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xii - il cinquecento | 403 |
tormentano e si dolgono che non risponda e non li ami e li dimentichi, gli viene la stizza:
Perché in ’ammazzi con le tue querele, Priuli mio, perché ti duoli a torto, che sai che amo piú te che l’orso il miele? Sai che nel mezzo del petto ti porto serrato, stretto, abbarbicato e fitto, piú che non son le radici neH’orto. Se ti lamenti perché non ti ho scritto... |
E qui si calma la stizza, e vince la pigrizia; e la lettera finisce con un «eccetera». Benedetta pigrizia, che lo fa parlare «come gli viene alla bocca» e gli fa scriver lettere che sono «un zucchero di tre cotte», intarsiate di brevi motti latini per vezzo, le piú saporite e semplici e disinvolte in quel tempo de’ segretari, che se ne scrissero tante e cosi sudate! E non bastava che dovesse scriver lettere per forza, ché volevano da lui anche i capitoli e i sonetti con la coda. — Fateci un capitolo sulla primiera! —
Compare — scrive il poveruomo, — io non ho potuto tanto schermirmi, che pure mi è bisognato dar fuori questo benedetto capitolo e comento della primiera; e siate certo che l’ho fatto non perché mi consumassi di andare in stampa né per immortalarmi come il cavalier Casio, ma per fuggir la fatica mia e la malevolenzia di molti che, domandandomelo e non lo avendo, mi volevono mal di morte. Avendoglielo a dare, mi bisognava o scriverlo o farlo scrivere; e l’uno e l’altro non mi piaceva troppo, per non mi affaticare e non mi obligare.
Eccolo dunque costretto a fare il capitolo e poi a stamparlo, eccolo immortale a suo dispetto. E scrisse sulle anguille, i cardi, la peste, le pèsche, la gelatina, e sopra Aristotile, il quale
ti fa con tanta grazia un argomento, che te lo senti andar per la persona fino al cervello e rimanervi drento. |
Cosi venner fuori capitoli, sonetti, epistole, dove vivono eterni i capricci e i ghiribizzi di un cervello ozioso e ameno.