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Gavina rabbrividì: quella voce di bimbo che implorava senza speranza, e quel grido feroce di madre barbara parevano, così fusi assieme, il grido e il lamento del vicinato stesso, cumulo di rovine e di immondezze ammucchiate sopra una terra di giganti sepolti.
Presa dalla tristezza della sua pietà impotente, Gavina si fermò davanti al portone aperto della casa di Michela, guardò in su, ascoltò, ma non osò chiamare. Come nei lontani meriggi di primavera la finestruola sopra il portone era socchiusa; un garofano, fra la chioma grigiastra della pianta che spioveva dal piccolo davanzale, rosseggiava come una brace fra la cenere. Ella attraversò l’androne e il cortiletto, guardò nella cucina deserta e suo malgrado si sentì battere il cuore. Ricordava.
Dalla balaustrata di legno della scaletta pendevano alcuni pannolini giallognoli stesi ad asciugare, e la porta che dava sul ballatoio era socchiusa: la bimba non doveva star male se tanto silenzio e tanta pace regnavano nella casa, e Gavina, rassicurata, salì la scaletta e battè alla porticina. Un passo lento risuonò nell’interno della stanzetta, Michela apparve, trasalì, spalancò gli occhi e la bocca con un’espressione di meraviglia e di paura. Anche Gavina provò un senso di stupore; quella donna che le stava davanti, vecchia, scarna, giallastra, con gli occhi infossati e feroci che