Dialoghi/I capricci del bottaio
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I CAPRICCI DEL BOTTAIO Al molto onorando Tommaso Baroncelli
AMICO SUO SINGOLARISSIMO.
Avendo a’ giorni passati, carissimo Tommaso, per un semplice slogamento di capricciosi pensieri, rimesso insieme gli ultimi due dialogi del nostro Giusto; e essendo pregato da alcuni amici, e particularmente 5 dal nostro Torrentino, che io dovessi accompagnarli a gli altri, e dargli tutti a lui, come io feci non molti giorni sono tre lezioni, gli ho ridotti tutti a dieci nel presente volume. E cosí come da me nel principio ad instanzia vostra e vostro passatempo furono ritratti; e da chi ve gli tolse poi, per alleggerire il furto suo, piú d’una volta come cosa vostra io vi furono indrizzati; cosí adesso ritornano a voi per quella stessa mano che prima ve gli donò. Riaccettategli dunque come da amico, e da quello amico che io vi sono. E se leggendo giá i primi ne traeste non manco utile che piacere (secondo che voi stesso piú volte m’avete detto), leggendo questi altri non ve gli troverrete per aventura di men profitto: 15
non potendo rimediare altrimenti alla ingiuria della fortuna, che non vi preparò la strada cosí bella alle lettere, e a quelle virtú delle quali voi siate tanto amatore, come ella ha fatto alle faccende. Né aspettate di trovare in essi alcuna cosa ritocca se non gli errori dello impressore; o altrimenti ritrattata, come s’usa per molti, quando le cose ritornano 20 alla stampa piú d’una volta. Imperò che, se egli è ben costume per sé lodevole e degno, e, per il vero, da filosofi, teologi e simili, per non essere i loro errori senza vergogna loro, né senza gran danno di chi legge l’opere loro; egli non di manco non è, e non debbe essere di cosí fatti capricci, come questi di Giusto, per non essere obligati a setta alcuna: senza 25 che, se io gli ritoccassi o ritrattassi, e’ non sarebbon piú di quel Giusto che e’ sono, e che io gli voglio; oltra che io agevolmente potrei far torto a chi e’ piacessino in questo modo, mal certo di piacere a chi volessi vedergli d’altra maniera, per non essere solamente a numero tanti i pareri quanti i cerv elli, come disse il Comico latino, ma infini- 30 tamente piú e piú varii i capricci dell’uomo, come ciascuno, senza testi 4
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monianza di qual si voglia autore, sicuramente da se stesso può giudicare. Ma perché la lettera non sia piú lunga con voi che con i capricciosi, a i quali per una altra ragione si aspettano i dialogi detti, e con i quali ho da dire e pure assai, farò qui fine, ricordandovi che io sono tutto vostro. Vivete lieto.
la Firenze, a di X di marzo MDXLIX.
Il vostro Geli o. A I DESIDEROSI DI UDIRE GLI ALTRUI CAPRICCI
Giovan Batista Gelli.
Non avendo avuto l’anima nostra da Iddio ottimo e grandissimo, o dalla Natura sua ministra, insieme col principio la perfezione e il fine suo (il quale altro non è certamente che la cognizione della veritá) come 5 ebbero l’altre creature intellettuali, le quali conseguirono insieme il principio e il fine loro in un medesimo tempo: dove ella essendo stata creata ignuda e spogliata d’ogni cognizione, e simile a quella tavola rasa d’Aristotile, nella quale non è scritto né dipinto alcuna cosa: non avendo dico avuta questa perfezione, è forzata ad acquistarsi quella io a poco a poco; per il che non resta giamai, sospinta da un naturale desiderio, di cercare d’esso fine. Ma perché in quell’instante medesimo ch’ella è creata, si ritrova rinchiusa in questo nostro corpo sensibile, non può giá mai acquistare cognizione alcuna per altro modo che per quello delle cose sensibili, aiutata nondimanco da i sensi esteriori, cono- 15 scitivi di quelle: per i quali passando, le loro spezie e le loro forme si imprimono ne i sensi interiori, o, per meglio dire, si scrivono si nella fantasia, e si nella memoria, come in un libro, dove leggendo poi l’intelletto perviene a la cognizione delle cose intelligibili. Né con tutto ciò non può ella però conseguire questo suo tanto onesto e lodevole desiderio 20 senza grandissima difficultá; il che non le avviene solamente per la moltitudine e diversitá delle cose, tanto difficili a essere intese, quanto dalla diversitá ancora de la natura sua e del corpo dove ella è rinchiusa: il quale è terrestre e mortale, e ella celeste e immortale. Imperò che, se dovunque è diversitá di natura, quivi sono i fini diversi: altro fine 25 è quello del corpo, e altro quello dell’anima. Il corpo ha per fine l’utile e il dilettevole, e per questo continuamente gli appetisce; onde bene spesso, anzi sempre, cerca di cose terrene e sensibili, e in quelle si pasce e si quieta nel modo ch’e’ può: dove l’anima, che ha per fine il sommo e perfetto bene, non truova giá mai la sua quiete ne’ beni del mondo, 30 perché e’ non sono beni veramente, ma apparenti, per qualche diletto 6
