Sino al confine/Parte III/Capitolo I
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte II - Capitolo III | Parte III - Capitolo II | ► |
I.
Gavina scese con diffidenza e quasi con paura la scaletta umida del piroscafo. Pareva avesse paura di cadere in mare; i suoi denti battevano, il suo viso era livido e cupo; e Francesco la prese quasi in braccio per aiutarla a scendere nella barca, e stese con cura il drappo che copriva il sedile. Dopo la loro partenza egli non faceva che occuparsi di lei come di una malata; ed ella non si lamentava, era docile e passiva, ma il suo viso esprimeva una cupa sofferenza. Solo la vista del mare la toglieva di tanto in tanto alla sua idea fissa, destandole un senso di ammirazione non privo di un vago terrore. Mentre la barca li trasportava dal piroscafo a terra, ella fissava come affascinata la pianura verde e oleosa che ondulava come il grano al vento, e a un tratto si curvò, tuffò le dita nell’onda e si fece il segno della croce.
— La pila è grande e l’acqua santa è abbondante, — disse Francesco.
Anche lui aveva il viso grigio e come rimpiociolito, per la brutta notte passata in mare e per la sorda inquietudine che gli destava Gavina; ma a poco a poco l’aria libera e la vicinanza della terra parve rianimarli entrambi. Egli si ripiegò sul collo il bavero rialzato del soprabito e respirò forte; ella guardò la torre melanconica del molo, disegnata su un velo di nebbia, e che pareva emergere dall’acqua cenerognola del porto. Il mattino tiepido o velato d’una lieve vaporosità rosea pareva un mattino di autunno. Fra gli alberi delle navi la città coperta di vapori appariva come nello sfondo di un bosco nudo; si udivano confusi rumori, vibrazioni metalliche, fischi di sirene, segnali che parevano urli di belve: e mentre Gavina metteva il piede a terra, fra una turba fantastica di uomini di mare, si udì un rimbombo fortissimo ripercosso dall’eco. Ella trasalì, gli uomini si tolsero i berretti, un vecchio s’inginocchiò.
— Che cosa c’è? — domandò Francesco.
— È una salve d’artiglieria, — rispose un marinaio. — Si trasporta la salma d’un ufficiale morto in Africa.
E Gavina pensò all’altro morto, il cui ricordo non l’abbandonava un istante; e le parve che il triste e ironico destino che la perseguitava salutasse con quella salve funebre il suo arrivo in terra straniera. Pareva le dicesse: io son qui, ti aspettavo e ti prendo!
— Hai freddo? — domandò Francesco aiutandola a salire su una carrozza. — Sei stanca, vero? Il tuo mantello è leggero.
Il viaggio ricominciò: ella intravide la città, nera o giallognola fra la nebbia; poi si trovò di nuovo in treno e vide ancora il mare, la campagna ondulata, e montagne lontane coperte di nebbia dorata dal sole, che le ricordavano le sue montagne natìe; ma mentre i suoi occhi vagavano da un punto all’altro, il suo pensiero non li seguiva, fermo in un luogo lontano.
Francesco, rinfrancatosi, la prese per la vita e nonostante la presenza di altri viaggiatori le scaldò le mani e le susurrò parole affettuose; e pareva che ella non si accorgesse di lui, eppure desiderava che il viaggio non terminasse per non rimaner sola: aveva paura di ciò che l’aspettava; aveva l’impressione che tutto, persone e cose, in quel mondo per lei nuovo, tutto le fosse ostile come i viaggiatori che s’erano ristretti borbottando quando i due sposi erano entrati nello scompartimento.
Quest’impressione svanì quando ella si trovò nella sua casetta; ma le rimase un vago senso di paura infantile, simile a quello che prova un bimbo lasciato solo in una casa deserta. La donna di servizio mandava a dire con la portinaia, che si trovava malata di bronchite al Policlinico: anzi pregava il padrone di andarla a trovare. Francesco si sgomentò, ma Gavina disse che avrebbe fatto tutto da sè.
Egli la costrinse a buttarsi sul letto, e uscì per ordinare la colazione alla trattoria più vicina: ma benché sentisse la schiena indolenzita e la testa pesante ella non poteva star ferma; le pareva di sognare, e appunto come in certi sogni paurosi sentiva il bisogno di fuggire, di allontanarsi da un luogo pieno di pericoli. Appena fu sola si alzò e fece per tre volte il giro delle cinque stanze che componevano l’appartamento: la saletta da pranzo, tappezzata di scuro e coi mobili di noce, guardava in un cortile, e le parve triste, benché semplice ed elegante; nelle altre camere, comunicanti fra loro, riscaldate da piccolo stufe a gas, c’era troppa luce, troppi oggetti nuovi e rilucenti.
