Sino al confine/Parte IV/Capitolo III
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III.
L’indomani mattina, mentre ella stava alla finestra, il nano si avvicinò al cancello di Elia e le accennò che aveva un’ambasciata per lei.
Gavina scese, ed egli le disse con mistero:
— La zia Itria la prega di andar subito subito da lei.
Ella andò, ed egli la seguì, timido e preoccupato, ma non entrò. La vecchia, che stava nel cortiletto e inchiodava uno sgabello rotto, domandò a voce alta:
— Quel piccolo boja è là fuori? Ora ti accomodo io! — gridò poi, scorgendo il nano che allungava il collo per spiare senza esser veduto. — Ti accomodo come questo sgabellino! Siediti, nipote mia; devo dirti una cosa molto curiosa.
E senza smetter la sua faccenda, ripetè il fatto stranissimo che Paska aveva già raccontato.
— Tu lo sai — concluse. — Michela è mezzo matta: lo è stata sempre, ma ora poi bisognerà metterla in un manicomio.
Gavina finse di non saper nulla, ma non protestò e non si offese.
— Lasciamola dire! Ma che cosa ha la bambina?
— Ma niente! Un po’ di mal di gola e un po’ di febbre, come tutti i bimbi del vicinato. La colpa di tutto questo pettegolezzo, sai di chi è? di quel piccolo boja là, di quel pezzetto d’uomo, spione, maleducato. Io l’avevo ben avvertito di non dire che tu eri qui, quando egli portò la bimba.
Gavina chiamò il nano, ed egli entrò, ma non volle avanzarsi perchè la vecchia minacciava di lanciargli sul capo lo sgabello.
— Malanno che ti colga! Se non ti bastano gli schiaffi che t’ho già dato vieni avanti ancora.
— Calma! — disse Gavina — Lasciatelo venire; fatelo per amor mio!
La vecchia depose lo sgabello; il nano s’avanzò sino all’ingresso del cortiletto, e Gavina gli domandò:
— Come va questa storia?
— Io non ho detto nulla! Glielo giuro sul mio onore!
— Sul tuo onore? Se mai, è un onore gobbo e nano! — gridò la zia Itria, ed egli si mise a piangere.
— Zia, — pregò Gavina, guardando ora la vecchia, ora il nano, — fatemi il piacere di lasciarlo parlare! Egli ci spiegherà tutto. Non è vero che dirai la verità?... Di’, su!
Egli si fregava gli occhi coi pugni, come fanno i bambini, ed esitò a lungo, ma infine balbettò!
— Sì, è vero!... Sono stato io a dirle che la bambina mangiò lo zucchero. Quella donna, però, non capisce niente!
— Ma le hai detto che lo zucchero l’avevi preso tu, dalla zuccheriera?
— Sì.... no.... Ecco, lei, Michela, mi domandò: lo zucchero lo aveva Gavina? — Ed io.... io.... non ricordo che cosa ho risposto.
— Tu hai risposto di sì, mascalzone! — gridò la vecchia.
Egli gemeva atterrito; Gavina disse con dolcezza:
— Tu anzitutto dovevi tacere, poichè la zia Itria te n’aveva pregato. Ora è fatto ed è inutile che tu pianga. Vergognati: un uomo non deve piangere così.
— Io non sono un uomo! — egli disse allora, dando sfogo a tutto il suo dolore. — In altri tempi anche «noi» eravamo uomini; eravamo ricercati per amici persino dai re e avevamo anche le case fatte apposta.... Sì, sì, me l’ha raccontato il canonico Sulis! Ma adesso! Nessuno ci può vedere.... nessuno.... nessuno!
— Perchè sei bugiardo, ecco tutto! — disse la vecchia, commovendosi. — Vieni avanti!
— Che cosa dobbiamo fare? — domandò Gavina. — Questa storia mi secca enormemente. Vedo che siamo già in molti a conoscerla.
— Io minaccerei Michela di querela! — consigliò il nano. — Oppure la bastonerei.
Ma la sua proposta, nonchè approvata, non fu neppure ascoltata; e la zia Itria riprese lo sgabello, il martello, i chiodi, e ricominciò a lavorare rabbiosamente.
— Sai cosa ti dico, nipote mia? Devi riderti di tutta questa canaglia! Io ti ho chiamato perchè schiantavo dalla rabbia, ma quasi mi pento, ora, di averti riferito questo pettegolezzo. Che importa a te di noi tutti? Tu sei una signora: noi siamo delle immondezze!
— Siamo tutti eguali, tutti soggetti all’errore, zia!
La vecchia sollevò il viso, guardò Gavina e canticchiò:
C’era una volta un predicatore.
Il nano rideva, pur con le ciglia ancora bagnate di lagrime. Gavina disse:
— Ma voi, zia, non avete sempre fatto del bene ai più miserabili? Son questi che han bisogno di aiuto, e non i buoni, i felici. Perchè vi ridete di me, adesso?
— Io non ho mai fatto del bene a nessuno; nipote mia! Malanno che li colga tutti, dal primo all’ultimo! Non meritano nulla. Se i mascalzoni vengono a sedersi intorno alla mia porta è perchè non sanno dove meglio andare. Vuoi che vengano intorno alla tua porta? Sarebbe bella davvero, che tua madre, mia cognata, si mettesse a chiacchierare con loro! Ci sarebbe proprio da ridere.