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o utile che si truova in loro; oltre a che, essi non sono, o non appariscono sempre buoni, ma quando sí e quando no, secondo che altri ne ha di bisogno. E sebene tal volta, per la maravigliosa unione con la quale ella si truova legata al corpo, sviata da i sensi di quello, corre dietro 5 a questi beni mondani, avviene a lei come a quel peregrino del quale scrive Dante, che, cambiando per un nuovo e da lui non mai fatto camino, ogni casa che da lungi vede crede che lo albergo sia; dove dipoi giunto, e trovando ciò non esser vero, a l’altre gli occhi indirizza, per insino a tanto che al vero albergo perviene: cosí ancora ella, entrata nel camin io di questa nostra vita, in ciò che di bene ha apparenzia, subitamente si crede avere a trovare il suo contento. Ma dipoi che ella ha conseguito quello, non lo ritrovando vero, dirizza i suoi pensieri ad un altro, per insino a tanto che ella arrivi al suo perfetto e vero fine. Da questa diversitá e di natura e di fini nasce la varietá delle operazioni umane. Da 15 questa procede la insaziabilitá de gli uomini, e che nessuno si contenta della sorte sua, ma ciascheduno loda solamente quello ch’egli non ha. Di qui sono causati in noi tanti diversi concetti, e tanti vani pensieri, come può ben conoscere in sé ciascuno quando, standosi talvolta in ozio, pensa e discorre seco stesso, facendo mille ghiribizzi e mille castelli 20 in aria. La moltitudine e varietá de’ quali è tale e tanta, che, se noi potessimo vedergli, io non dubito punto che, oltre al diletto e il piacere che noi ne aremmo (il quale sarebbe oltr’a modo maraviglioso), ne caveremmo ancora utilitá non piccola, come potrá conoscere certamente ciascuno di voi, leggendo i presenti ragionamenti; i quali non sono altro che 25 alcuni ghiribizzi che faceva seco stesso un certo Giusto bottaio da San Pier Maggiore, che mori circa due anni sono, uomo certamente molto naturale, e che, se bene non aveva lettere, era di tanta esperienzia, per essere molto vecchio, che aveva assai ragionevole giudizio. E perché egli aveva in costume favellare spesso da sé medesimo, come hanno 30 ancora molti altri, avvenne che un Ser Bindo notaio suo nipote, dormendo in una camera a canto a lui, tramezzata solamente da un semplice assito, e sentendolo qualche volta favellare seco stesso, e fare le due voci, come quello che aveva mezzo perduto il sonno per la vecchiezza, e troppo fissi nel capo i suoi ghiribizzi; sentendolo, dico, tal volta il 35 nipote, e piacendogli la novella, dehberò di raccòrre il tutto. E cominciato per questo ad osservarlo, e udirlo, scrisse finalmente ciò che egli aveva sentito, introducendo Giusto e l’Anima sua a parlare insieme, come aperto vederete ne’ seguenti ragionamenti; i quali essendogli stati copiati ascosamente, e venutimi alle mani con altre sue cosette, e 40 parendomi molto vani, e da cavarne, oltra al diletto, utilitá non piccola. I CAPRICCI DEL BOTTAIO
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ho deliberato di farne parte a tutti voi. E ancora che paia a molti che egli abbino uno stile tanto basso e non continuato, che non sieno per piacere, essendo oggi assai piú purgati gli orecchi e di giudizio maggiore; e, oltre a questo, pieni di molte opinioni non cosí secondo le vere regole delle scienzie, e, quello che è peggio, troppo audaci nel riprendere, e 5 massimamente uomini molto riputati e per nobiltá e per virtú, non ho voluto punto mutargli: rendendomi certo che voi considererete molto bene, che, essendo egli uomo nato in cosí bassa condizione, e esercitato in arte sí vile, dove egli ragionando non poteva molto praticare se non con persone simili a lui, e non se gli richiedeva aver migliore modo di io favellare, né manco poteva ordinatamente continovarlo, essendo tanto varie e diverse le cose di che egli ragionava, e tanto astratti e stravaganti i suoi ghiribizzi; e che egli ancora non poteva favellare delle cose secondo le regole dette, non sapendo egli altro che quello che gli aveva insegnato la Natura, o che egli aveva imparato da coloro con chi egli aveva pra- 15
ticato, o letto in alcuni libri volgari, o udito per le chiese da’ predicatori. Doveranno ancora averlo per iscusato, se egli si mostra talvolta presuntuoso nel tassare molti uomini litterati e grandi: considerando che egli potette fare questo, sí per lo sdegno che debitamente aveva contro a loro, sentendo che biasimavan la lingua nostra; e sí per essere vecchio, 20 a i quali pare sempre essere savi. E oltra a tutte queste cose, egli non credeva forse essere udito.
Eccovegli adunque, capricciosi Lettori, in quel modo proprio che gli scrisse Ser Bindo; e aspettatene de gli altri, se io arò le scritture sue, come mi è stato promesso da chi gli rubò questi: piacciavi leggergli beni- 25 gnamente, senza ricercare in loro quelle cose che e’ non possono avere altrimenti. E per quella diligenzia che io ho usata in fargli venire a luce, se voi sentiste mai che Giusto si dolga, o si tenga da me ingiuriato, per avere io publicato quello che egli arebbe forse voluto occulto; scusatemi seco, e difendetemi, col fargli capace che né egli né altri debbe tenere 30 conto d’una ingiuria particulare, dove ne segua il piacere e l’utile di infinite persone: e vivete lieti e felici. 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