Ella si fermò nel gabinetto medico di Francesco, guardandosi attorno con curiosità diffidente e paurosa. Il chiarore dei vetri smerigliati dava un riflesso di porcellana alle pareti smaltate: la tavola coperta d’incerata, la sedia, gli apparecchi, gli strumenti lucidi, chiusi come gioielli entro una piccola vetrina, tutto insomma le pareva misterioso e quasi losco. Un odore di jodoformio era nell’aria calda: ella provò un senso di vertigine, tornò nella camera da letto, aprì la finestra e guardò fuori. La via stendevasi larga e solitaria, inondata di sole, sotto il cielo d’un azzurro cupo quasi fosco ma qua e là sparso di nuvolette simili a fiammelle bianche; e davanti a lei, intorno ai villini quieti che parevano disabitati, ella vedeva alberi verdi come gli alberi del suo orto a primavera, e a destra, al di là delle mura, scorgeva altro verde, e a sinistra, nello sfondo della strada, le pareva di vedere una collina fresca e fiorita.
Ella rimase alla finestra come usava al suo paese. Le sembrava che Francesco tardasse troppo, e aveva quasi paura di rientrare, di rimaner sola con sè stessa. Ad un tratto la strada s’animò: passò una donna alta, vestita di grigio e in cuffia bianca, con due graziosi bimbi ricoperti di pelliccie, candidi come ermellini; passarono altri bimbi, accompagnati da signorine in cappello di paglia o in grembiale; e donne che spingevano graziose carrozzelle simili a culle mobili ricoperte di veli. Gavina non aveva mai veduto bambini così belli e ben vestiti, e fra gli altri ne notò uno in abito di velluto, con una penna d’airone sul cappello di feltro; ma nonostante quest’apparenza di piccolo cavaliere antico, egli urtò sgarbatamente una bimba che a sua volta, da vera donnina, si vendicò mostrandogli la lingua.
Da via Boncompagni salirono frotte di operai, giovani borghesi frettolosi, e due grossi signori che si rassomigliavano in modo sorprendente, vestiti in modo eguale come due vecchi gemelli.
Era mezzogiorno. Gavina si distraeva nonostante la sua stanchezza e la sua idea fissa: ma a un tratto vide un uomo alto e magro, con un berrettino listato, una borsa a tracolla o fra lo mani un fascio di lettere; e mille ricordi le passarono in mente, e le parve di essere ancora alla finestra della sua camera, in attesa di una lettera che doveva decider del suo destino. Seguì con uno sguardo di simpatia e di odio l’uomo, che entrava nei portoni o ne usciva frettolosamente, e le venne il desiderio di scendere o domandare se c’era qualche lettera per lei. Che cosa aspettava? Era tutto finito: eppure provava come l’insensata speranza di coloro che vegliano il cadavere d’una persona cara immaginandosi di vederla da un momento all’altro rianimarsi.
Quando Francesco rientrò ella era già più tranquilla. Dopo colazione fecero nuovamente assieme il giro dell’appartamentino; ed egli la teneva per la vita e si guardava attorno soddisfatto, ammirando la sua casetta.
— Abbiamo tutto il necessario; non ti pare? E persino oggetti di lusso! Qui però, — egli disse, spingendo l’uscio del suo gabinetto — qui mancano molte cose ancora!
— Strumenti?
— Strumenti e clienti! — egli disse ridendo. Poi le fece vedere i suoi libri, non tutti scientifici, e gliene mise uno in mano. Ella lesse il titolo «Memorie di un ottuagenario» e scosse la testa.
— E troppo grosso. Io non ho pazienza a leggere....
— Ne avrai, del tempo!
— No, no, caro mio; avrò da lavorare, io!
— Spero non vorrai fare il pane in casa!
— E perchè no, se è possibile?
— Intanto andrai a riposarti, — egli disse, riconducendola nella camera da letto.
Ella finì con l'addormentarsi e sognò che Paska aveva permesso a zio Sorighe di sdrajarsi sul divano della saletta. Ella andò a scuotere il vecchio, ma egli dormiva d’un sonno così profondo che nulla valeva a svegliarlo. «Dunque resterà sempre qui, sempre qui!» ella gridava infuriata.
Svegliandosi sotto la penosa impressione di questo sogno, le parve di trovarsi a Roma senza aver viaggiato: s’era addormentata a casa sua, si svegliava in quella camera piccola e rilucente, dai mobili bianchi e la vôlta dipinta come quella della cattedrale del suo paese. Una luce viva e cruda batteva sui vetri. Francesco non era in camera, ed ella provò un senso di freddo e di tristezza. «Che farò, adesso? E domani, che farò?» Ah, certo non era possibile fare il pane in casa! In un attimo ricordò tutta la sua vita passata, e sentì che oramai tutto era finito davvero: ciò che ieri l’affliggeva, ciò che ieri formava la sua vita, oggi non era che un ricordo. Era come se ella sopravvivesse a sè stessa.
Allora capì finalmente il perchè del suicidio di Priamo: egli s’era ucciso perchè l’aveva considerata come morta.
Ma mentre si abbandonava a queste fantasticherie morbose, pensava anche a Francesco e si domandava se non era tempo di confidargli il suo segreto. Sembrandole di essere calma e forte si alzò, andò a cercarlo e lo trovò nel suo gabinetto, in piedi davanti alla piccola vetrina aperta: con la sua tunica bianca egli sembrava più alto, quasi bello, quasi imponente; ed ella sentì di nuovo un senso di tristezza o di solitudine. Quell’uomo vestito come un sacerdote era per lei uno sconosciuto. Infatti quando si volse egli la guardò con uno sguardo calmo e freddo ch’ella non gli conosceva ancora.
— Come, ti sei già alzata? Vieni.
