero.
Adorarono i preti dell’Oratorio la volontà divina che li colpiva così crudelmente; ma confidando in essa, s’accinsero incontanente a riparare tanta rovina; ed avuto un nuovo disegno da don Filippo Juvara, rifabbricarono il sacro tempio.4 Cinquant’anni impiegaronvi que’ padri; a’ 26 maggio del 1772 vi si disse la prima messa; dico la prima che si dicesse dopo compiuta la fabbrica della chiesa, poichè fin dal 1722 s’uffiziava il presbitero colle due prime cappelle, che un muro separava dalla parte che s’andava costruendo.
La congregazione dell’Oratorio torinese fu disciolta per decreto del governo repubblicano del 13 d’aprile 1801, ma ne rimasero alcuni ad uffiziar la chiesa. La casa fu destinala più tardi a quartiere dei Veliti imperiali. De’ primi ad essere congedati, furono anche i preti di questa congregazione primi ad essere reintegrati; il cavaliere don Pietro Borghese, decurione della città di Torino, uomo di specchiatissima religione e di somma prudenza, andando a Genova nel maggio del 1814, a far omaggio al re Vittorio Emmanuele, portò seco il memoriale de’ padri superstiti. Ed il buon re da Alessandria ne die favorevol rescritto, a cui fu data esecuzione in settembre dell’anno medesimo.
Nel 1823 i Filippini fecero terminare le due cappelle di San Lorenzo e di San Filippo, e costrurre di marmo l’altare di quest’ultima. Con grande sollecitudine e dispendio promossero la causa della beatificazione del beato Sebastiano Valfrò, la cui festa solenne si celebrò nella Basilica Vaticana il 31 d’agosto 1834; e in San Filippo a Torino il 30, 31 di maggio, e 1° giugno dell’anno seguente, nella qual occasione S. E. il cavaliere Provana di Collegno costrusse l’altare marmoreo nella cappella del nuovo Beato; il canonico prevosto Enrico Ruffino di Gattiera die’ l’urna, in cui si collocò il benedetto suo corpo; il padre Girò della stessa congregazione dell’Oratorio, sopperì a parte della spesa pel quadro, che fu allogato ad un egregio pittor nazionale.
Frattanto la congregazione, con aiuti dati dal Re e dalla Città, e col dono spontaneo di lire 35ꞁm., fatto dal banchiere cavaliere Cotta, continuò l’opera della facciata, che la pubblica tiepidezza lascia ancora incompiuta; e costrusse al nord della chiesa una nuova grandiosa sagrestia; regolando tutti questi lavori il cavaliere professore Talucchi, gratuitamente, come ha sempre fatto quando fu richiesto di disegni o di direzione per pubblici edifìzi.
L’altar maggiore di questa chiesa, maestoso sopra molti dei più belli d’Italia, e ricco di marmi, è frutto della pietà d’Emmanuel Filiberto, principe di Carignano, che vi facea lavorare negli ultimi anni del secolo xvii; si terminò nel 1703. La gran tavola raffigurante Maria Vergine col Bambino, S. Giovanni Battista, Sant’Eusebio, il beato Amedeo, la beata Margarita di Savoia, è opera di Carlo Maratta, nobile e grazioso pittore, che solo a’ suoi tempi sostenne l’onor dell’arte a Roma. Le statue in legno sono di Carlo Plura. Lavori di mirabile leggiadria sono i puttini intagliati nelle tribune da Stefano Maria Clemente.
Nel terzo altare a destra di chi entra, che s’intitolava a San Lorenzo, eravi un bel quadro del Trevisani, trasportato poi nella prima cappella dalla medesima parte: ora si denomina dal beato Sebastiano Valfrè, e la tavola che rappresenta questo figliuolo dell’Oratorio torinese in gloria colla Vergine Santa, di cui tanto concorse a propagar la divozione, è del celebre Ferdinando Cavalieri.