Il nano si batteva le manine sulle ginocchia, piegato da una invincibile ilarità.
— Insomma, — disse Gavina alzandosi, — io non voglio che quella disgraziata parli così.... e tanto meno che creda essa stessa a quel che dice. Voi dovete farmi il piacere d’andarglielo a dire, zia! Ci andrete? Se no ci vado io.
La zia Itria non rispose.
— Vieni con me, ti darò da bere — disse Gavina al nano.
Egli la seguì di nuovo e rimase tutta la mattina con lei. Seduto su una seggiola troppo alta per lui, coi piedini penzoloni, guardava Gavina con adorazione, e per divertirla ripeteva, rifacendone i gesti e imitandone la voce, le prediche per «uomini soli» del canonico Sulis. Di tanto in tanto Paska attraversava la stanza e lo guardava con ostilità; poco prima di mezzogiorno Gavina lo mandò dalla zia Itria.
— Le porterai quest’ambasciata, senti bene. Le dirai così: la signora Gavina domanda se c’è nulla di nuovo e se essa deve o no venire.
Risposta dell’ambasciatore:
— La zia Itria dice: se la signora Gavina vuol venire venga, se non vuol venire non venga!
Altra ambasciata di Gavina:
— Dirai così alla zia Itria: dice la signora Gavina che la vostra non è una risposta seria. Che vuol sapere qualche cosa di preciso.
Risposta:
— La zia Itria dice che sta a cuocere i maccheroni e che vuol mangiarseli in santa pace!
Dopo quest’ambasciata Gavina congedò l’ometto, e nel pomeriggio ella stessa tornò dalla zia Itria, ma non la trovò in casa. Il nano, seduto davanti al piccolo tavolo, nel cortiletto, divorava un avanzo dei maccheroni che la vecchia aveva voluto mangiare in santa pace, ma non sapeva dove ella era andata; probabilmente da un malato, perchè aveva preso con sè una scodella di brodo.
— Tu credi che sia andata da Michela? — domandò Gavina.
— È probabile.
Ella uscì nella strada, e guardò di qua e di là, lungo le tre vie che mettevano capo alla piazzetta, in quell’ora calda del pomeriggio perfettamente deserta. Il sole ancora ardente batteva sui tetti del vicinato dei poveri, e un odore d’immondezze bruciate si spandeva nell’aria immobile. Come spinta da una forza superiore alla sua volontà Gavina s’inoltrò nella nota straducola, dove non si vedeva nessuno perchè durante le ore calde i miseri abitanti di quel rione se ne stavano chiusi nelle loro tane come le bestie selvatiche nelle grotte.
Ella camminava guardando per terra e tirandosi su le sottane. La straducola non era selciata; solo qua e là, fra la polvere e le immondizie, le roccie che formavano il sottosuolo di quell'angolo di paese mostravano le loro creste levigate e giallognole, simili a crani di giganti preistorici che facessero forza per sbucare di sotterra.
Allo svolto della straducola Gavina udì un pianto di bimbo e una voce irata di donna, e si fermò ad ascoltare; il bimbo raddoppiò i lamenti che ben presto divennero strazianti, e la donna continuò a percuoterlo e a sua volta raddoppiò le sue grida e le sue bestemmie.
Gavina rabbrividì: quella voce di bimbo che implorava senza speranza, e quel grido feroce di madre barbara parevano, così fusi assieme, il grido e il lamento del vicinato stesso, cumulo di rovine e di immondezze ammucchiate sopra una terra di giganti sepolti.
Presa dalla tristezza della sua pietà impotente, Gavina si fermò davanti al portone aperto della casa di Michela, guardò in su, ascoltò, ma non osò chiamare. Come nei lontani meriggi di primavera la finestruola sopra il portone era socchiusa; un garofano, fra la chioma grigiastra della pianta che spioveva dal piccolo davanzale, rosseggiava come una brace fra la cenere. Ella attraversò l’androne e il cortiletto, guardò nella cucina deserta e suo malgrado si sentì battere il cuore. Ricordava.
Dalla balaustrata di legno della scaletta pendevano alcuni pannolini giallognoli stesi ad asciugare, e la porta che dava sul ballatoio era socchiusa: la bimba non doveva star male se tanto silenzio e tanta pace regnavano nella casa, e Gavina, rassicurata, salì la scaletta e battè alla porticina. Un passo lento risuonò nell’interno della stanzetta, Michela apparve, trasalì, spalancò gli occhi e la bocca con un’espressione di meraviglia e di paura. Anche Gavina provò un senso di stupore; quella donna che le stava davanti, vecchia, scarna, giallastra, con gli occhi infossati e feroci che la fissavano con uno sguardo di belva sorpresa nel suo nascondiglio, le pareva una sconosciuta che si rassomigliasse vagamente alla sua antica amica. E capì che era pericoloso avvicinarsi all’infelice, ma non retrocesse. Porse una mano che Michela non prese, e disse con voce turbata:
— Come stai? Credevo che zia Itria fosse qui.... Come sta la bambina?
Michela non rispose, ma si ritrasse; ed ella entrò. La stanzetta era la stessa che aveva ospitato Francesco studente: dalle pareti tinte di calce pendevano sette quadretti sormontati da altrettante croci che rappresentavano la morte e passione di Nostro Signore Gesù Cristo; sul lettuccio di legno coperto da un drappo giallo dormiva un gattino attortigliato come un cercine di velluto nero.