Anche la sua voce era calma, grave.
Gavina s’avvicinò ed egli le fece vedere alcuni strumenti, spiegandole a che servivano. Egli li toccava con delicatezza, con amore, guardandoli attentamente; e le fece capire che non tutti erano pagati e che egli desiderava con avidità denaro, molto denaro per comprarne altri ancora; indi chiuse con attenzione la vetrina, ritirandone la chiavetta, e sua moglie in quel momento capì che nella vita di lui ella rappresentava una parte secondaria, e che egli nutriva una passione ben più forte di quella che nutriva por lei.
Più tardi uscirono. Egli domandò al portinaio se c’era posta, ed ella attese con ansia. Non c’era nulla, ed egli le spiegò che riceveva pochissima posta, qualche rivista medica, qualche giornale letterario, e le semplici cartoline di sua madre.
— Ma mi sembrava di ricevere ancora una tua lettera!
Dopo aver camminato su per una strada solitaria attraversarono una piazza dove s’udiva come il fragore d’un torrente: tutto splendeva nel crepuscolo rosso e luminoso, e negli sfondi delle vie il cielo fiammeggiava, e migliaia di lumi gialli e verdastri splendevano come fiammelle sospese per aria.
Nel profilo nero degli edifizi che circondavano la piazza, ella distinse due croci nere disegnate sul cielo rosso, e strinse commossa il braccio di Francesco. Ricordava i tramonti della vigna, le notti luminose come quel crepuscolo, le sue preghiere, la sua passione; ma la città le sembrava così solenne, ed i suoi paesaggi, lo croci, le guglie, i profili, così circondati di grandiose significazioni, che per un momento il suo passato di miserie le apparve piccolo e lontano. Bisognava dimenticare per forza, in quell’atmosfera di grandezza.
— Quella è una chiesa? — domandò con voce turbata.
— Ce ne son tre: San Bernardo, Santa Susanna, Santa Maria della Vittoria — disse Francesco volgendo la mano in giro.
— Vediamone una? — ella insistè timidamente.
Entrarono nella chiesa di San Bernardo. Ella provò un’impressione di smarrimento nel vedere la chiesa rotonda senza finestre, col pavimento solcato da zone d’ombra e da tenui striscie di chiarore giallastro; e le parve di trovarsi entro un grande sepolcro, sola, nonostante la presenza, di Francesco, smarrita, lontana da tutti, nel confine tra il mondo reale e un mondo ignoto, fantastico e pauroso. Da due giorni ella non pregava: e in quel momento comprese che mai più avrebbe potuto pregare come prima. Fra lei e Dio calava un’ombra simile a quella che avvolgeva la chiesa.
Francesco, vedendo che ella s’indugiava, la prese per il braccio e l’attirò fuori; e non le disse nulla, ma la condusse in una trattoria elegante, illuminata e riscaldata eccessivamente. Sulle tavole sorgevano alti vasi di fiori, il mosaico del pavimento scintillava. S’udiva una musica soave, lontana; ogni volta che l’uscio a vetri si apriva entravano coppie d’uomini, o di uomini e signore eleganti; e tutti sembravano felici e le donne guardavano con amore la propria immagine riflessa dagli specchi.
Sulle prime Gavina guardò innanzi a sè, impacciata e cupa, decisa a non volger la testa ed a vincere ogni curiosità: ma a poco a poco il calore dell’ambiente, del cibo, del vino, la musica dolce ed eccitante, le diedero un senso di ebbrezza melanconica. Come certi ubriachi sentimentali provava la felicità del presente ma si sforzava a ricordare le tristezze del passato.
Appoggiò i gomiti al tavolo e il viso alle mani intrecciate, con l’attitudine che le era abituale, e i suoi occhi vagarono di qua e di là, sui fiori, sui cristalli, sulle fiammelle delle lampade, e infine si posarono sui visi delle donne e sopratutto sui visi degli uomini. Erano quasi tutti giovani. Ella li guardava con curiosità e timore, quasi non avesse mai veduto uomini giovani. Eccoli, essi erano lì, alcuni vigorosi, pieni di vita, cogli occhi avidi che avevano qualche cosa di pungente, di aggressivo, simili ad occhi di felini in agguato: altri erano pallidi, e i loro occhi sparivano come entro buche violacee, e tutto era loro indifferente tranne il piatto sul quale guardavano con tristezza e avidità d’animali affamati. Ella pensava ad Elia il suo vicino, e sentiva voglia di ridere ricordandosi la paura che egli le destava; forse, al paragone degli uomini che ora la circondavano, il suo vicino era un santo uomo. Ma ad un tratto ella corrugò le sopracciglia e rise.
— Francesco, ti ricordi la predica dello zio, quel giorno nella vigna? Diceva di non recarci «in quei luoghi dove tutto scintilla per nascondere il peccato.... »
— Ebbene? E tu credi che qui sia un luogo di peccato?
— Oh, certo, almeno di peccatori! — ella disse, sforzandosi a parer gaia e disinvolta. — Almeno per lo zio....
— E non ricordarti di lui! Oh, vogliamo fare una cosa? Beviamo lo «champagne» alla sua salute?