Di questo eroe dell’Oratorio torinese, che primo dopo il santo fondatore Filippo meritò l’onor degli altari, si ha una copiosa vita stampata,5 che va per le mani d’ognuno; e ciò mi dispensa dall’esporre in questo luogo le eminenti virtù per cui tanto rilusse, e così utilmente influì colla parola non meno che coll’esempio sull’intera citta in fatto di religione e di costume. Dirò invece cosa poco nota, ma pur verissima; ed è l’apostolica libertà con cui, ricercato da Vittorio Amedeo ii, se sapesse indovinare la significazione di quell’antico motto della casa di Savoia FERT, su cui correano tante diverse interpretazioni, rispose che sì; ed interpretollo: Femina Erlt Ruina Tua. Il principe che aveva in somma venerazione il padre Valfrè, e che ben sapeva dove quelle parole andavano a ferire, replicò con maggior confusione che sdegno: Dunque per me non vi sarà salvezza? Sì, soggiunse il padre, ma le converrà passare per una grande tribolazione.6 E così appunto fu.
Trovandosi poi il Beato in punto di morte, nella cameretta ora convertita in cappella, in quella parte della casa che guarda al meriggio, nella via di San Filippo, ed essendo il duca andato a vederlo, n’ebbe esortazione di alleggerire le pubbliche gravezze divenute eccessive per le continue guerre, e di tenersi amico della sede apostolica, centro della cattolica unità.7
L’altare che gli sta di fronte ha una tavola che rappresenta S. Filippo in estasi, ed è del Solimene. Nell’attigua cappella il S. Giovanni Nepomuceno è del cavaliere Conca suo discepolo; ma la Vergine fu dipinta dal Giaquinto. Le statue degli Apostoli, disposte per le cappelle, e le due Virtù della cappella della Concezione, sono del Clemente.
Nell’Oratorio la tavola della Concezione è opera di Sebastiano Conca. Il fresco del vôlto, di Gaetano Perego. I quattro maggiori quadri delle pareti, l’Annunziata, l’Assunta, la Visita a Santa Elisabetta, e la Presentazione al tempio, sono dipinti di Giovanni Conca, fratello ed aiuto di Sebastiano, egregio in trar copie d’antichi maestri.
L’altare fu rinnovato nel 1796, e consecrato il 10 settembre di quell’anno da monsignor Mossi.8
In una cappella interna allato al presbitero, dal lato del Vangelo, si vede effigiato in cera il volto di S. Filippo morto, tolto dal vero, lmagine di beato riposo, e non di morte è quel caro e venerevol sembiante di chi servì al Signore in santa letizia ammaestrando, soccorrendo, edificando il prossimo, ma che mentre commendava la pia allegrezza, riprovò lo spirito buffonesco, che cercando in ogni cosa un lato solo e il men degno per cavarne il riso, predispone alla leggerezza, e finisce per falsare il criterio.
Ampli e belli sono i sotterranei della chiesa e del chiostro, in una parte de’ quali si vedono i sepolcri. Fra essi distinguonsi quelli della principessa Anna Vittoria di Savoia Soissons, duchessa di Sassonia Hildburghausen, nipote del principe Eugenio, morta l’ 11 d’ottobre 1765, d’anni ottanta, e dei padri Defera, Ormea e Prever già lodati; non che quelli di don Giovanni Tommaso Gambera, vicecurato di Sant’Eusebio, e d’una semplice contadina penitente del beato Valfrè, illustrata da Dio con grazie speciali, Anna Maria Bonamico.