Gavina sedette accanto alla finestruola socchiusa. Attraverso l’uscio spalancato della camera attigua vedeva, nella penombra, un gran letto bianco e fra questo e la parete una culla di legno, bassa e rozza e come scavata in un tronco d’albero, e le sembrava di sentire il respiro affannoso della bambina. Un caldo afoso regnava nella stanzetta, come se la montagna, cinerea sotto il cielo di un azzurro violaceo, mandasse fin là dentro il calore delle sue roccie bruciate dal tramonto di fuoco.
— La tua bambina dunque sta meglio? — domandò Gavina; e sebbene Michela, seduta più in là, nella penombra, con le mani sotto il grembiule, continuasse a tacere ed a fissarla con uno sguardo selvaggio, proseguì: — ne ho molto piacere. Volevo venire prima.... lo dissi anche alla zia Itria.... che credevo anzi di trovar qui, perchè poco fa mi dissero che era andata a visitare un malato....
— Siamo tutti malati, in questo vicinato! — rispose finalmente Michela; e all'improvviso cominciò a ridere, mostrando tutti i suoi denti bianchi e sporgenti, mentre sulle suo guancie, agli angoli della bocca, si disegnavano come due ventagli di minutissime rughe. — Come sei grassa, Gavina! Come hai fatto a ingrassare così? Rassomigli a Luca!
Benché il paragone non la lusingasse troppo, Gavina sorrise.
— Tu invece sei molto magra! Stai poco bene? Non esci mai? Dacché son tornata non ti ho mai veduta in nessun posto.
Michela ridiventò cupa.
— Le donne come me devono nascondersi!
— Ma perchè?
— Lo hai detto tu stessa, due anni prima di oggi!
— Michela!
— .... ed ora senza dubbio sei venuta per ripetermelo! Quante volte non hai sghignazzato, passando per la strada! Tutti hanno sentito: anche Luca tuo fratello.
Gavina cominciò a turbarsi. — È pazza davvero! — pensò, ma riprese pacatamente:
— Ti sei sbagliata, Michela! Perchè dovevo ridere? È Luca che ti ha messo in mente queste idee?
— Che c’entra Luca? Lascialo in pace. Egli è abbastanza disgraziato, e anch’io sono abbastanza disgraziata: non ci molestare; non mettere il piede sul cane che dorme!
— Tu parli preciso preciso come lui! Le stesse parole!
— Siamo pazzi entrambi, a tuo parere; dobbiamo parlare nello stesso modo! Tu sei savia, sei contenta, sei grassa... Ah! ah! perchè t’immischi nei nostri affari? Tu resta con la tua contentezza; noi ce ne staremo con la nostra miseria.... Non abbiamo più nulla da dividere.... non ho più nulla da dividere con te!
Gavina capì la triste allusione, e giunse le mani sul grembo e abbassò la testa, scuotendola alquanto; e pareva fosse lei, fortunata e felice, a implorar grazia davanti a quell’altra che si dichiarava disgraziata e miserabile. Ma dopo un momento si scosse.
— No, non sono venuta qui per sentirti dire queste cose, Michela. Sono venuta per visitarti. Se fosse vero tutto quello che tu pensi, non sarei qui. E non è la mia prima visita, questa...
— E speriamo sia l’ultima! Ti ho forse cercato, io? No, tu sei venuta, ti sei seduta.... sei venuta per riderti di me: altrimenti non saresti qui.... ti conosco, io! Passavi nella strada e cercasi di vedermi, o di farti vedere: non ci sei riuscita e sei venuta dentro. Ed ora che mi hai veduta e che ti sei fatta vedere, rallegrati pure. Tu sei grassa e felice.... io sono uno scheletro; lo vedi! (sollevò la lunga manica della camicia, e fece vedere il braccio sottilissimo e cereo, venato di turchino). Le male lingue mi han divorato le carni, mi hanno rosicchiato le ossa... come fanno i cani.... e ora che sei contenta, vattene! E vattene!
Riallacciò il polsino della camicia, senza smettere un momento di fissar Gavina: le sue mani tremavano e il suo volto si coloriva e si scoloriva rapidamente, come se tutto il sangue le salisse alla testa e si ritirasse poi subito come un’ondata.
— Ti dico che ti sbagli! — ripetè Gavina con forza. — Io vorrei vederti sana e contenta!... E tu puoi ridiventarlo.... ed io sono qui per dirti che sarei felice di poter fare qualche cosa per te.... Se tu e Luca....
— Luca! Ti ripeto anch’io che tuo fratello non ha nulla di comune con me. Anch’egli può immischiarsi nei fatti suoi. Fra me e te non c’è Luca. Oh, no! C’era un’altra persona... che adesso non c’è più.... Però!... Oh, no, no, no, — disse poi, scuotendo nervosamente la testa — non c’è più nulla da dividere! A te tutti i beni, a me tutti i mali! E buon pro ti faccia! lo non t’invidio; io non vorrei essere al tuo posto. Se poi è tua madre che ti manda qui, o la tua serva, di’ loro che stiano tranquille, non lo voglio, il vostro Luca, non lo voglio! Che debbo farmene? Egli viene qui come i mendicanti e i ladri vanno dalla zia Itria: voi lo cacciate di casa vostra, appunto come si spazza via l’immondezza, ed è giusto quindi che egli venga qui.... in questa casa che per voi è immonda! Siete gente pulita, voi! Ah, siete come le tazze di cristallo, voi! Ed egli viene qui.... perchè non sa dove andare! Ma per marito io non lo voglio, no, rassicurati; i suoi beni ti resteranno!