Vedendoli bere «champagne» qualcuno si volse a guardarli. Francesco era allegro e non gli dispiaceva di attirare la curiosità dei suoi vicini di tavola e di far scialo: il poeta risorgeva di tanto in tanto in lui.
Toccò il calice di Gavina col suo e disse a voce alta:
— Alla salute dello zio.
Ella rise e qualcuno cominciò a guardarla insistentemente: allora ella chinò gli occhi e ricordò una canzone che udiva cantare da uno dei giovinastri amici della zia Itria!
In fondo al mio bicchiere, in fondo, in fondo |
— Io sono qui, — pensava — sono felice, ho caldo, mentre «egli» è disteso come un’ombra sulla neve.
S’alzò e volle tornare a casa; e lungo la strada, per quanto Francesco la stringesse la mano e scherzasse, non rise più.
Passarono alcuni giorni. Il tempo si manteneva limpido e freddo, ma nell’appartamentino degli sposi si spandeva un mite calore di nido. Nel pomeriggio essi uscivano e la sera andavano a teatro; ma nella mattinata Francesco andava al Policlinico, e Gavina rimaneva sola, dandosi molto da fare per pulire la camera da letto dove passava tutto il suo tempo. Nonostante il suo istinto antisocievole, quella solitudine profonda la spaventava; d’altronde aveva paura di uscir sola e restava ore ed ore alla finestra e il passaggio del postino era, come un tempo, il più importante avvenimento della sua giornata. Ma la notizia che ella attendeva non arrivava mai.
Una mattina verso le undici sentì suonare alla porta, e guardando dalla spia vide un uomo che le parve di aver già incontrato in qualche posto. Sembrava un mulatto, alto e rigido, col viso terreo sbarbato e i capelli nerissimi e crespi, e il suo viso immobile, dai lineamenti marcati, sarebbe parso truce senza l’espressione benevola e sorridente di due grandi occhi neri. Nonostante il freddo indossava un vestito leggero; calzoni chiari e giacca turchina; e le sue dita rosse di geloni erano cariche d’anelli che si sprofondavano nella carne gonfia. Gavina ricordò il servo che aveva recato alla vigna la notizia della morte del signor Sulis, e le parve che l’uomo gli rassomigliasse. Si decise ad aprire ed egli entrò e chiuse da sè la porta, appese il cappello all’attaccapanni e penetrò nella saletta da pranzo.
— Lei non mi riconosce, signora Gavina?
— No.... ma.... s’accomodi.
Egli sedette davanti al tavolino da lavoro che stava nel vano della finestra, e sfregò i piedi sulla pelle di montone che serviva da tappeto.
— Io conoscevo suo padre: sono stato due volte a casa sua, ma lei era una bambina. Aveva anche un fratello: è vivo? che fa?
Egli parlava a voce alta e senza sorridere, e sembrava un po’ sordo.
— Sta in casa con la mamma, — disse Gavina freddamente.
— Non s’è laureato?
— No.
— Conosco altre persone del suo paese. Vivo da venti anni a Roma, e da quindici anni non ritorno nell’isola, ma ho ancora molti amici laggiù. Forse quest’anno ci andrò per acquistare del grano. Anche qui ho molti amici, soprattutto artisti. Conosce questa?
Le fece vedere il ritratto d’una bellissima artista col petto nudo e il collo fasciato di perle, e Gavina lesse sul cartoncino questa dedica scritta a grossi caratteri:
«Al carissimo signor Zanche, la sua amica C. M.».
— Ma lei dov’è nato? — E trasalì nel sentire il nome del paese di Priamo.
— .... Conosco altre persone del suo paese — ella disse a bassa voce, ridiventando cupa. — Il canonico Felix.... che vive nella mia città....
— Hanno ucciso il nipote.
— L’hanno ucciso? — ella domandò, sollevando le mani e spalancando gli occhi.
— Almeno si dice.
— Ma lei come lo sa?
Egli frugò ancora nelle sue tasche e ne trasse un pacco di giornali che cominciò a spiegare cercando la notizia che la interessava.
— Ecco. «Una disgrazia». No, non è questo. Ah, ecco. «Delitto o suicidio?» La corrispondenza è dalla sua città.
— Francesco deve aver letto la corrispondenza e non me ne ha parlato — pensò Gavina — Egli sa.... egli deve saper tutto!
Questo pensiero la turbò maggiormente: prese il giornale e per due volte rilesse la data della corrispondenza. Era quella del giorno delle sue nozze.
«Delitto o suicidio? — Stasera si è sparsa la voce che davanti alla chiesa campestre di San Teodoro è stato ritrovato mezzo sepolto fra la neve il cadavere del giovane sacerdote Priamo Felix, conosciutissimo nella nostra città. Non si hanno ancora precisi particolari di questa morte misteriosa. Il Felix si è colpito o è stato colpito con arma da fuoco. I parenti dell’infelice giovane, fra gli altri il venerando canonico Fellix, da noi interrogato, affermano che deve trattarsi di un delitto. Manderò altri particolari».
— È finita, — disse Gavina a voce alta, e scosse la testa, quasi per ricacciare in fondo al cuore le lagrime che le velavano gli occhi. Mentre ella leggeva il signor Zanche guardava la pendola.
— Avanza sette minuti; mi permette di regolargliela? Conosceva il Felix?