Giovanni Tommaso Gambera era nato a Fossano nel 1707. Venuto a Torino, fu maestro in casa dei conti della Villa e Provana di Collegno. Modestissimo ufficio che in molti fu scala a sublimi onori. Il Gambera visse e morì vicecurato di Sant’Eusebio; ma niuna carica più eminente rifulse mai di tanto splendore come questa mentre fu dal Gambera esercitata. Egli era tutloa tutti; con sembiante or lieto e modesto, ora velato di tristezza e di compassione, entrava nelle case secondo la varia missione che avea, assisteva li infermi poveri nelle stalle, nelle scuderie, nelle strade, tra il sucidume più schifoso, facendoli scopo non solo di carità, ma di tenerezza, passando al loro fianco le intere notti. Tutto quello che avea, tutto ciò che di limosine poteva raggranellare ei dava ai poveri. Udiva e soccorreva ogni uomo. Portava di notte ai poveri vergognosi pane, vino e legna. Toglieva il carico di mantenere intere famiglie, di far allattar bambini; forniva gli artigiani poveri di stromenti e ordigni del loro mestiere; non guardando mai se fossero della parrocchia o no, del paese o forestieri, purchè fossero bisognosi. Il che pur troppo è virtù rarissima. Zelator sommo della castità, avviluppato come in un usbergo nella coscienza del proprio dovere, era intrepido contro ai seduttori ed agli scandalosi; sicchè corse più volte pericolo della vita. Serviva il buon sacerdote, mondava, medicava gli ammalati i più schifosi, anche gli affetti da lebbra o da altre malattie cutanee. Egli stesso girava di notte a destar medici, a far aprir bottega agli speziali. E quest’uomo così caro, così buono, così dolce col prossimo, era altrettanto duro, rigido, crudele con se medesimo, poichè mangiava e dormiva pochissimo, e maceravasi con rigori continui di penitenza.
Morì l’uomo apostolico il 23 d’aprile 1763 di anni cinquantasetle. Fu riaperta la cassa in dicembre dell’anno medesimo, e fu trovato il corpo intero, flessibile, senza alcun cattivo odore.9
Anna Maria Buonamici era nata in Sommariva del Bosco in luglio del 1620. Fu per tutta quasi la vita di complession debolissima, travagliata da crudeli infermità, dipendenti come poi si vide da vizi organici e congeniti, a cui s’aggiunsero persecuzioni de’ parenti, del proprio marito (Emmanueli), nere calunnie, maldicenze atroci. Ed ella affinando in quel crogiuolo la propria virtù, penetrò tanto avanti nella scienza delle cose di Dio, nell’esercizio delle più rare perfezioni, che il padre Valfrè, di cui fu lunghi anni penitente, e fra le cui braccia morì il 14 novembre del 1673, la chiamava la sua maestra di spirito. In preda ad anomalie nervose, Anna Maria avea frequenti visioni spirituali che, ora la consolavano, ora la rattristavano, secondo gli oggetti che le comparivan dinanzi; ma il più delle volte erano tutte celesti, e raddoppiavan la brama ch’ ella avea di riunirsi al suo Dio.
Se fossero vere visioni, od allucinazioni nervose che s’improntavano delle imagini solite a destarsi nella sua mente, appartiene alla Santa Sede il definirlo. Noi noterem solamente che appunto per queste visioni il prudentissimo beato Valfrè solea mortificarla e maltrattarla anche in pubblico, dandole sempre a divedere che la teneva in bassissima stima, ma la ritrovò costantemente figliuola d’umiltà ed obbedienza.
Così universale era la fama di santità di questa serva di Dio che il processo di beatificazione fu cominciato fin dal 1678, e che qualche anno dopo morendo la marchesa Bevilacqua Villa, dama d’insigne pietà, volle esser sepolta appiè d’Anna Maria, le cui ossa erano intanto state trasferite dalla chiesa di Sant’Eusebio nella nuova chiesa dei padri dell’Oratorio.
Lo stesso beato Valfrè descrisse le memorie della vita della onoranda sua penitente, le quali vennero nel 1762 ordinate, ampliate e pubblicate da un prete della medesima congregazione.