— Io non so cosa farmene!
— Oh, non dire così! La ricchezza piace a tutti — incalzò Michela con rancore crescente. — Col denaro si ottiene tutto, o almeno non si è disonorati.... Qualche volta, però!... Tu, per esempio, col denaro non puoi avere un figlio, mentre so che lo desideri molto.... Col denaro.... col denaro....
Gavina si alzò.
— Basta, Michela, basta!... Ti dico ancora una volta che non sono venuta qui per questionare con te. Credevo che tu mi accogliessi in diverso modo, Michela! Non adirarti, non agitarti; adesso me ne vado; scusami.
— Va, va! Tu sei venuta per farmi del male.... tu non puoi far che del male....
— Ecco, ecco, la solita storia! — gridò Gavina. E si avviò per uscire; ma fatti alcuni passi tornò indietro, s’appoggiò alla spalliera della seggiola, e guardò con pietà la disgraziata.
— È inutile! Non si può discutere con te, Michela; come non si può discutere con Luca e.... con altri! È meglio dunque finirla; è meglio che me ne vada. Ma senti, Michela, pensa bene a quello che ora ti dico: io non ti ho fatto del male! Potrei dire, invece, che sei stata tu, a farmi del male; ma....
Allora Michela balzò in piedi rigida e feroce, sghignazzando:
— Oh, poveretta!
— Basta, basta, Michela! — supplicò Gavina sollevando le mani giunte. — Nè io feci del male a te, nè tu ne facesti a me. Il male risale al di là di noi.... Ma ammesso pure che io ti abbia fatto male.... eccomi qui.... son venuta per dirti che se posso.... voglio farti del bene.
— A che serve? Se tu mi hai ucciso non puoi farmi rivivere. Ah!...
Questo «ah» fu come un grido selvaggio di dolore fisico, simile al guaito di certe bestie ferite; e Gavina comprese allora che al paragone di quanto aveva sofferto Michela, i suoi dolori e i suoi rimorsi erano semplici emozioni facili a dimenticarsi. Ella poteva guarire, forse era già guarita: l’altra, come aveva ben detto, era morta, e i morti non risuscitano.
Da quel momento il loro dialogo divenne tragico. Gavina avrebbe voluto andarsene, ma non poteva; gli occhi di Michela, d’un verde livido, come quello del mare quando si avvicina la tempesta, diventavano sempre più strani, e quasi la suggestionavano, tenendola ferma al suo posto con uno sguardo simile a quello di un avversario in duello. Del resto, ella capiva anche ciò che l’infelice non riusciva a dirle: quante volte ella non s’era fatta gli stessi rimproveri?
— Tu sei malata, non morta.... — mormorò come fra sè. — Se tu volessi potresti guarire.... Ma oggi non è possibile ragionare con te; un altro giorno.... forse.... forse.... Ne riparleremo e vedrai che non ho torto....
— Non vuoi rimanere? — domandò Michela dimenticandosi che poco prima le aveva detto di andarsene. — Aspetta; resta un altro momento. Giacché sei qui.... ed hai tante buone intenzioni.... vorrei farti una domanda....
Esitò, abbassò gli occhi, poi domandò sottovoce!
— È vero che «egli» ti scrisse, prima di morire?
— Sì.
— È vero che Francesco depose questa lettera dal giudice?
— È vero.
— Egli non parlava di me?
— No.
Seguì un momento di silenzio cupo; indi Michela fissò di nuovo gli occhi minacciosi in quelli di Gavina e riprese:
— Vedi, dunque? E tu hai creduto che egli pensasse a me e ti avesse dimenticato! Ed io mi sono perduta, per te, per lui. Egli pensava a te, dandosi la morte: egli ha pensato sempre a te.... e per questo è finito così!
— Egli doveva finire così! Era il suo destino!
— Era suo destino! I morti son morti.... e i vivi son vivi! — disse Michela, e andò a chiudere la porta, quasi col medesimo gesto con cui Luca aveva chiuso la finestra.
La cameretta rimase illuminata dalla luce triste e ardente della finestruola; e Gavina provò come l’impressione di trovarsi chiusa in un sepolcro di pietra. Era vano battere contro quelle pareti; non si aprirebbero mai: era vano combattere contro i morti; aveva ragione Michela: i morti non risorgono. Tuttavia, sebbene sentisse la sua paura crescere e le sembrasse puerile discutere oltre con un fantasma, ella riprese a bassa voce, con calma quasi funebre:
— Sentimi bene, Michela: sii ragionevole. Tu non devi disperarti così. Ci sono al mondo migliaia e migliaia di donne che si trovano nella tua stessa condizione. Credi tu che si disperino? Ma niente affatto; continuano a vivere, amano ancora, trovano chi le compatisce e le ama. I morti son morti, sì, e i vivi son vivi, sì! Abbiamo diritto di vivere, tutti, tutti, sai, anche i più colpevoli. Tante volte ci sembra davvero di essere morti, di non poter più sollevare gli occhi davanti ai vivi; ma poi arriva un momento in cui ci svegliamo, e tutto il passato ci sembra un sogno. Anche a te, vedrai, accadrà così. Dimenticherai, ti sveglierai; troverai un uomo onesto che ti vorrà bene più che ad un’altra donna, perchè saprà che hai sofferto....
