La Ninfa Tiberina (Lucas)
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Col piè le sponde, e co’ begli occhi affrena
Rapido corso, allor che discolora
4Le piagge il ghiaccio, con sì dolce pena
A seguir le sue orme m’innamora,
Ch’io piango e rido: e non la scorgo appena
Ch’io scopro in lei mille vaghezze ascose,
8E dentro a l’alma un bel giardin di rose.
E se non che acerbetta mi si mostra,
E troppo incontr’amor aspra e fugace,
Dietro il bel piede, che le ripe innostra,
12Avrebbe l’alma interamente pace:
E fuor in tutto d’ogni usanza nostra
Sormonteria, dov’or languendo giace:
Ma sempre insieme mi si scopre e fugge,
16Ed invisibilmente mi distrugge.
E pur che giri gli occhi, o ’l passo mova,
Aprile e maggio, ovunque vuole, adduce;
Chè (sua mcrcede) ratto si rinnova
20Quella virtù che dentro ai fior traluce:
Come nel guardo del fratel suo, nova
Forza racquista la notturna luce:
Pur, ciò che piova da quei dolci rai
24Primavera per me non fu ancor mai.
Chè par che seco scherzi la natura,
E pugnin spesso per udirla i venti:
Ella di ciò non altrimenti cura
28Che di numero il lupo infra gli armenti,
O de le ripe il fiume: così pura,
Le grazie, c’ha d’intorno ognor presenti,
Poco sente e gradisce, e lieta e vaga
32Sol di sè stessa sè medesma appaga.
Nè rugiada già mai fresca di notte,
Quando la luna i campi arsi rintegra,
E l’assetate piagge e dal sol cotte,
36Copie d’argento, e i sacri boschi allegra,
A Giove l’erbe a supplicar condotte
Così ristora, e rende ogni ombra integra,
Come la chiara vista o ’l vago piede
40Di questa, che nel cor mio regna e siede.
Velloso armento, che bel piato pasce,
Ov’ella di sedersi ha per costume,
Quanto più rode, più tanto rinasce
44D’erboso e vago per sì chiaro lume:
Tal valor portò seco dalle fasce
Questa Fenice da l’aurate piume:
Dunque, pastori omai casti e divoti,
48Porgete a lei e non a Pale i voti.
Chè potrà quella terra di leggero,
Ch’ella col piede pargoletto preme,
Risponder largo ad ogni avaro impero,
52E colmar dei bifolchi ogni alta speme:
Chè fioriran per qualunque sentiero
Via maggior frutti che non porta il seme:
Nè potrà danneggiar grandine, o belva,
56O di loglio o d’avene orrida selva.
Nè, perchè il verno i solchi aspro non rompa,
E la sementa non offenda il gelo,
Nè per continua pioggia si corrompa
60Sovra l’umido suo terrestre velo,
Accolti in lunga e coronata pompa.
Sparger i prieghi vi fia d’uopo al cielo;
Chè questa con la vista umile e piana
64Ogni altra indegnità vi fa lontana.
Dunque duo altar su la più verde sponda,
Uno a Pomona, e a lei un altro alzate:
E quei conspersi pria di lucid’onda,
68Cantando il sue bel nome al ciel portate:
Tal ch’ogni antro d’intorno vi risponda,
E suoni il lito l’alta sua beltate:
U’ Damon co’ bei versi imiti Orfeo,
72E i Satiri saltando Alfesibeo.
Altri, nude le braccia orride e forti,
A lottar coraggioso si prepari:
Altri voi lauri e mirti assieme attorti
76(Poichè posti in tal guisa arabi e cari
Odor giungete a gli altri odori) apporti,
E fiori mieta amorosetti e rari:
Altri del fiume le sacre onde intatte
80A lei sparga di caldo e puro latte.
In dieci pomi di fin oro eletto,
Ch’a te pendevan con soave odore,
Simile a quel che dal tuo vago petto
84Spira sovente onde si nutre amore,
Ti sacro umil: e se n’avrai diletto,
Doman col novo giorno uscendo fuore,
Per soddisfare in parte al gran disío,
88Altrettanti cogliendo a te gl’invio.
E d’ulivo una tazza, ch’ancor serba
Quel puro odor che già le diede il torno,
Nel mezzo a cui si vede in vista acerba
92Portar smarrito un giovinetto il giorno;
E sì il carro guidar, che accende l’erba
E sin al fondo i fiumi arde d’intorno:
Stolto, che mal tener seppe il viaggio
96E il consiglio seguir fedele e saggio.
Ecco Giove, che in ciel fra mille lampi
Da folgorando il segno, e lo percuote:
Ecco i destrier per gli aerosi campi
100Fuggir turbati a parti più remote,
Là dove par che minor fiamma avvampi
Così dal carro ardente, e da le ruote
Cadde il misero in Po nel fiume avvolto,
104Tardi pentito de l’ardir suo stolto.
L’umor, che col cader si frange, e parte
Là ’ve più molle ha il Re de’ fiumi il piede,
Rassomiglia sì il ver, che dirai: l’arte
108Quivi d’assai pur la natura eccede.
Con sì alto sapor l’opra comparte,
Chi che si fosse, che tal pegno diede
Del saggio ingegno suo chiaro e gradito,
112E mosse a fama gloriosa ardito.
Da l’altra parte v’è intagliato il pianto
Che fan le sue dolenti e pie sorelle
Lungo il gran fiume, ove si dolser tanto
116Ch’il cordoglio n’andò sovra le stelle:
Onde, cangiato il lor corporeo manto,
Le vaghe membra, e le chiome irte e belle,
Come il ciel per pietà dispose c volse,
120Tenera fronde e duro legno avvolse.
Le braccia in rami andaro, in fronde il crine,
E i piedi diventâr ferme radici;
Cotal ebbe il lor pianto acerbo fine,
124E le luci già sante, alme, beatrici,
E le polite membra e pellegrine,
Ch’altri sperar godendo esser felici,
Per divina sentenza in breve forza
128Una amara converse e dura scorza.
Indi poco lontan sovra un gran sasso,
Cui verde musco d’ogni intorno appanna.
Con gli occhi fitti giù nell’onda al basso,
132E in man tenendo una tremante canna,
Canuto vecchio, e per molt’anni lasso,
Con l’amo i pesci d’allettar s’affanna:
Vero argento pareggia a chi ben mira
136La preda, che a lo scoglio aduna e tira.