Egli si alzò e regolò la pendola.
— È stato ritrovato fra la neve.... — pensava Gavina; e si accorgeva che fino a quel momento aveva sperato che Priamo fosse ancora vivo. Ma la sua visione non l’aveva ingannata! Ed ora i parenti del disgraziato cercavano pietosamente di salvarne la memoria, coprendo l’odiosa verità con una menzogna, come la neve aveva tentato di coprire la spoglia....
Il signor Zanche sedette di nuovo e riordinò i suoi giornali; poi frugò nelle sue tasche e ne trasse un pacchettino che depose sul tavolinetto.
— Se vuole i giornali posso lasciarglieli. Lei conosceva il Felix? Crede lei che l’abbiano ucciso? Ho sentito dire che era uno scavezzacollo..
— Sì, è stato ucciso! — disse Gavina con forza; ma subito aggiunse: — può darsi che si tratti di suicidio. Egli era un tipo strano. Potranno accusare qualcuno? — domandò fissando in volto l’uomo che a sua volta la guardava con curiosità.
— Se si è ucciso non potranno accusare che lui!
Ella si alzò, guardò la pendola e disse:
— A momenti è qui mio marito. Mi permetta, un momento....
L’uomo non accennò ad andarsene; ella entrò nella sua camera, s’affacciò alla finestra e pianse.
— Dio mio, Dio mio, — mormorava, mentre le lagrime cadevano sulle sue mani intrecciate. — Perchè avete voluto questo? Perchè non mi avete illuminata? Perchè, perchè? Rispondetemi!
Ma ella sentiva che Dio era ben lontano da quella strada soleggiata, ove gli uomini amanti della vita avevano edificato le loro case deliziose, piccoli templi entro i quali essi vivevano adorando sè stessi.
Rientrando nella saletta vide che il signor Zanche rileggeva tranquillamente i suoi giornali e cominciò a provare una sorda irritazione contro di lui.
— Perdoni se devo apparecchiare, — gli disse sgarbatamente. — Mio marito sarà subito qui. Riceviamo la colazione dalla trattoria perchè la donna di servizio è malata.
— Se vuole posso cercargliene una io....
Egli si alzò, ma stette lì immobile a guardare come Gavina apparecchiava la tavola, finché non arrivò Francesco.
— Sai, Gavina, Priamo Felix s’è ucciso! — disse il giovane, appena entrò nella saletta.
— Lo so.... L’ho letto in un giornale che questo signore.... il signor Zanche.... tu lo conosci....
— Prego, s’accomodi. Sì, ci siamo incontrati qualche volta.... mi pare. Vuol favorire?
— Grazie, devo andare. Ho disturbato abbastanza la signora Gavina. Se occorre loro qualche cosa mi comandino.
— Mi occorrerebbero centomila lire; me le procuri — disse Francesco ridendo.
— E perchè no?
— Tu lo conosci? — domandò Gavina, appena il Zanche se ne fu andato.
— Credo sia un sensale. È un uomo disinteressato e servizievole e conosce tutti. Se tu qualche volta andrai fuori con lui vedrai....
— Perchè devo uscire con lui? — ella interruppe sdegnosamente. — Per andar dove? Nè con lui, nè con altri uomini: posso benissimo uscire sola, non mi smarrirò, e se mi smarrirò....
Ella parlava con dispetto, ma pensava a tutt’altra cosa che a un suo possibile smarrimento per le vie di Roma.
— Egli sapeva del suicidio e non me ne parlava! Non ha potuto tacere oltre, vedendo il signor Zanche e indovinando che avevo letto il giornale. Egli mi nasconde il suo pensiero, egli mi inganna e sa che lo inganno, — pensava, e sentiva una cupa irritazione contro Francesco e contro sè stessa. — Perchè evitare di parlarne? — si domandò poi, e disse esitando:
— Pare si tratti di un delitto....
Francesco, che s’era messo a tavola e mangiava con appetito, evitava di parlare dell’avvenimento, ma doveva pensarci perchè rispose pronto:
— E tu ci credi? Oh, no, no, non si tratta di un delitto. I parenti vorran dire così; ma egli s’è ucciso. Ed ha fatto benissimo.... era l’unica via che gli rimaneva aperta. Doveva finire così!
Il tono sdegnoso con cui egli pronunziò l’ultima frase finì d’irritare Gavina, i cui occhi, sotto le palpebre abbassate, brillarono di lagrime e di sdegno.
— Perchè, Francesco? Perchè doveva finire così? Aveva forse rubato? Forse ucciso? Ala neppure in questo caso uno devo uccidersi. Tu però non lo ammetti.... tu....
— Oh, certo! — egli disse tranquillamente, evitando di guardarla, — Uno che ha, diciamo, il coraggio di uccidere o di rubare ha pure il coraggio di andare avanti anche se innanzi a sè vede il carcere. Vi sono uomini che escono dal delitto e dalla punizione più risoluti di prima; risoluti a infrangere tutti gli ostacoli che impediscono loro di vivere secondo il loro istinto e il loro desiderio. Non discutiamo se questi uomini siano d’ammirarsi o no. Io non li ammiro, ma certo io non ammiravo neppure il disgraziato Priamo. Che poteva fare di meglio se non uccidersi, poiché non aveva il coraggio di sciogliere la catena che lo legava? Egli doveva morire. L’uomo non può vivere senza libertà o senza speranza di libertà.