Michela ascoltava e taceva, rinculando di qualche passo fino a toccar con la schiena un piccolo tavolo sul quale stavano chicchere, bicchieri ed altri oggetti. Senza voltarsi cominciò ad aprirne e chiuderne il cassetto; e quando Gavina accennò all’uomo onesto che avrebbe potuto amarla nonostante il suo fallo, la disgraziata rise ancora e di nuovo i suoi denti apparvero tutti, fino agli estremi molari, come quelli di un lupo che sbadiglia.
— E cercalo tu, quest’uomo! — gridò. — Eh, non tutti sono come Francesco Fais! Tu sola potevi trovare quest’uomo!... Ma tu sei fortunata.... tu! Tu sei viva, io sono morta: non c’è persona al mondo, tranne qualche scemo come tuo fratello, che non sputi su una immondezza come me!
— Michela! Tu sei pazza.
— Lo so, lo so! Dillo pure forte; lo so! E se non fossi stata pazza non avrei fatto quel che ho fatto. «Egli» veniva qui a piangere per te; ed io, sciocca, piangevo con lui! Se non era una pazza, chi poteva fare così? Tu che eri savia, tu lo hai cacciato via; ed egli è venuto qui per disperazione. La stessa cosa fa Luca, adesso.... Ma egli.... ma egli....
— Dio! Dio! Basta, basta! Non continuare....
— Nooo, non basta! Ora che sei qui devo dirtele tutte! Perchè sei venuta, maledetta tu sii? Sei venuta per ridere? Adesso ti farò ridere io....
Gavina capì che era tempo di andarsene; fece qualche passo verso l’uscio e disse:
— Non ho alcuna voglia di ridere.... arrivederci!
Ma l’altra rise ancora, col suo orribile riso.
— Ah, te ne vai? Mi pare che tu abbi paura!
Il gattino, spaventato, sollevò il capo, spalancò i grandi occhi verdi, saltò giù dal letto e s’arrampicò alla finestra: la bimba, nella sua culla, gemette.
— Di che? — domandò Gavina, dominando il suo terrore. — Non gridare così, Michela! Perchè arrabbiarti tanto? Bada che svegli la bambina....
— Che te n’importa? Vuoi darle ancora il veleno?
Gavina si avvicinò all’uscio, ma ad un tratto balzò indietro, perchè Michela, a testa bassa, con le braccia tese indietro, le si slanciava contro come un toro infuriato.
— Non te ne andrai; non te ne andrai!
Allora Gavina ebbe la terribile intuizione del vero: comprese che una follia criminosa vinceva a grado a grado la disgraziata; e senza saper come, balzata dall’istinto della difesa, si trovò nella camera attigua, fra la culla e il letto.
Ma l’altra s’avanzava di corsa, ansando come una bestia infuriata: aveva un coltello in mano, col manico entro il pugno e la lama in giù. Gavina sentì le gambe piegarsele e gli occhi le si appannarono; ma come rischiarati da un lampo, in un attimo mille ricordi le balenarono in mente; pensò a Francesco, alla profezia di Luca «tu non farai che del male, a tuo marito, a tutti», e più che il terrore della morte imminente provò il dolore di essere destinata a far soffrire l’unica persona che la amava ancora.
Allora gridò: sentì il suo grido come quello d’una persona che le facesse coraggio, da lontano, e prima che Michela arrivasse a colpirla, si curvò, afferrò la bambina e la tenne sospesa davanti a sè come uno scudo.
— Se tu mi tocchi, te la sbatto contro la testa, — gridò, mentre la bambina si torceva tutta puntandole i piedini contro il ventre e tendendo le braccia alla madre.
— Lasciala! Ti dico, lasciala, rovina della mia casa! — urlò Michela con voce rauca, inseguendola e curvandosele davanti con atto feroce. Ma oramai rassicurata, tenendo sempre la bimba davanti a sè, Gavina si ritirava, strisciando con le spalle lungo la parete.
A un tratto Michela parve inciampare, cadde in ginocchio e le sfiorò una gamba come cercando di appoggiarvisi; allora Gavina, dopo aver abbandonato la bimba che cadde fra le braccia della madre, si slanciò nell’altra camera, aprì l’uscio, fu nella scaletta; e alla viva luce che illuminava il cortile si accorse che aveva le vesti macchiate di sangue.
Si curvò, si rialzò, due volte, come facendo due inchini; sollevò le sottane e vide il sangue d’un rosso vivo sgorgare un po’ al di sopra del suo ginocchio sinistro e cadere come un rivoletto fino alla sua scarpetta chiara arrossandola tutta. Allora provò di nuovo un terrore folle; la paura di cadere, di essere raggiunta e ferita ancora; non pensò più a nessuno, non sentì che l’istinto di salvarsi, il desiderio di vivere; e si rimise a correre.
Il suo sangue bagnò le pietre della strada dei poveri.