Il padre Giambattista Prever, nato nel 1684 in Giaveno, era stato prima canonico di quella collegiata, poi era entrato nella congregazione dell’Oratorio. Scgnalatissimo nell’esercizio delle virtù cristiane, banditore zelantissimo della divina parola, fu singolarmente privilegiato di grazie straordinarie, d’una penetrazione sovrumana, d’una piacevolezza insieme e d’una efficacia rarissima nel difficile ministero della confessione. Con poche parole che avean fattezze di argute, ed eran profonde, snodava i cuori più indurati. Stendea le braccia amorose ai peccatori più incalliti nel vizio, più ostinati nel rifiuto de’ sagramenti, e li stringeva al petto, e col volto, e cogli sguardi, e co’ detti in un subito togliea loro ogni confusione, li ricreava, li confortava, dava l’adito alla speranza. Così potente era la sua influenza sui cuori, che dai primarii personaggi dello Stato fino a quegli sciagurati che espiavano sul patibolo i misfatti, tutti voleano confessarsi da lui. Quando correa qualche festività, dall’alba al meriggio, dalle prime ore pomeridiane fin verso la mezzanotte, egli stava confessando in chiesa, in camera, sempre paziente, sempre soave, sempre uguale col primo come coll’ultimo, senza precipitazione, senza affanno. Racconta lo scrittore della sua vita, testimonio oculare, che un giorno dopo d’aver confessalo in chiesa tutta la mattina, appena preso poco cibo, fu assediato in camera dai penitenti.
Il corridoio inferiore della casa della congregazione era pieno di penitenti; pieno il corridoio superiore. Una gran massa ve ne avea di stipati contro la porta della camera; il padre Prever era obbligato, uscendo un penitente, ad accompagnarlo perchè potesse trovar la via, e per farne entrar dentro un altro. Al suo comparire gridavano molti: misericordia; e per essere preferiti, posposto ogni rossore, gridavano: Padre, ascolti me che sono cinque, sette, vent’anni che non mi son confessato.
Padre Prever rimandava tutti consolati, e di tutti quasi i suoi penitenti sperava l’eterna salvezza, fuorchè d’alcuni che dell’opere spirituali credeano farsi velo e scala ad intenti mondani; di costoro, come d’uomini che professavano il sacrilego ed impossibil mestiere di gabbadio, dubitava molto il buon padre, e procurava ad ogni potere di spedirsene.
Abbiamo già indicata la morte di quest’insigne Filippino seguita sul pulpito di San Giovanni.
Eccone ora i particolari. Già nel giorno precedente e nella mattina del giorno medesimo avea egli detto parole che, se non dinotavano espressamente la sua morte, accennavano almeno che qualche caso straordinario segnalerebbe quel giorno, anniversario di quello in cui era stato laureato ed avea ricevuto l’ordine del sacerdozio. Lunedì 8 febbraio 1751, alle ore quattro pomeridiane salì tutto lieto nella carrozza che gli avea mandato l’arcivescovo, e disse ai circostanti con quel suo piglio faceto che gli era famigliare: Guardate come la sposa va bene in carrozza. Giunto alla Metropolitana, dov’era parte della Real Corte coll’arcivescovo, pigliò la benedizione dal prelato, e salì sul pulpito. Proposto il testo di S. Paolo opportunissimo per l’apertura del giubileo: Adeamus cum fiducia ad thronum gratiae ut misericordiam consequamur, parlò proemizzando della misericordia di Dio con tanto impeto di carità, che egli stesso piangeva e piangevano gli uditori. Finito l’esordio, fatta la divisione dell’argomento, cominciò la prima parte colle parole: Variis et miris modis vocat nos Deus, che pronunziò con voce sì forte, che furono udite da tutti gli angoli del vasto edifìzio; arrestossi allora un momento come chi sta sopri pensiero, poi si piegò verso il crocifisso, e raccolto in braccio da un fratello che il serviva, in tre o quattro minuti spirò primachè il popolo n’avesse il menomo indizio. Come si seppe, un susurro misto di singhiozzi e di lagrime s’udì per la chiesa. Tutti gli argomenti dell’arte s’adoperarono sul pulpito stesso e nella camera in cui fu trasportato attorno al padre Prever; ma tutto indarno; onde posto in bussola, fu trasportato con seguito di immensa calca di popolo addoloralo e piangente all’Oratorio; dove tutto ciò che la divozione, anche indiscreta, può imaginare, fu praticato attorno al corpo, al confessionale, al muro a cui il confessionale s’appoggiava, alla camera che abitava, tantoché fu necessaria numerosa soldatesca ad impedir ulteriori disordini. In tanto concetto di santo era tenuto universalmente il buon padre Prever.10