— Eppure tanti ne fanno a meno, — ella disse, con un sorriso amaro.
— Vuol dire che non se ne accorgono.... o che sperano in un giorno di liberazione di là da venire! Ma egli, egli non poteva crearsi questa illusione. Era abbastanza intelligente per capire che soltanto la morte era per lui una liberazione....
— Chi sa? Chi può sapere....
— Eh, io lo conoscevo! Cioè l’ho conosciuto.... Anche ultimamente ho veduto le lettere che scriveva a Michela. Si capiva subito che era uno squilibrato e un vinto. Le scriveva come ad una creatura superiore che potesse comprenderlo, o meglio come se le lettere fossero dirette ad una donna ben diversa da lei.
— Ed essa te l’ha fatte leggere? Ma non si vergognava? — proruppe Gavina.
Un tremito l’assali. Strinse le ginocchia e i denti per frenarsi, e abbassò le palpebre, facendo come i bimbi che chiudono gli occhi per sfuggire all’attenzione di chi li osserva.
— Egli sa, — pensava, — egli ha capito per chi erano scritte quelle lettere....
— E perchè tu non mi hai parlato mai di questa corrispondenza?
— Non sapevo che t’interessasse!
— Non è vero! Tu sapevi....
— Ah, sì, eravate amiche....
— Amiche! Oh, no.... — ella disse con disprezzo. — Del resto non importa. Egli non si sarà ucciso per lei.
— Questo sì! Anche senza la storia di Michela egli l’avrebbe egualmente finita male.
— E allora? Perchè dicevi che egli.... che egli.... — ella ricominciò; e sembrava tanto irritata da non poter completare la sua domanda.
— Il male era antico! Chi può sapere tutto? Forse qualcuno è responsabile della sua morte. In tutti i suicidi, come in quasi tutti i delitti, v’è qualcuno che è responsabile più dello stesso suicida e dello stesso assassino. Se queste vittime, — perchè anch’essi per lo più son vittime, — non fossero per sè stesse dannose e quindi non riuscisse necessaria la loro soppressione, la società forse si deciderebbe a regolar meglio e subito la legge di responsabilità. E si arriverà certo a questo, quando la società appunto sarà meno egoista, e composta d’individui più coscienti.
— Ma se secondo «voi» nessuno è responsabile! — ella esclamò. E sollevò gli occhi, nei quali brillava un sorriso beffardo che contrastava con l’espressione cupa del suo viso.
Francesco corrugò la fronte o diventò pensieroso, quasi triste.
— Nessuno è responsabile, ma «tutti» dobbiamo comprenderlo. È il nostro scopo quello di far capire a «tutti» che l’irresponsabilità, appunto deve renderci cauti, prudenti, previdenti. I ciechi cadono meno spesso degli uomini dagli occhi sani. Io ti farò leggere....
— Niente! Io non credo ad una sillaba di quanto voi leggete o scrivete.... — ella interruppe con voce aspra — Non sono più una bambina. Ho veduto che cosa succede nella realtà. Tutto il resto è falso.
— Tu! Che cosa hai veduto tu?
— Ho veduto che spesso si crede di far del bene, e invece si fa del male.... Chi di noi non ha esperimentato questo?
— «Voi», — egli disse. E questa semplice parola finì di esasperarla.
— Ah, «noi?» — disse guardandolo da sotto in su, con occhi minacciosi. — E voi, voi fate soltanto del bene? Voi, voi? Coi vostri libri, forse? Ma se state a rovinare il mondo.
Egli sorrise, ridiventò allegro; sembrava felice di farla arrabbiare.
— E lo riedificheremo! — disse, con l’ espressione e l’accento dei bimbi che vogliono far stizzire i loro compagni. — Lo faremo bello, bello e forte, in modo che non caschi più.
— Intanto, intanto....
— Che cosa, intanto?
— Intanto aiutate i delinquenti, con lo scusarli....
— Ma i delinquenti li avete creati voi! Voi, sì, e se occorre....
Egli esitò: ella lo fissò in viso, con uno sguardo di sfida.
— Vedrai, Gavina; vedrai cosa succederà adesso! I parenti di Priamo faranno un’altra vittima, ora, per salvare la fama del morto e l’onore della chiesa! C’è della gente che mentisce fino al delitto.
Gavina tacque, sdegnata in apparenza, ed egli non insistè. Lo sdegno di lei nascondeva però un vago terrore; ella fu per alzarsi, correre a prendere la lettera del morto; ma l’orgoglio e la diffidenza la fermarono. Se Francesco alludeva a lei tanto peggio per lui, che pretendeva di conoscerla anche prima di sposarsi. Ella non gli doveva alcuna spiegazione; non aveva alcun obbligo di umiliarsi davanti a lui e confessargli la sua menzogna. Poteva dirgli che aveva taciuto fino a quel momento per un senso di tenerezza e di pudore, ma egli non avrebbe creduto perchè forse non credeva più in lei, e avrebbe detto che ella ricorreva a lui per debolezza, nel momento del pericolo. Ma come un velo di nebbia le scese intorno; fu assalita da tutte le incertezze e i terrori di uno che attraversa una foresta e smarrisce la strada.