*
Il nano, che stava ancora nel cortiletto della zia Itria, la vide passare di corsa nella piazzetta, e si slanciò fuori; ma ella era già davanti alla sua porta e batteva con violenza il pugno di ferro. I colpi echeggiavano nell’interno della casa.
Agitata da un tremito convulso Gavina si stringeva le sottane sul ginocchio ferito, ma il sangue continuava a scorrere lungo la gamba ed a sgocciolare fino a terra. Paska non apriva: il nano guardava il sangue con occhi spaventati e diceva:
— Signora Gavina.... signora Gavina... che è stato? Il medico....
— Sta zitto! Vattene. Sono caduta. Vattene, ti dico!
— Devo chiamare il medico? La zia Itria? Tanto sangue....
— Niente, niente! Non dir niente a nessuno: vattene.... vattene.... — ella ripetè, aggrappandosi al battente della porta.
Aveva paura di cadere e le sembrava che il terreno oscillasse sotto i suoi piedi; ma quando Paska aprì e vedendo il sangue cominciò a gridare, ella le mise una mano sul petto, la spinse indietro, entrò e chiuse la porta col catenaccio.
Più tardi il nano fu visto camminare curvo, lungo la strada, dalla porta dei Sulis al portone di Michela: raccoglieva pugni di polvere e li spargeva sulle impronte sanguigne lasciate da Gavina. Aveva indovinato il mistero? Nessuno lo seppe mai, perchè per la prima e l’ultima volta in vita sua egli seppe tenere un segreto.
* |
Gavina intanto, seguita da Paska che gridava spaventata, salì al primo piano, nella camera dove Francesco curava i malati, e senza parlare, senza domandare aiuto, lasciò cadere le vesti insanguinate e si lavò e si fasciò la ferita. Tremava e batteva i denti, ancora sopraffatta da un terrore angoscioso, ma non rispondeva alle domande di Paska, e fosse anche stata in pericolo di morte avrebbe taciuto egualmente, come quei feriti che una complicità inconfessabile unisce al feritore, obbligandoli a non rivelarne il nome. Quando non vide più scorrere il sangue si calmò. Scrisse alcune parole su un modulo di telegramma, poi aiutata da Paska si coricò sul lettuccio coperto d’incerata, collocato accanto alla finestra, e soltanto allora parve accorgersi della disperazione della vecchia serva.
— Ma taci! — le disse irritata. — Sono caduta, stupida, non lo vedi? Aiutami, piuttosto: fa scaldare un po’ d’acqua, dammi un po’ di cognac, levami le scarpe. Va, chiamami la zia Itria, va! Tu non sei buona a niente! Vattene!
Quest’ordine aumentò la disperazione di Paska.
— Io ti ho veduta nascere.... e tu mi respingi, nell’ora del pericolo....
— M’hai veduto nascere, ed ora vuoi vedermi morire! Va, bisogna fare un telegramma a Francesco: vuoi lasciarmi sola? Va e taci: altrimenti chiamo qualcuno dalla finestra.
Allora Paska parve ritornare in sè; le diede il cognac, le strofinò e le avvolse i piedi con pezze di lana, e infine si decise chiamare la zia Itria.
Da anni ed anni la vecchia obesa non entrava in casa di sua cognata: eppure, mentre saliva ansando le scale, e si avvicinava al lettuccio ove stava Gavina, il suo volto gonfio e i suoi piccoli occhi vivaci non esprimevano nè rancore, nè dolore, nè soddisfazione. Sfiorò con la mano calda e molle il viso della nipote curvandosi a fissarla negli occhi; poi le sollevò il labbro superiore e le guardò le gengive.
— È nulla, — disse.
— Sono ferita, — mormorò Gavina. E scorgendo dietro la spalla della zia Itria il viso desolato di Paska, aggiunse: — sono caduta.... da una scaletta.... bisogna avvertire Francesco. Paska, va.... al telegrafo.
Appena la vecchia fu uscita, la zia Itria disse:
— Lo vedi? Lo vedi? Perchè sei andata? Ella poteva ucciderti.... Che farai ora? La denuncierai?
— No, — rispose Gavina con forza.
Lo ore passarono. La zia Itria rimase fin verso sera presso il letto della nipote, commentando con calma il tragico fatto. Ella aveva assistito a più d’un epilogo di dramma, e le ferite, il sangue, i gemiti, i misteri dell’odio e le miserie delle passioni umane, non la spaventavano: non le destava quindi meraviglia che anche a Gavina, ricca e distinta persona, capitasse un’avventura di quel genere.
La sua calma finì di suggestionare anche Paska, e nella casa regnò un silenzio grave, una pace apparente, come se nulla fosse accaduto.
Gavina, immobile, supina ma col viso rivolto alla finestra, vedeva l’elce, le montagne, il cielo che si coloriva di viola; e il pensiero del dolore che avrebbe provato Francesco, s'ella fosse morta e in modo così tragico, vinceva ogni altra sua inquietudine. In fondo però provava un vago senso di orgoglio all’idea che finalmente poteva dimostrare a suo marito tutto il suo coraggio e la sua generosità; e a poco a poco al terrore e all’angoscia della morte sentì succedere un sentimento che le era ignoto: la gioia di vivere. Viva! Viva! Ella era viva! Lo stesso dolore della ferita le riusciva quasi gradevole perchè era un segno di vita.
