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412 | storia della letteratura italiana |
— Io ti giuro sopra la fede mia che mi è uscito... tutto l’amor di corpo, e della vedova non mi curo piú niente... Oh che vecchia paura ebbi io per un tratto! e’ mi si arricciano i capelli quando vi ci penso. Sicché pertanto licenzia e ringrazia Zoroastro. — Lo Scheggia, udite le di colui parole, diventò piccino piccino...; e, parendoli rimanere scornato, cosi gli rispose dicendo: — Oimè, Gian Simone, che è quello che voi mi dite? Guardate che il negromante non si crucci. Che diavol di pensiero è il vostro? Voi andate cercando Maria per Ravenna: io dubito fortemente che, come Zoroastro intenda questo di voi, che egli non si adiri tenendosi uccellato e che poi non vi faccia qualche strano giuoco. Bella cosa e da uomini dabbene mancar di parola!... Tanto è, Gian Simone, egli non è da correrla cosi a furia: se egli vi fa diventar qualche animalaccio, voi avete fatto poi una bella faccenda. — Colui era giá per la paura diventato nel viso come un panno lavato, e, rispondendo allo Scheggia, disse: — Per lo sangue di tutt’i martiri, che fo giuro d’assassino che domattina, la prima cosa, io me ne voglio andare agli Otto, e contare il caso, e poi farmi bello e sodare: non so chi mi tiene che io non vada ora. — Tosto che lo Scheggia senti ricordare gli Otto, diventò nel viso di sei colori, e fra sé disse: — Qui non è tempo da battere in camicia; facciali che il diavolo non andasse a processione! — E, a colui rivolto, dolcemente prese a favellare e disse: — Voi ora, Gian Simone, entrate bene nell’infinito, e non vorrei per mille fiorini d’oro in benefizio vostro, che Zoroastro sapesse quel che voi avete detto. Oh, non sapete che l’uffizio degli Otto ha potere sopra gli uomini e non sopra i demòni? Egli ha mille modi di farvi, quando voglia gnene venisse, capitar male, ché non si saperrebbe mai. —