Durante il resto della giornata non fece che domandarsi:
— E se qualcuno verrà accusato?
Il suo pensiero ricorreva incessantemente al canonico Bellìa, ma con irritazione, quasi con odio. «Lui, lui dovrà rimediare a tutto» pensava. Suo malgrado le parole di Francesco le causavano un dolore incessante, ora intenso, ora acuto, come quello di una ferita; e non osava confessarlo a sè stessa, ma pensava al suo ex-confessore come ad un complice, e soltanto l’idea di ricordargli la sua parte di «responsabilità» e costringerlo ad evitare un nuovo delitto le dava un amaro conforto.
Del resto la giornata passò tranquilla. Francesco non le parlò più del losco avvenimento, e si mostrò come al solito affettuoso e tenero.
L’indomani mattina ella uscì sola, dirigendosi fuori le mura. La sua irritazione era sparita; ma le rimaneva in cuore un peso, un’inquietudine paurosa, come per un guaio imminente. La giornata era triste e fredda: il cielo coperto di nuvole d’un grigio terreo dava l’idea d’una pianura paludosa, e le strade piene di polvere sembravano strade di campagna. Ella camminava sotto gli alberi spogli di un viale: vide un cocchiere immobile sul suo seggio, livido come un cadavere congelato dal freddo; sentì un odore di foglie fracide e di terra umida, sollevò gli occhi e scorse una chiesetta violacea e melanconica. Entrò e s’inginocchiò per terra, accanto ad una colonna. L’interno della chiesa era oscuro, ma come dei sottili raggi di luna penetravano qua e là, illuminando vagamente i cornicioni dorati, e una lampada rossa brillava in lontananza come un faro tra la nebbia. Gavina ebbe di nuovo, come nella chiesa di San Bernardo, un’impressione lugubre; le parve di trovarsi in una grande tomba fantasticamente decorata d’oro, e per la seconda volta si accorse che non poteva pregare.
Come una paralisi aveva colpito il suo sentimento religioso; e per alcuni momenti anche lei rimase immobile e fredda e le parve di morire. Ma a poco a poco si rianimò e con uno sforzo di volontà riuscì a scuotere la sua fede intorpidita. Preghiere strane e insensate le risalirono dal profondo del cuore; domandò di morire, di soffrire, di essere colpita in ciò che aveva di più caro al mondo, e per tormentarsi meglio pensò a colui che era morto per lei: le sembrava di vederlo, nero sulla neve della montagna, purificato dalla morte: e si chinava sul pavimento come avrebbe voluto curvarsi su lui per domandargli perdono.
A un tratto s’alzò, s’appoggiò alla colonna e si mise a piangere. Una pietà infinita la vinceva, per la sua vittima, per lei, per Francesco, ma questo sentimento invece di confortarla aumentava la sua disperazione.
Al ritorno trovò il signor Zanche davanti al portone; egli salì con lei, sebbene non invitato, e le domandò famigliarmente dove era stata.
— In chiesa. Ed a momenti uscirò ancora, — ella disse con freddezza, curvandosi davanti alla porta che non riusciva ad aprire.
— Dia a me. Ecco, bisogna tirare la porta e girare lievemente la chiave: ecco aperto. Pare che l’abbiano assassinato davvero, quel prete....
— Ha i giornali? — ella domandò sottovoce.
— Eccoli. È qui, è qui, seconda pagina, terza colonna. «Delitto o suicidio?»
E Gavina scorse rapidamente il giornale, mentre il signor Zanche riprendeva tranquillamente possesso della saletta da pranzo.
La corrispondenza descriveva i funerali di Priamo, e dava notizia dell’autopsia della quale si teneva nascosto il risultato.
«Posso darvi però alcuni particolari interessanti: dal portafoglio della vittima mancava un biglietto da 50 lire. L’arma di cui egli si servì, o che servì all’assassino, è una pistola appartenente al guardiano della chiesa di San Teodoro, un vecchio stravagante, noto poeta estemporaneo. Pare che l’assassinio sia avvenuto per scopo di furto. Il guardiano, la mattina del delitto, si assentò dalla chiesa, e alcuni assicurano che lo stesso giorno cambiò il foglio da 50 lire sparito dal portafoglio della vittima. Altri però notano che se il vecchio avesse voluto rubare, la chiesa contiene oggetti di grande valore. Ad ogni modo egli è scomparso ed è ricercato dai carabinieri, questo mi risulta in modo positivo.»
— Egli è scomparso, perchè? — si domandò Gavina. E provò un senso di sollievo perchè l’ingiusta accusa colpiva zio Sorighe e non un altro: forse un istinto di rancore e di disprezzo contro il vecchio, che ella aveva sempre considerato come un essere spregievole, risaliva dal fondo tenebroso della sua anima; ma dopo il primo istante di smarrimento ella capì ciò che doveva fare.
Corse nella sua camera, prese la lettera di Priamo e l’avvolse in un foglietto sul quale scrisse queste parole: «lettera portata da zio Sorighe a G. la mattina dell’8 gennaio», poi chiuse tutto in una busta che indirizzò al canonico Bellìa.