Verso il crepuscolo, ricordandosi che Luca doveva ritornare dalla vigna, pregò la zia Itria e Paska di andarsene e di tacere. Per qualche tempo rimase sola: vide la luna apparire sopra l’elce, come una fiamma che sgorgasse dalla pianta, e ricordò le sere melanconiche della sua fanciullezza, quando si martoriava lo spirito con voluttà crudele e pregava Dio di farla soffrire; e il suo ultimo colloquio con Priamo, la profezia dell’infelice, i sogni di vita che egli faceva per lei guardando la città risplendente di lumi.
E mille altri ricordi le passarono in mente, allacciati gli uni agli altri come gli anelli di una stessa catena: ma invece di irritarla, come altre volte, questa evocazione le dava un senso di dolcezza sonnolenta, un languore di sogno. Le sembrava di essere distesa sopra un terreno duro, in un luogo deserto; vedeva la luna salire sul cielo d’un azzurro violaceo, sentiva come un passo lontano di cavallo, in una strada solitaria; e come un soldato ferito, abbandonato in un campo, dopo la battaglia alla quale è stato condotto contro la sua volontà, ella non si domandava perchè era là, sola, ferita, e non provava alcun rancore contro i suoi nemici, ma aspettava che qualcuno venisse ad ajutarla ed a curarla.
Ancora una volta il suo medico ed il suo salvatore non poteva essere che Francesco. Quel passo lontano era il passo del suo cavallo; egli viaggiava nella sera vaporosa, scendeva la montagna, attraversava l’altipiano, andava verso di lei come il compagno d’armi va verso il compagno in pericolo.
— Ed io che forò, che farò per lui? — ella si domandava: e poi ripeteva: — vivere, vivere.... per lui.... per me.... per gli altri....
Le sembrava di comprendere finalmente tutto il valore e il significato della vita. Non rifaceva i progetti vani che un’altra volta avevano rallegrato la sua convalescenza, e capiva che apparentemente la sua vita non avrebbe mutato aspetto, ma pensava:
— Sono arrivata sino al confine; ho veduto in faccia la morte! Bisogna tornare indietro; bisogna rifare la strada.... Quanto bene si può fare nella vita!
E quasi per provare a sè stessa che era ancora viva ripeteva a voce alta:
— Vivere.... vivere! Fare del bene....
Un po’ prima del ritorno di Luca, la zia Itria salì di nuovo e le disse sottovoce:
— Sono stata là, dunque! Il portone era chiuso. Ho picchiato due, tre volte, ma essa non aprì; forse aveva paura. Allora l’ho chiamata, gridando, finché non s’è affacciata alla finestra. Era livida in viso, con gli occhi gonfi e rossi; doveva aver pianto. Per quanto l’abbia pregata, non ha voluto aprire. Allora le dissi: — Gavina è caduta e s’è fatta male a un ginocchio; la colpa è tua: perchè hai fatto questo? — Ella non rispose, ma si mise a piangere. Poi mi domandò s’era tornato Francesco. Ella deve aver paura di lui.
— Egli non le farà niente! — esclamò Gavina; e mentre la zia Itria stava per andarsene di nuovo, la richiamò e le disse: — tornate là. Ditele che non abbia paura.... e che io non le serberò rancore.... che se potrò le farò del bene. Zia, zia, — chiamò di nuovo, fissando la vecchia obesa con gli occhi scintillanti, — farò del bene a tutti.... amerò tutti, come fate voi.... amerò specialmente i disgraziati.... i peccatori.... come fate voi! Avevo sbagliato strada.... camminavo in un luogo brutto, ma sono arrivata sino al confine.... adesso voglio tornare indietro e fare un’altra via....
— Ha un po’ di febbre, — pensò la zia Itria andandosene.
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Verso le nove ritornò Luca. Gavina attese con curiosità che egli uscisse e poi rientrasse, dopo esser stato senza dubbio da Michela; ma egli uscì, rientrò, passò davanti all’uscio di lei senza fermarsi e continuò a salire le scale col suo passo incerto da vecchio.
— Luca non ha domandato di me, Paska? Non ha detto nulla?
— Nulla, — disse la vecchia, e si coricò per terra, ai piedi del lettuccio. L’attesa, l’agitazione, la ferita, davano un po’ di febbre a Gavina. Ella credeva sempre di sentire il passo del cavallo di Francesco, e solo dopo la mezzanotte si assopì; ma confuse visioni l’agitarono, finché il rumore d’una carrozza che fece tremare i vetri della finestra verso strada non la svegliò di nuovo. Il rumore cessò all’improvviso e la voce di Francesco vibrò nel silenzio notturno:
— Gavina? Gavina?
Pareva che egli avesse paura di non ricever risposta. Appena Paska aprì, egli si slanciò su per la scala, e vedendo luce nella camera dei malati entrò e si curvò su Gavina ansando spaventato, con gli occhi insolitamente foschi e le mani tremanti.
— Ma che hai, Gavina, che è stato? Perché stai qui? E tua madre? E Luca? Chi è venuto qui, oggi?
Gavina s’accorse che egli, sebbene il telegramma annunziasse una semplice indisposizione, aveva intuito la verità.
— Sono ferita, — disse sottovoce.
— È stato Luca?
— No: «lei».