Rari appresso a noi, giova il ripeterlo, erano ancora que’ tali che in ogni abito religioso credono veder un mantello all’ombra del quale si goda del ben di Dio senza far nulla; a cui nulla giova mostrare i parchi desinari e le parche cene, i digiuni e le astinenze, l’alzarsi mattutino e il faticar continuo, orando, meditando, insegnando, predicando, amministrando i sacramenti, combattendo per la fede, sormontando vergogne, calunnie, pericoli, impegnandosi per guadagnar un’anima, com’altri farebbe per la conquista d’un regno; a cui nulla giova richiedere qual alta mercè temporale può compensare que’ prodi religiosi degli stenti durati, della sanità logorata, de’ mondani diletti posti in disparte, degli onori ricusali, se non fosse un premio di consolata coscienza pel bene operato, una speranza di maggior premio avvenire; d’un premio che li giunga a quel punto in cui l’anima libera e abbandonata a se stessa comincia a comprendere il gran mistero dell’essere, a sciorre il nodo del dramma in cui attrice involontaria ha concorso a sostener una parte. Nulla persuade cotestoro, che indulgentissimi per sé, sono rigidissimi nel giudicare i ministri del santuario; e da un che manchi precipitano il giudizio a crederli tutti colpevoli; e ora vorrebbono (cosa impossibile) che il clero nulla ritraesse del popolo; e che indossando l’abito religioso, tutta spogliasse l’umana fralezza; ora si lagnano che non abbiano i religiosi viscere di cittadino; ora si dolgono di non trovarli agevoli; ora di trascuratezza li riprendono e di lassa morale, e se un vizio azzeccano in uno, non badano che quel vizio sia compensato da molte virtù, ma in tutto malvagio lo giudicano ed impostore. Pochi, ben si sa, sono perfetti. Molti sono assai men che perfetti. Ma li troverete grandemente virtuosi, o rigidi Catoni, quando posta giù ogni passione, e considerandone bene addentro i portamenti, scendiate a paragonarli co’ vostri.
So che queste parole da alcuni mi si apporranno a colpa; ma io, che pur mi confesso minore a troppi uomini d’ingegno e di dottrina, io con pochi fo professione di dir quel che sento liberamente, come uomo che non ha servito e non servirà mai a niuna setta; ne usa cortigiania a potenza di grado o di opinione, ma solo all’augusta verità.
Abbiamo già accennato l’ampio spazio soggetto alla giurisdizione della chiesa di Sant’Eusebio (S. Filippo). Sono staccate dalla medesima in tutto od in parte le giurisdizioni delle parrocchie di Santa Teresa, di San Carlo, della Madonna degli Angioli, di San Francesco di Paola, della Crocetta e del Lingotto.
I fratelli dell’Oratorio diretti dai padri si recano ogni domenica all’ospedale di S. Giovanni a governare i letti degli ammalati ed a pettinarli, impiegandosi in altri bassi uffici di carità, e li forniscono ad epoche determinate di biscottini e di fìaschetli di buon vino.
La biblioteca della congregazione ha avuto principal fondamento nella libreria stata alla medesima donata nel 1744 dall’abate Ignazio Balbis di Vernone, principe dell’Accademia degli Uniti, del quale ivi si conserva, in segno di gratitudine, il ritratto.
Notabili sono in via di S. Filippo varii palazzi: prima quello del marchese di S. Marzano, posto di fronte alla chiesa, architettura del capitano Garoe, con variazioni ed abbellimenti del conte Alfieri e dell’architetto Martinez. In questo palazzo, la sera del 18 d’aprile 1842 il principe Felice Schwarzemberg, inviato straordinario e ministro plenipotenziario di S. M. l’Imperator d’Austria, dava uno splendido ballo onde onorare le auguste nozze di S. A. R. Vittorio Emmanuele, duca di Savoia, principe ereditario, colla serenissima imperiale arciduchessa Maria Adelaide.11
L’architettura del palazzo dei principi della Cisterna è opera del conte Dellala di Beinasco.