— Bisogna che esca ancora.... Devo raccomandare questa lettera.... C’è un ufficio postale qui vicino? — domandò al signor Zanche.
L’uomo osservò che ella era pallida e batteva i denti, e la guardò come aspettando una confidenza.
— È qui, in via Boncompagni. Se vuole posso andare io.
Ma Gavina rispose sgarbatamente:
— No, vado io.
Egli s’alzò e la seguì; ma prima di uscire depose un involtino sulla tavoletta.
Quando Francesco rientrò Gavina apparecchiava la tavola, ed era pallida ma calma, decisa a nascondergli persino la visita del signor Zanche; egli però vide l’involtino e lo aprì con curiosità di bimbo goloso. C’eran dentro otto datteri che sembravano grosse perle d’un bruno dorato e trasparente.
*
Nel pomeriggio arrivò una lettera scritta da Luca a nome di sua madre, e Gavina l’aprì con ansia, cercando le notizie che la interessavano.
«Pare che ziu Sorighe, prima di ripartire, dopo che stette a casa nostra, abbia fatto qualche spesa cambiando un biglietto da cinquanta lire appartenente a Priamo. Noi però lo riteniamo innocente: egli senza dubbio si è nascosto per non essere arrestato, in attesa che venga proclamata la sua innocenza».
— Mia madre ti saluta, — disse Gavina a Francesco, senza fargli leggere la lettera; e attese che egli le rivolgesse qualche domanda, pronta a rispondergli con una menzogna. Ma egli tacque.
*
I giorni passavano.
Ogni mattina Francesco si alzava presto e andava alla clinica oculistica dov’era assistente: nel pomeriggio, se il tempo era cattivo, eseguiva qualche esperimento nel suo gabinetto e allora pareva si dimenticasse completamente di sua moglie, quasi stanco delle carezze che le prodigava nelle ore di riposo. Il tempo era freddo e triste. Come un velo d’acqua ondulava nell’aria, agitato da un vento incessante; di tanto in tanto la pioggia scrosciava e pareva uno scoppio di pianto universale, attraversato da gridi, da lamenti, da minaccie furiose: e Gavina, rannicchiata presso la finestra, si sentiva coinvolta in quella disperazione di tutte le cose. Suo malgrado, nonostante i ricordi poco lieti della sua vita passata, la nostalgia la vinceva. Di notte sognava costantemente di trovarsi a casa sua o in chiesa; scendeva con Paska alla fontana, chiamava Michela e litigava con lei a proposito di Francesco. E invariabilmente la figura di zio Sorighe appariva nei suoi sogni, dandole un senso d’inquietudine e di rimorso.
Quasi tutte le mattine il signor Zanche le portava i giornali dell’isola e involtini con dolci e frutta. Una mattina le portò due uova fresche. Egli le raccontava le vicende domestiche di artisti e giornalisti suoi amici, ma ella ascoltava distratta, diffidente, e spesso lo lasciava solo. Allora egli leggeva tranquillamente i suoi giornali, poi se ne andava ripetendo la solita offerta:
— Se le occorre qualche cosa mi comandi.
A Gavina sembrava che il signor Zanche indovinasse il dramma che si svolgeva entro di lei, e venisse per confortarla tacitamente o per offrirle aiuto. Ella sdegnava questo conforto e quest’aiuto, ma la presenza di quell’uomo le diventava necessaria perchè ella aveva paura di star sola coi suoi fantasmi e le sue inquietudini.
Dopo colazione Francesco andava a letto, conservando l’usanza del suo paese, e dormiva. Invitata, trascinata da lui, presa dal torpore del tempo piovoso e dalla stanchezza dei suoi pensieri tristi, ella lo imitava.
Quando si svegliava, Francesco la prendeva fra le braccia e la copriva di baci e di carezze; e pareva un altro; non scherzava più, non era più l’uomo freddo e calmo che ella aveva veduto nel gabinetto attiguo. Egli le parlava delirando, la chiamava coi nomi più dolci, ma diventava triste, e i suoi occhi, nei momenti di voluttà, esprimevano un dolore profondo; ed ella cercava la spiegazione di questo mistero. Dopo i primi giorni di smarrimento e di ripugnanza cominciò a credere che egli dubitasse di lei e soffrisse accorgendosi della sua insensibilità fisica e dei suoi affanni; e allora, nonostante l’orgoglio che la allontanava da lui, si creò un’altra inquietudine: ebbe paura di renderlo infelice.
— Basta, basta! — pensò. — Ho fatto sempre del male, sempre delle vittime. Ora basta.
E le sembrò di compiere un dovere restituendogli le sue carezze, imitando i suoi baci; ed egli, vedendola animarsi, provò quasi il delirio e la meraviglia dell'artefice a cui pare che la figura da lui plasmata palpiti come una creatura vivente.
— Tu dunque mi ami, Gavina! Amami, amami, diventiamo uno solo!
Ella arrossì, ma si accorse che incominciava ad amarlo davvero, e che l’amore e non il dovere le insegnava a corrispondergli.
Tuttavia vide ancora negli occhi di lui un’espressione d’angoscia, e s’accorse che anche lei soffriva; e le parve che quello che le avevano insegnato a considerare come il supremo peccato, la suprema gioia, fosse invece il supremo dolore.