D’un gesto egli sollevò la coperta, slegò la fasciatura, tolse l’ovatta e la garza sanguinanti come brani di carne, e si curvò per esaminare la ferita. Quando si sollevò l’espressione del suo viso era mutata ed i suoi lineamenti s’erano irrigiditi. Esaminò le pupille di Gavina con uno sguardo freddo, e le disse quasi con durezza:
— Bisogna mettere dei punti, subito.
Ella si mise a piangere: le sembrava che egli la guardasse con odio.
— Adesso.... ti dirò.... È stato così.... Francesco....
Mentre ella raccontava con frasi confuse la sua visita a Michela, il loro colloquio, la terribile scena seguita, egli, senza darle troppo ascolto, accese la lampada a spirito che gli serviva per disinfettare i ferri chirurgici, e chiamò Paska, ordinandole di far bollire un po' d’acqua. Poi scese in cucina e risalì portando un vaso d’acqua calda che versò rumorosamente nella catinella.
Gavina taceva impaurita, domandandosi se egli avrebbe potuto mai perdonarle questa sua ultima leggerezza!
Per alcun tempo non s’udì nella camera che il cigolìo della lampada e il rumore dell’acqua versata da un recipiente all’altro. Paska rientrò, portando due lumi, e Francesco, dopo avergliene fatto deporre uno sul tavolino, la prese per le spalle e la collocò accanto al lettuccio, insegnandole come doveva tenere l’altro.
— E niente piagnistei! — le gridò sul viso.
Paska sporse le labbra tremanti, come un bambino che si sforza a non piangere; ma i suoi occhi ancora belli splendevano di lagrime e un’espressione d’angoscia suprema solcava le sue guancie pallide e cascanti. Gavina ebbe pietà di quel muto dolore e tese la mano accennando a Paska di darle la sua. Allora entrambe, serva e padrona, con le mani intrecciate, piansero in silenzio; ma Francesco, che guardava attraverso la fiammella del lume il filo quasi diafano con cui doveva cucir la ferita, senza volgersi disse, irritato:
— Ebbene, se non la finite voi non posso cominciare io!
E di nuovo, nella camera inondata da un soffocante odore di spirito, non s’udì che il cigolìo della lampada. Egli si avvicinò e si curvò sul lettuccio; e Gavina non si mosse, non si lamentò, mentre l’ago chirurgico trafiggeva la sua carne viva.
Appena chiusa la ferita, Francesco fece a sua moglie un’iniezione di morfina; e come riprendendo un discorso interrotto disse a Paska:
— Dicevo.... non dubitare: morrai tu, prima di lei! E ora va a dormire.... — indi aprì la finestra per liberar la camera dall’odore dell’alcool e dell’etere, e rimise accuratamente in ordine i suoi ferri.
— Gavina, come ti senti, adesso? — domandò a voce alta.
— Bene, — rispose Gavina con voce velata; e mentre Francesco andava ancora su e giù per la camera, ella cominciò a mormorare come in sonno ripetendo ciò che aveva detto alla zia Itria e facendo progetti per l’avvenire. — Faremo del bene, Francesco.... Ameremo la vita, ajuteremo gli infelici.... Viaggeremo, Francesco.... il mondo è bello.... siamo giovani; tu mi perdonerai, tu mi vorrai bene.... perchè io sono un’altra, adesso.... e amo tutti, tutti, anche quelli che mi han fatto del male....
Ma ad un tratto la sua voce si spense. La sovrumana dolcezza della morfina alleggeriva già le sue membra e la liberava da ogni dolore e da ogni inquietudine. Nello sfondo della finestra ella vedeva le montagne illuminate dalla luna al declino, ma intorno alle cui vette il cielo già schiarito dall’alba disegnava un’aureola d’argento, e ricordava le mattine quando si doveva alzare per fare il pane e usciva nell’orto e veniva assalita dal desiderio di partire per regioni lontane ove tutto era gioia e splendore; e questo ricordo le dava un senso d’inesprimibile piacere. Le regioni fantastiche sognate nei deliri mistici della sua adolescenza erano davanti a lei; ella non aveva che ad alzarsi e partire per arrivarci.
A poco a poco, molli e cangianti come nuvole primaverili spinte da un vento leggero, i sogni, le allucinazioni, le visioni fantastiche della morfina salirono intorno a lei, confondendosi, innalzandosi, sovrapponendosi, avvolgendola come in una rete di seta che la cullava e la teneva sospesa fra il mondo reale e un meraviglioso mondo di pace, di bellezza, di luce. Ella non dormiva: sentiva di sognare, ma per quanto quei sogni fossero attraenti, non vi si abbandonava completamente. Un rumore lieve, strisciante, che le pareva lontano, l’attirava ancora verso il mondo reale. Era il passo di Francesco. Egli andava e veniva per la camera, ma quando ebbe rimesso tutto in ordine, sedette accanto al lettuccio e prese la mano di lei fra lo sue: dopo essere stato il medico tornava ad essere il compagno che ella aveva atteso fino a quel momento.
Allora ella chiuse gli occhi e le parve di camminare assieme con lui attraverso lo stradale illuminato da una luce fantastica. La luna tramontava sopra la piccola città, l’aurora rosseggiava sopra la montagna. Un’allodola cantava, sospesa nell’aria luminosa, e pareva che il suo gorgheggio salutasse con la medesima gioia la notte che svaniva e il giorno che sorgeva.
FINE.