Il palazzo che già appartenne ai conti di Carpenetto presso piazza Carlina, era stato restaurato dal Bonvicini.
Note
- ↑ [p. 627 modifica]V. Theatrum Statuum ducis Sabaudiae.
- ↑ [p. 627 modifica]Pier Gioffredo, d’Antonio, nacque in Nizza il 16 d’agosto 1629. Fu ordinato sacerdote il 20 settembre 1653; nel 1658 pubblicò l’opera Nicaea civitas sacris monumenlis illustrata, che gli procacciò gran nome.
Il 20 marzo 1663 fu nominato istoriografo del duca di Savoia. Due anni dopo fu eletto rettore di Sant’Eusebio in Torino. Nel 1673 fu nominato sotto precettore ed elemosiniere di Vittorio Amedeo ii. Precettori erano l’abate Tesauro e il padre Giuglaris, gesuita. Ma pare che il peso principale fosse del Gioffredi. E diffatto ne’ titoli posteriori è sempre chiamato, non sotto precettore, ma precettore. Il 31 dicembre 1674, essendo per la morte del protomedico conte Tonini, rimasta vacante la carica di bibliotecario ducale, venne la medesima conferita similmente al Gioffredi. Ai 16 di maggio del 1679 venne egli decorato della croce de’ Ss. Maurizio e Lazzaro. Nel 1677 il Gioffredi era stato aggregato alla cittadinanza Torinese. Si dice nel diploma ch’egli stava per pubblicare la Relazione delle moderne parti più ragguardevoli di questa metropoli. Questo lavoro non è stato pubblicato, ed io non so se il ms. ne sia a noi pervenuto. Da tal diploma appare ancora che il Gioffredi era dottore d’ambe leggi e canonico della Trinità. La sua infievolita salute e la grand’opera che stava scrivendo col titolo di Storia dell’Alpi marittime, lo fecero risolvere di ricondursi alla mite sua patria. Colà gli giunsero nuovi segni del regio favore, essendogli nel 1688 stata conferita la badia di S. Giovanni d’Aulps, che permutò nel 1689 con quella di S. Ponzio. Morì a Nizza l’ 11 novembre 1692, e fu sepolto nella chiesa di San Ponzio. V. Gazzera, Notizie dell’abate Pier Gioffredo.— Hist. patriae monumenta. - ↑ [p. 628 modifica]Breve del 14 settembre 1667.
- ↑ [p. 628 modifica]V. Agliaudo di Tavigliano, Modello della chiesa di San Filippo per li padri dell’Oratorio di Torino, inventato e disegnato dall’abate e cavaliere don Filippo Juvara.
- ↑ [p. 628 modifica]Pubblicata dal padre Marini dell’Oratorio nel 1748. Se ne conserva anche una vita ms. del Gallizia.
- ↑ [p. 628 modifica]Da memorie sincrone nell’Archivio del conte Balbo.
- ↑ [p. 628 modifica]Storia della congregazione dell’Oratorio di Torino, ms. presso l’egregio padre Angelo Girò, preposito di detta congregazione.
- ↑ [p. 628 modifica]Nota del Vernazza, ms. nella Guida di Torino.
- ↑ [p. 628 modifica]Boschis, Ragguaglio della vita e della morte del prete don Giovanni Tommaso Gambero, vicecurato di Sant’Eusebio. Torino 1764. — Della comunicazione di questo libro, non che d’altri libri e ms. riguardanti l’Oratorio di S. Filippo, rendo il giusto merito alla cortesia del padre curato Derossi, e del padre preposito Girò.
- ↑ [p. 628 modifica]V. la sua vita scritta da un padre dell’Oratorio di Torino^ suo confidente (presso i padri di detto Oratorio). Diverge questo racconto in qualche minuta particolarità da quello da noi registrato a pag. 388, sulla scorta del Diario del Carmine; ma questo del biografo Filippino merita maggior fede.
- ↑ [p. 628 modifica]Le feste Torinesi dell’aprile mdcccxlii.